In questa
intervista pubblicata da nena-news nel febbraio scorso Miassar
Ateyani così sintetizza il lavoro che lei e le donne palestinesi che fanno capo al Gupw svolgono nei territori occupati da Israele e l'ideologia che le ispira:
“La liberazione delle donne dalla cultura patriarcale deve diventare il movimento
propulsore più importante della lotta del popolo palestinese contro il
colonialismo. Non dobbiamo relegare in secondo piano la difesa dei nostri
diritti di donne: noi combattiamo la violenza dell’occupazione combattendo la
violenza sociale che gli uomini esercitano su di noi”
Chi è Miassar
Ateyani.
Miassar Ateyani, classe 1964, è la direttrice dell’ufficio di Nablus (Cisgiordania) della General Union of Palestinian Women (Gupw), ramo dell’Olp che si occupa delle donne palestinesi nei Territori occupati e nella diaspora. La Gupw è stata fondata nel 1965, pochi mesi la fondazione della stessa OLP. La storia personale di Miassar è una lunga storia di militanza politica: da sempre attiva nella sinistra radicale palestinese, Miassar è stata ripetutamente detenuta nelle carceri israeliane
Ecco il testo dell’intervista
di Wolfram Kuck
Ci può descrivere le
attività che svolgete come Gupw, il modo in cui intervenite nella società
palestinese e il quadro teorico di analisi a cui fate riferimento?
Noi abbiamo un
piano per combattere l’occupazione. Sosteniamo che la lotta di liberazione
delle donne dalla cultura patriarcale debba diventare il movimento propulsore
più importante della lotta del popolo palestinese contro l’occupazione e il
colonialismo. Per questo nelle nostre attività i piani si intrecciano, ci
occupiamo della liberazione delle donne per liberare la Palestina. Sin
dall’inizio, nella lotta di liberazione palestinese, le donne hanno ricoperto
un ruolo importante, come combattenti hanno compiuto operazioni militari contro
l’occupazione. Un esempio su tutti, Leyla Khaled. Molte donne sono state
imprigionate nel corso dei decenni. E ancora oggi molte donne sono incarcerate.
Noi come Gupw ci
prendiamo cura delle donne prigioniere, sia mentre sono in stato di detenzione
sia dopo il loro rilascio. Così come ci occupiamo delle donne che vivono nei
campi profughi oppure nei villaggi della Valle del Giordano. Tante energie le
investiamo nel sostenere le ragazze che studiano all’università. Sosteniamo
coloro che studiano e incoraggiamo tutte le altre a farlo. Parliamo con le
famiglie e le invitiamo a permettere l’iscrizione delle loro figlie
all’università e di sostenerle economicamente. Crediamo fermamente nello studio
e nella formazione superiore come arma di riscatto. Altro nostro punto di
intervento centrale è la campagna di boicottaggio di Israele. Non solo siamo
parte attiva della grande campagna Bds, ma abbiamo anche fondato uno specifico
comitato di donne per il boicottaggio. Con questo comitato andiamo a bussare
casa per casa, entriamo a parlare con le donne per convincerle a boicottare i
prodotti israeliani che trovano nei negozi. Insegniamo alle donne anche a
riconoscere quei prodotti e proponiamo tutta una serie di alternative. Con il
comitato per il boicottaggio andiamo anche nelle scuole e parliamo con gli
studenti. Insegniamo loro come si fa a boicottare i prodotti israeliani. Sembra
una banalità ma, in un’economia sotto occupazione e colonizzata come lo è la
nostra, il boicottaggio dei prodotti dell’occupante colonizzatore non è affatto
semplice. Bisogna saper riconoscere quei prodotti, scoprire quali trucchetti
usano per camuffarli, bisogna soprattutto avere delle alternative e sapere dove
si possono andare a reperire.
Insegnare tutto ciò
ai giovanissimi che frequentano le scuole è un lavoro che consideriamo di
fondamentale importanza. Poi nelle scuole, oltre a quello appena detto,
proviamo con gli studenti più interessati e motivati a ideare degli spot e
delle campagne a favore del boicottaggio. Collaboriamo stabilmente anche con le
facoltà di Media e Giurisprudenza dell’Università di Nablus e proviamo a far
incontrare liceali e universitari e farli lavorare insieme nell’ideazione di
nuove campagne di promozione del boicottaggio. Con il comitato entriamo anche
negozio per negozio nei quartieri di Nablus e ci mettiamo a parlare con tutti i
clienti che entrano e consigliandoli di comprare prodotti locali, o comunque
non israeliani. Il boicottaggio poi non si limita all’ambito economico. Ci
spendiamo molto anche per il boicottaggio culturale, ovvero il rifiuto di
collaborazione con le università o altri istituti di ricerca che in un modo o
nell’altro sostengono l’occupazione. C’è poi anche tutto l’aspetto dello
spettacolo, con il boicottaggio degli eventi sportivi o artistici. Ovviamente
su questa tema del boicottaggio lavoriamo molto con gli internazionali; una
campagna di boicottaggio dell’occupazione e dell’apartheid può funzionare solo
se è una grande campagna a livello internazionale. Come Gupw sosteniamo e
partecipiamo a tutte le manifestazioni contro le colonie illegali.
Non ci
dimentichiamo di sostenere quelle famiglie o comunità le cui case si trovano al
di là del muro dell’apartheid e la cui vita è diventata un labirinto di
checkpoint, orari di chiusura e apertura, controlli militari, minacce di
demolizione delle case e tutto il corollario classico dell’occupazione
coloniale. Combattiamo quotidianamente contro tutti i molteplici tentativi di
normalizzazione dell’occupazione, ovvero il tentativo di farci accettare lo
status quo dell’occupazione come un dato di fatto con cui convivere con
rassegnazione e in cui provare a svolgere una vita normale, come se niente
fosse. Stiamo vicine e non lasciamo sole nel dolore tutte le madri che hanno
perso un figlio o una figlia, uccisi dai soldati israeliani. Oppure sosteniamo
tutte quelle famiglie che hanno perso una donna per mano dell’occupazione, che
sia una figlia, una madre o una nonna. Invitiamo sempre le famiglie a
denunciare gli omicidi e affrontare il processo, offrendoci di seguirle passo
passo in tutta la fase processuale. E’ chiaro che non crediamo nei tribunali e
nella giustizia dell’occupante ma crediamo anche che sia importante mostrare al
mondo tutta l’ipocrisia del sistema dell’occupazione che nella stragrande
maggioranza dei casi assolve i suoi soldati assassini. Inoltre, con quelle
sentenze di assoluzione possiamo rivolgerci ad altre istituzioni internazionali
e combattere così l’occupazione su piani diversi.
Incoraggiamo il
lavoro manuale tradizionale delle donne e organizziamo periodicamente dei
mercatini in cui provare a vendere questi prodotti. In questo modo proviamo a
generare piccole entrare di reddito per le donne per favorire la loro
autonomia. Ovviamente come Gupw un momento centrale della nostra attività è l’8
marzo. Ogni anno incentriamo la nostra manifestazione sulla richiesta di
libertà per tutte le donne prigioniere. E’ un momento di grande visibilità e
quindi decidiamo di sfruttarlo per parlare della condizione delle nostre
sorelle in prigione. Irrinunciabile per noi è andare ogni 8 marzo in corteo
verso un checkpoint della nostra città a urlare la nostra rabbia in faccia ai
soldati per la prigione a cielo aperto in cui l’occupazione ci costringe a
vivere e per chiedere di poter riavere tra di noi e riabbracciare le nostre
sorelle sequestrate nelle prigioni dell’occupante. Ogni anno poi, in prossimità
dell’8 marzo, organizziamo conferenze, iniziative e incontri con tutte le
organizzazioni delle donne palestinesi per rinsaldare e rafforzare l’unità
d’azione. In questo periodo poi come Gupw stiamo lavorando all’organizzazione
del nostro sesto congresso. Lo stiamo immaginando come una sorta di conferenza
internazionale delle donne. Infatti, oltre alle donne palestinesi nei campi
profughi di Siria, Libano e Giordania, stiamo invitando anche delegazioni dal
Sud America, dal Cile e dal Brasile.
Può entrare più nello
specifico sulla tua visione delle donne nella società e nella lotta
palestinese?
Lo dico molto
francamente: le donne soffrono di più sotto l’occupazione militare ed è proprio
a causa di questa sofferenza che le donne palestinesi sono donne molto forti.
Fin dall’inizio della nostra lotta ci sono sempre state delle combattenti e
ancora oggi è così. Perché le donne che sono in prigione sono delle
combattenti. Le giovani ragazze che attaccano i checkpoint militari sono delle
combattenti. Le donne palestinesi si considerano ancora delle combattenti. In
questo non è cambiato nulla. Le donne sono quindi coinvolte nella rivoluzione
palestinese. Questo coinvolgimento riguarda ambiti anche molto diversi: ci sono
le giovani donne che continuano a studiare nonostante le mille difficoltà e riescono
a formare una loro competenza, ci sono le donne che si attivano per il
boicottaggio di Israele e quelle che non permettono ai soldati di entrare nelle
loro case quando vengono per arrestare dei loro familiari. Poi ci sono
ovviamente le donne che fanno la resistenza. Le donne sotto l’occupazione
soffrono il doppio. Se guardi negli occhi di una donna palestinese puoi leggere
l’orgoglio di essere palestinese, perché siamo donne forti. I nostri sono occhi
bellissimi. Purtroppo, visto che viviamo questa terribile situazione di
occupazione militare, spesso ci scordiamo dei nostri diritti di donne, o meglio
li mettiamo in secondo piano. Per esempio, ci scordiamo che non dobbiamo
permettere che una ragazza si sposi prima dei 18 anni. Oppure ci scordiamo che
dobbiamo difendere i diritti di ogni donna nel matrimonio, come anche nel
divorzio.
Come Gupw quindi abbiamo fatto la
precisa scelta di non relegare in secondo piano, per via dell’occupazione, la
difesa dei nostri diritti di donne. Anzi, abbiamo deciso di concentrarci
proprio su questo tema per combattere l’occupazione. Noi combattiamo la
violenza dell’occupazione combattendo la violenza sociale che gli uomini
esercitano su di noi. Un esempio attuale e specifico su tutti: il Cedaw
(Commitee on the Elimination of Discriminations Against Women, comitato delle
Nazioni Unite fondato nel 1979. Gli Stati che ratificano questa convenzione si
impegnano ad adeguare a essa la loro legislazione, a eliminare ogni
discriminazione nonché a prendere ogni misura adeguata per modificare costumi e
pratiche consuetudinarie discriminatorie. La Palestina ha firmato nell’aprile
2014, ndr).
Ogni anno l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) scrive la propria relazione
per le Nazioni Unite sull’attuazione del Cedaw. Noi e le altre organizzazioni
di donne contribuiamo alla stesura dello Shadow report (le “relazioni ombra” sono
un metodo per integrare e/o presentare informazioni alternative ai rapporti che
i governi sono tenuti a presentare in base ai trattati sui diritti umani, ndr), scriviamo la nostra relazione ombra. Il nostro
rapporto è sempre diviso in due parti. Una parte è dedicata alla violenza delle
forze di occupazione contro le donne, l’altra parte invece si concentra sulla
violenza dell’Autorità palestinese contro di noi.
Voglio dire con
questo che noi donne palestinesi dobbiamo muoverci contemporaneamente su
diversi fronti: dobbiamo combattere l’occupazione, dobbiamo combattere
l’Autorità palestinese e il sistema patriarcale della nostra società. Per
questo cerchiamo sempre il contatto con tutte le donne nel mondo, perché
vogliamo imparare dalle lotte delle donne nei differenti contesti. Vogliamo
confrontarci e capire meglio insieme come combattere la violenza contro di noi
nelle nostre diverse società. Quando ad esempio è cominciata la guerra in
Siria, Daesh e al Nusra hanno attaccato e assediato il campo profughi
palestinese Yarmouk. Chi ha sofferto più di tutti? Le donne rifugiate del
campo. Hanno sofferto come tutti la guerra, in più dovevano fuggire da chi
voleva letteralmente schiavizzarle. Le donne del Yarmouk Camp si sono dovute
rifugiare in Libano. Come Gupw ci siamo occupate anche di loro, sostenendole
materialmente ed economicamente.
Si sono registrati
dei cambiamenti nella condizione delle donne nella società palestinese rispetto
a venti, trenta o quaranta anni fa?
La situazione delle donne nella
società palestinese è cambiata molto negli ultimi decenni. Le donne ora possono
prendere il passaporto senza l’obbligo della firma dell’uomo e possono aprire
un conto in banca ai loro figli (prima era proibito). Oggi le donne possono
andare autonomamente in tribunale e divorziare, prima qualche maschio della
famiglia (marito, fratello, zio o cugino) le avrebbero ammazzate per “difendere
l’onore del nome della famiglia”. A Gaza purtroppo le donne soffrono ancora di
più, sia sotto l’occupazione, sia sotto il governo di Hamas. Quando Hamas ha
preso il potere nel 2007 e ha sostenuto il velo obbligatorio per tutte le donne
e “consigliato” loro di non lavorare ma occuparsi della famiglia e della casa,
alcune donne si sono subito ribellate, ma poche. Perché solo poche? Perché la
maggior parte delle gazawi non aveva paura tanto di Hamas, quanto del marito o
in generale degli uomini della famiglia. Adesso, rispetto ai primi anni dopo il
2007, anni veramente di buio oscurantismo, la situazione a Gaza è un minimo
migliorata. Ma succedono ancora delle cose allucinanti. Ad esempio, una vicenda
attualissima che riguarda il gruppo musicale Soul Band Gaza, un gruppo di
giovani gazawi, tra l’altro musicalmente parlando bravissimi, con una giovane
ragazza come cantante. Hanno girato i loro video musicali suonando in pubblico
a Gaza, in
piazza o sulla
spiaggia, e la ragazza cantava senza
velo. Hamas l’ha attaccata e la società non l’ha protetta. Ora il gruppo se n’è
dovuto andare in Turchia. Ma ti sembra normale che noi come società perdiamo
dei giovani talenti del genere perché la ragazza ha cantato in pubblico senza
velo?
Si tratta quindi di un problema
di società, non solo di regime. Che sia un regime di Fatah o di Hamas, è la
società innanzitutto che deve sostenere le donne. Per esempio, ti posso dire
cosa è successo pochi mesi fa ad al Khalil (Hebron), qui in Cisgiordania, non
nella Striscia sotto Hamas. Come Gupw abbiamo organizzato una conferenza sul
Cedaw e i gruppi islamisti hanno organizzato una contro-iniziativa di donne
islamiste contro di noi. Donne contro donne, capisci? Le donne islamiste hanno
sostenuto che avrebbero combattuto il Cedaw e ci hanno accusato di essere
contro il Corano e contro l’Islam. I gruppi islamisti inoltre minacciarono di
ritorsioni i proprietari di case e sale ad al Khalil che ci affittarono gli
spazi. Quindi mi chiedo io, è davvero più grave la situazione a Gaza che
ad al Khalil? Ti faccio un altro esempio: sempre ad al Khalil circa due mesi fa
un marito ha ammazzato la propria moglie. I capifamiglia delle due famiglie
coinvolte hanno fatto un incontro, si sono messi d’accordo economicamente e il
tutto è stato risolto senza l’intervento della legge. E sono proprio questo
tipo di famiglie che si oppongono alle nostre attività per l’implementazione
del Cedaw. Tre settimane fa qui a Nablus abbiamo organizzato un convegno sul
Cedaw. Sono venuti rappresentanti di molte organizzazioni e partiti, dal Fronte
Popolare a Fatah. Durante la conferenza all’improvviso si è alzato un uomo che
ha detto pubblicamente di essere di Hizb al Tahrir (letteralmente Partito della
Liberazione, in realtà si tratta di un gruppo salafita nato proprio ad al
Khalil, ndr)
e ha iniziato a urlare contro di noi interrompendo l’iniziativa.
Noi non abbiamo
Daesh qui in Palestina, noi qui abbiamo Hamas e Hizb al Tahrir. E mi
raccomando, voi in Europa fate spesso confusione, il Jihad Islami non fa parte
di questa tipologia di formazioni politiche, si tratta di tutto un altro
filone. Questi gruppi islamisti o salafiti o come altro preferiscono denominarsi
fanno il gioco dell’occupazione. E’ molto semplice: l’occupazione vuole che ci
combattiamo tra noi anziché unirci per combattere l’occupazione. Perché Israele
per esempio ha permesso a Hizb al Tahrir di fare il suo congresso ad al Khalil?
L’occupazione controlla tutto, conta persino quanti ulivi piantiamo e quanti
litri d’acqua abbiamo a disposizione e poi permette lo svolgimento del
congresso di un gruppo salafita. E’ evidente a ogni mente lucida: se ci
uccidiamo tra palestinesi, com’è successo a Gaza tra Hamas e Fatah nel 2007,
rendiamo un grandissimo servizio all’occupazione.
Sembra una
contraddizione, prima hai parlato di miglioramenti legislativi nella condizione
delle donne.
La risposta è che esiste un doppio livello di analisi. C’è il livello legislativo, in cui ci sono stati indubbiamente dei miglioramenti. Poi c’è il livello culturale della società e lì ci sono state invece delle regressioni. Oggi, ad esempio, molte famiglie sono spaventate dal mandare le loro figlie alle manifestazioni, proprio per via di questi gruppi islamisti. Nei decenni passati invece ci sono sempre state tantissime donne nei cortei. La realtà è sempre complessa ed è tra l’altro un tratto tipico delle formazioni politiche reazionarie negare la complessità della realtà che ha intorno per imporre la propria visione semplicistica basata sull’odio e la sopraffazione. Il problema poi è sempre collegato al fatto che siamo sotto occupazione e quindi, tra le altre cose, non abbiamo un parlamento vero. Se ci fosse, noi donne potremmo utilizzare il parlamento per imporre delle regole a nostra protezione contro questi fanatici invasati. Certo, c’è sempre il rischio che anche con un parlamento vero poi con le elezioni arrivano gli islamisti, com’è successo in Tunisia. Ma in Tunisia il movimento delle donne e della società civile progressista è coraggioso e forte e non li farà passare, di questo sono certa.
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