"Le autorità israeliane devono essere chiamate a rendere conto
del crimine di apartheid contro i palestinesi".
È quanto ha dichiarato Amnesty International in un rapporto di 278 pagine pubblicato il 1°febbraio scorso nel quale descrive dettagliatamente il sistema di oppressione
e dominazione di Israele nei confronti della popolazione palestinese, ovunque
eserciti controllo sui loro diritti: i palestinesi residenti in Israele, quelli
dei Territori palestinesi occupati e i rifugiati che vivono in altri stati.
Riportiamo il testo dell'articolo postato sul sito della prestigiosa organizzazione internazionale con cui la stessa annuncia e motiva la sua dura condanna.
"Nel rapporto si legge che le massicce
requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti
forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e
cittadinanza ai danni dei palestinesi fanno parte di un sistema che,
secondo il diritto internazionale, costituisce apartheid. Questo sistema si
basa su violazioni dei diritti umani che, secondo Amnesty International, qualificano
l’apartheid come crimine contro l’umanità così come definito dallo
Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione
sull’apartheid.
Amnesty International chiede al Tribunale penale
internazionale di includere il crimine di apartheid nella sua indagine
riguardante i Territori palestinesi occupati e a tutti gli stati di esercitare
la giurisdizione universale per portare di fronte alla giustizia i responsabili
del crimine di apartheid".
“Il nostro rapporto rivela la reale dimensione del
regime di apartheid di Israele. Che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, a Hebron
o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e
sono sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo riscontrato che le
crudeli politiche delle autorità israeliane di segregazione, spossessamento ed
esclusione in tutti i territori sotto il loro controllo costituiscono
chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire”, ha
dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
“Non è possibile giustificare in alcun modo un sistema
edificato sull’oppressione razzista, istituzionalizzata e prolungata, di
milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che
scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato
sbagliato della storia. I governi che continuano a fornire armi a Israele e lo
proteggono dai meccanismi di accertamento delle responsabilità delle Nazioni
Unite stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine
giuridico internazionale ed esacerbando la sofferenza della popolazione
palestinese. La comunità internazionale deve affrontare la realtà
dell’apartheid israeliano e dare seguito alle molte opportunità di cercare
giustizia che rimangono vergognosamente inesplorate”, ha aggiunto
Callamard.
Le conclusioni di Amnesty International sono rafforzate
da un crescente lavoro di organizzazioni non governative palestinesi,
israeliane e internazionali che sempre più spesso applicano la definizione di
apartheid alla situazione in Israele e/o nei Territori palestinesi occupati."
Questi i principali
punti esaminati nel rapporto
L’IDENTIFICAZIONE DELL’APARTHEID
Un sistema di apartheid è un regime istituzionalizzato
di oppressione e di dominazione di un gruppo razziale su un altro. È una grave
violazione dei diritti umani vietata dal diritto pubblico internazionale. Le
ampie ricerche e l’analisi giuridica condotte da Amnesty International insieme
a esperti esterni all’organizzazione dimostrano che Israele attua un
sistema di questo tipo nei confronti dei palestinesi attraverso leggi,
politiche e prassi che assicurano trattamenti discriminatori crudeli e
prolungati.
Nel diritto penale internazionale, specifici atti
illegali commessi nel contesto di un sistema di oppressione e di dominazione
con lo scopo di mantenerlo costituiscono il crimine contro l’umanità di
apartheid. Questi atti sono descritti nella Convenzione sull’apartheid e nello
Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e comprendono le uccisioni
illegali, la tortura, i trasferimenti forzati e il diniego dei diritti e delle
libertà basilari.
Amnesty International ha documentato atti vietati
dalla Convenzione sull’apartheid e dallo Statuto di Roma del Tribunale penale
internazionale in tutte le aree sotto il controllo israeliano, sebbene si
verifichino con maggiore frequenza nei Territori palestinesi occupati piuttosto
che in Israele.
Le autorità israeliane hanno introdotto tutta una
serie di misure per negare deliberatamente i diritti e le libertà basilari ai
palestinesi, anche attraverso drastiche limitazioni al movimento nei Territori
palestinesi occupati, i cronici e discriminatori minori investimenti a favore
delle comunità palestinesi residenti in Israele e il diniego del diritto al
ritorno dei rifugiati. Il rapporto diffuso oggi documenta inoltre i trasferimenti
forzati, la detenzione amministrativa, la tortura e le uccisioni illegali sia
in Israele che nei Territori palestinesi occupati.
Amnesty International ha rilevato che questi atti
formano parte di attacchi sistematici e diffusi contro la popolazione
palestinese, commessi allo scopo di mantenere il sistema di oppressione e di
dominazione. Pertanto, costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid.
L’uccisione illegale di manifestanti palestinesi è forse il più chiaro
esempio di come le autorità israeliane ricorrano ad atti vietati per mantenere
il loro status quo. Nel 2018 i palestinesi di Gaza avviarono proteste
settimanali lungo il confine con Israele per affermare il diritto al ritorno
dei rifugiati e chiedere la fine del blocco. Ancora prima che le proteste
avessero inizio, alti funzionari israeliani avvisarono che contro i palestinesi
che si fossero avvicinati al confine sarebbe stato aperto il fuoco. Alla fine
del 2019, le forze israeliane avevano ucciso 214 civili palestinesi,
tra cui 46 minorenni.
Alla luce delle sistematiche uccisioni illegali di
palestinesi documentate nel suo rapporto, Amnesty
International chiede al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di imporre
un embargo totale sulle armi verso Israele. Questo embargo, a causa
delle migliaia di uccisioni illegali di palestinesi compiute dalle forze
israeliane, dovrebbe comprendere tutte le armi e le munizioni, così come le
forniture di sicurezza. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe imporre anche
sanzioni mirate, come il congelamento dei beni dei funzionari israeliani
implicati nel crimine di apartheid.
PALESTINESI TRATTATI COME UNA
MINACCIA DEMOGRAFICA
Dalla sua costituzione nel 1948, Israele ha
portato avanti politiche per istituire e mantenere una maggioranza demografica
ebrea e per massimizzare il controllo sulle terre e sulle risorse a
vantaggio degli ebrei israeliani. Nel 1967 Israele ha esteso tali politiche
alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza.
Oggi tutti i territori controllati da Israele
continuano a venire amministrati allo scopo di beneficiare gli ebrei
israeliani a scapito dei palestinesi, mentre i rifugiati palestinesi continuano
a essere esclusi.
Amnesty International riconosce che gli ebrei, come i
palestinesi, rivendicano il diritto all’autodeterminazione e non contesta il
desiderio di Israele di essere una patria per gli ebrei. Analogamente, non
considera che la definizione che Israele dà di sé stesso come di “uno stato
ebreo” indichi di per sé l’intenzione di opprimere e dominare.
Via via, però, i governi israeliani hanno considerato
i palestinesi una minaccia demografica e hanno imposto misure per controllare e
farne decrescere la presenza e l’accesso alle terre in Israele e nei Territori
palestinesi occupati. Questi intenti demografici sono ben illustrati dai
progetti ufficiali di “ebraizzare” aree di Israele e della
Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, che continuano a esporre migliaia di
palestinesi al rischio di un trasferimento forzato.
OPPRESSIONE SENZA FRONTIERE
Le guerre del 1947-49 e del 1967, il controllo
militare di Israele sui Territori palestinesi occupati e la creazione di regimi
giudiziari e amministrativi distinti hanno separato le comunità palestinesi e
le hanno segregate dagli ebrei israeliani. I palestinesi sono frammentati
geograficamente e politicamente e subiscono vari livelli di discriminazione a
seconda del loro status e di dove vivano.
I palestinesi israeliani godono di maggiori diritti e
libertà rispetto a quelli dei Territori palestinesi occupati, mentre
l’esperienza dei palestinesi di Gaza è molto differente da quella di coloro che
vivono in Cisgiordania. Nondimeno, le ricerche di Amnesty International hanno
concluso che tutti i palestinesi sono sottoposti al medesimo sistema
sovrastante. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele persegue lo
stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle
terre e delle risorse e ridurre al minimo la presenza dei palestinesi e il loro
accesso alla terra.
Amnesty International può dimostrare che le autorità
israeliane trattano i palestinesi come un gruppo razziale inferiore, definito
dal loro status non-ebreo e arabo. Questa discriminazione razziale affonda le
radici in leggi che colpiscono i palestinesi sia in Israele che nei Territori
palestinesi occupati.
Ad esempio, ai palestinesi residenti in
Israele viene negata la nazionalità e ciò costituisce una differenziazione
giuridica rispetto agli ebrei israeliani. In Cisgiordania e a Gaza, dove
Israele controlla il registro anagrafico sin dal 1967, i palestinesi non hanno
alcuna cittadinanza, molti sono considerati apolidi e devono chiedere carte
d’identità all’esercito israeliano per vivere e lavorare nei territori.
I rifugiati palestinesi e i loro discendenti, sfollati nelle
guerre del 1947-49 e del 1967, continuano a vedersi negato
il diritto al ritorno nel loro precedente luogo di residenza. L’esclusione
dei rifugiati da parte di Israele è una evidente violazione del diritto
internazionale che lascia milioni di persone in un limbo perpetuo di
sfollamento forzato.
I palestinesi dell’annessa Gerusalemme Est hanno un
permesso permanente di residenza anziché la cittadinanza e, peraltro, questo
status è permanente solo sulla carta. Dal 1967, il ministero dell’Interno ha
revocato a sua discrezione la residenza a oltre 14.000 palestinesi, che sono
stati trasferiti a forza fuori dalla città.
CITTADINI DI LIVELLO INFERIORE
I cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono
circa il 21 per cento della popolazione, subiscono svariate forme di
discriminazione istituzionale. Nel 2018 tale discriminazione è stata
cristallizzata in una legge costituzionale che, per la prima volta, descrive
Israele come “stato-nazione del popolo ebreo”, promuove la costruzione
degli insediamenti ebraici e degrada l’arabo da lingua ufficiale a lingua con
uno status speciale.
Il rapporto di Amnesty International documenta
come i palestinesi non possano effettivamente stipulare contratti di
locazione sull’80 per cento dei terreni di stato israeliani a seguito
di requisizioni razziste di terreni e di una serie di leggi discriminatorie
sull’assegnazione delle terre, di piani edilizi e di regolamenti urbanistici
locali.
La situazione della regione del Negev/Naqab, nel sud
di Israele, è un efficace esempio di come le politiche e i piani edilizi
israeliani escludano intenzionalmente i palestinesi. Dal 1948 le autorità
israeliane hanno adottato svariate politiche per “ebraizzare” la
regione, ad esempio designando ampie zone come riserve naturali o poligoni di
tiro e stabilendo obiettivi di crescita della popolazione ebraica. Ciò ha avuto
conseguenze devastanti per le decine di migliaia di beduini palestinesi che
vivono nella regione.
Attualmente 35 villaggi beduini in cui risiedono circa
68.000 persone, sono “non riconosciuti” da
Israele: ciò significa che non hanno forniture di corrente elettrica e di
acqua e sono soggetti a ripetute demolizioni. Poiché questi villaggi non hanno
uno status ufficiale, i loro abitanti subiscono limitazioni nella
partecipazione politica e sono esclusi dal sistema sanitario e da quello
educativo. Di conseguenza, in molti sono stati costretti a lasciare le
loro case: ciò costituisce trasferimento forzato.
Decenni di deliberato trattamento iniquo dei
palestinesi residenti in Israele ha determinato per loro un profondo svantaggio
economico rispetto agli ebrei israeliani. Questa condizione è acuita
dall’assegnazione evidentemente discriminatoria delle risorse di stato, un
esempio della quale è il recente piano governativo di ripresa dalla pandemia da
Covid-19: solo l’1,7 per cento delle risorse è stato assegnato alle autorità
locali palestinesi.
LO SPOSSESSAMENTO
Lo spossessamento e lo sfollamento dei palestinesi
dalle loro abitazioni è un pilastro determinante del sistema israeliano di
apartheid. Dalla sua istituzione, lo stato israeliano ha eseguito massicce e
crudeli requisizioni di terre palestinesi e continua ad applicare una miriade
di leggi e politiche che forzano la popolazione palestinese a risiedere in
piccole enclavi. Dal 1948 Israele ha demolito centinaia di migliaia di
case e di altre strutture palestinesi in tutte le aree sotto la sua
giurisdizione e sotto il suo effettivo controllo.
Come nella regione del Negev/Naqab, i
palestinesi di Gerusalemme Est e dell’area C dei Territori palestinesi occupati
vivono sotto totale controllo israeliano. Le autorità negano ai
palestinesi il permesso di costruire in queste zone, non lasciando loro altra
alternativa che edificare strutture illegali che vengono via via demolite.
Nei Territori palestinesi occupati, la continua
espansione degli insediamenti israeliani – una politica attuata dal 1967 –
rende ancora più grave la situazione. Oggi gli insediamenti coprono il 10 per
cento delle terre della Cisgiordania. Tra il 1967 e il 2017 circa il 38
per cento delle terre palestinesi di Gerusalemme Est è stato espropriato.
I quartieri palestinesi di Gerusalemme Est sono spesso
presi di mira da organizzazioni di coloni che, col pieno appoggio del governo
israeliano, agiscono per sfollare le famiglie palestinesi e annettere le loro
case. Uno di questi quartieri, Sheikh Jarrah, è al centro di frequenti proteste
dal maggio 2021: le famiglie che vi risiedono cercano di difendere le loro case
dalle minacce degli esposti di sgombero presentati dai coloni.
DRASTICHE LIMITAZIONI DI MOVIMENTO
Dalla metà degli anni Novanta le autorità israeliane
hanno imposto sempre più stringenti limitazioni al movimento dei
palestinesi nei Territori palestinesi occupati. Un reticolato
di checkpoint militari, posti di blocco, barriere e altre strutture controlla
il loro movimento e limita i loro spostamenti in Israele o all’estero.
Una barriera di 700 chilometri, che Israele sta
ancora ampliando, ha isolato all’interno di “zone militari” le
comunità palestinesi che, per entrare e uscire dalle loro abitazioni devono
ottenere più permessi speciali. A Gaza oltre due milioni di palestinesi
vivono in una crisi umanitaria creata dal blocco israeliano. È quasi
impossibile per i gazani viaggiare all’estero o nel resto dei Territori
palestinesi occupati: di fatto, sono segregati dal resto del mondo.
“Per i palestinesi, la difficoltà di viaggiare
all’interno e all’esterno dei Territori palestinesi occupati è un costante
ricordo del fatto che sono privi di potere. Ogni loro singolo movimento è
soggetto all’approvazione dell’esercito israeliano e la più semplice attività
quotidiana è condizionata da una rete di controlli violenti”, ha commentato
Callamard.
“Il sistema dei permessi nei Territori occupati
palestinesi è l’emblema della patente discriminazione di Israele contro i
palestinesi. Mentre loro sono circondati da un blocco, fermi per ore ai
checkpoint o in attesa che sia rilasciato l’ennesimo permesso per circolare, i
cittadini e i coloni israeliani possono muoversi come desiderano”, ha sottolineato
Callamard.
Amnesty International ha esaminato ciascuna delle
giustificazioni di sicurezza addotte da Israele come base per il trattamento
dei palestinesi. Sebbene alcune delle politiche israeliane possano essere state
elaborate per conseguire obiettivi di sicurezza legittimi, esse sono state
attuate in un modo enormemente sproporzionato e discriminatorio e non in regola
col diritto internazionale. Altre politiche non mostrano alcuna ragionevole
base in termini di sicurezza e derivano chiaramente dall’intenzione di
opprimere e dominare.
I PROSSIMI PASSI
Il rapporto di Amnesty International contiene numerose
raccomandazioni specifiche affinché Israele possa smantellare il sistema di apartheid
e la discriminazione, la segregazione e l’oppressione che lo sostengono.
L’organizzazione per i diritti umani chiede in primo
luogo la fine delle pratiche brutali delle demolizioni delle abitazioni
e degli sgombri forzati.
Inoltre, Israele deve riconoscere uguali
diritti a tutti i palestinesi in Israele e nei Territori palestinesi occupati,
come prevedono i principi del diritto internazionale dei diritti umani e del
diritto internazionale umanitario; deve riconoscere il diritto dei rifugiati e
dei loro discendenti al ritorno nelle abitazioni dove loro o i loro familiari
vivevano; deve fornire piena riparazione alle vittime delle violazioni dei
diritti umani e dei crimini contro l’umanità.
La dimensione e la gravità delle violazioni
documentate nel rapporto di Amnesty International richiedono un
drastico cambiamento dell’approccio della comunità internazionale alla crisi
dei diritti umani in atto in Israele e nei Territori palestinesi occupati.
Tutti gli stati possono esercitare la giurisdizione
universale nei confronti di persone ragionevolmente sospettate di aver commesso
il crimine di apartheid. Gli stati parte dello Statuto di Roma del Tribunale
penale internazionale hanno l’obbligo di farlo.
“La risposta internazionale all’apartheid non deve più
limitarsi a blande condanne e a formule ambigue. Se noi non ne affronteremo le
cause di fondo, palestinesi e israeliani rimarranno intrappolati nel ciclo di
violenza che ha distrutto così tante vite. Israele deve smantellare il sistema
dell’apartheid e iniziare a trattare i palestinesi come esseri umani con uguali
diritti e dignità. Se non lo farà, la pace e la sicurezza resteranno una
prospettiva lontana per gli israeliani come per i palestinesi”, ha concluso
Callamard.
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