Riportiamo qui di seguito un importante articolo di Fabio Colombo pubblicato da LeNiUS che descrive in modo chiaro e aggiornato quale sia il sistema di accoglienza dei migranti che vige oggi in Italia. L'articolo è corredato da importanti citazioni.
Buona lettura
"Era l’estate 2017. La retorica
sul sistema di accoglienza dei migranti in Italia lo dipingeva come un girone
infernale privo di logiche comprensibili. Alcuni si limitavano a denigrarlo,
dando origine alla fortunata epica del business
dell’immigrazione.
Altri si interrogavano, volevano capirci di più. Tra questi Giuli, che in un commento a
corredo di un precedente articolo chiedeva con disarmante secchezza:
Qual è la differenza tra i vari
centri di accoglienza in Italia CPSA, CDA, CARA, CID, CIE, CPR, SPRAR?
Ora molte di quelle sigle non
esistono più. O forse sì. Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia è
cambiato molto, ha provato prima a diventare più diffuso e trasparente –
almeno, nelle intenzioni – sotto la regia dell’ex ministro dell’interno Minniti
e ha poi subito una svolta radicale con il decreto in materia di immigrazione e
sicurezza introdotto dal suo successore Matteo Salvini a dicembre 2018.
Il risultato è un
meccanismo in transizione, che proviamo a descrivere in modo chiaro e
aggiornato, per quanto le informazioni siano disperse e frammentate.
Il processo di accoglienza dei migranti in Italia
Il sistema di accoglienza opera
su due livelli: prima accoglienza, che comprende gli hotspot e i centri di
prima accoglienza, e seconda accoglienza, che comprende il SIPROIMI (Sistema di
protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non
accompagnati) – che con il decreto Salvini ha sostituito lo SPRAR, Sistema di
Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – e i CAS, Centri di Accoglienza
Straordinaria, ibrido tra prima e seconda accoglienza.
Nella logica precedente all’era
Salvini, la prima accoglienza doveva servire a garantire ai migranti primo
soccorso, procedere con la loro identificazione e avviare le procedure per la
domanda di protezione internazionale. Si trattava in teoria di procedure
veloci, per poi assegnare i richiedenti asilo ai progetti SPRAR, ossia alla
seconda accoglienza.
Il sistema però era pieno di
intoppi. Il programma SPRAR
aveva bisogno dell’adesione dei comuni, che i comuni dessero cioè la loro
disponibilità a gestire un progetto di accoglienza sul proprio territorio. Moltissimi
comuni non hanno mai dato la loro adesione, nonostante i progetti fossero
pagati con soldi dello Stato, per ragioni politiche: o perché di un altro
colore politico rispetto all’allora governo PD, un po’ per non assumersi la
responsabilità di avviare un progetto che porta “i profughi” a contatto con i
propri elettori.
Così, il sistema non poteva
funzionare. Troppe domande, troppi pochi posti. Per questa ragione
nel 2015 sono stati introdotti i CAS, un ibrido che formalmente rientra nella
prima accoglienza, ma praticamente dà ormai un’accoglienza di lungo periodo
come accade nella seconda accoglienza, a maggior ragione, come vedremo, dopo le
riforme introdotte da Salvini.
Vediamo ora meglio come
funzionano nello specifico le diverse componenti del sistema di accoglienza: la
prima accoglienza e il SIPROIMI. Trattiamo alla fine i CAS, concependoli come
un’anomalia del sistema.
Prima accoglienza: Hotspot e Centri di prima
accoglienza
La prima accoglienza è svolta in
centri collettivi dove i migranti appena arrivati in Italia vengono
identificati e possono avviare, o meno, la procedura di domanda di asilo. In
particolare gli hotspot sono centri dove vengono raccolti i migranti al momento
del loro arrivo in Italia. Qui ricevono le prime cure mediche, vengono sottoposti
a screening sanitario, vengono identificati e fotosegnalati e possono
richiedere la protezione internazionale (di fatto la grande maggioranza dei
migranti che arrivano via mare lo fa).
Dopo una prima valutazione, i
migranti che fanno domanda di asilo vengono trasferiti (in teoria entro 48 ore)
nei centri di prima accoglienza, dove vengono trattenuti il tempo necessario
per individuare una soluzione nella seconda accoglienza.
Il sistema basato su hotspot
e centri di prima accoglienza ha in teoria sostituito il precedente sistema
basato su sigle che dovremmo ormai considerare superate: i vari CPSA
(Centri di Primo Soccorso e Accoglienza), CDA (Centri di Accoglienza) e CARA
(Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo).
Il condizionale è d’obbligo
perché trovare informazioni chiare e ufficiali è molto complicato e
la transizione di cui sopra da CPSA, CDA, CARA ai centri regionali non si è mai
capito quanto sia stata effettivamente realizzata. Il Ministero dell’Interno
non aggiorna la pagina dedicata
ai centri di accoglienza dal 28 luglio 2015, non si sa se per una precisa
volontà disinformativa o perché nemmeno lì c’è chiarezza su come andrebbe
aggiornata.
Dalle poche informazioni che
circolano sembra comunque che gli hotspot siano quattro: Lampedusa (100
posti), Pozzallo (300 posti), Messina (250 posti) e Taranto (400 posti).
Secondo gli ultimi dati disponibili aggiornati a maggio 2019 (pdf), negli hotspot sono presenti 90
migranti.
I centri di prima accoglienza
regionali sono 12, sempre a maggio 2019, contro i 15 del 2018 e sono
distribuiti in 7 regioni: Sicilia, Puglia, Veneto, Friuli Venezia Giulia,
Calabria, Emilia Romagna.
E coloro che non fanno domanda di
asilo? Posto che sono
molto pochi, vengono condotti nei CPR (Centri di Permanenza e Rimpatrio), ex
CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). I CPR sono centri dove vengono
rinchiusi coloro che hanno ricevuto procedimenti di espulsione e devono essere
rimpatriati. Nel decreto
Minniti-Orlando,
che ha istituito i CPR, i migranti potevano essere trattenuti per un massimo di
90 giorni, estesi a 180 dal decreto Salvini. I CPR sono attualmente 7 (Bari,
Brindisi, Caltanissetta, Torino, Roma e Trapani) per un totale di circa mille
posti, con 540 presenze a maggio 2019.
Seconda accoglienza: il SIPROIMI
Prima della riforma Salvini, una
volta transitati dagli hotspot e dai centri di prima accoglienza i richiedenti
asilo venivano assegnati alla seconda accoglienza, entrando a far parte del
programma SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Ora
non è più così. I richiedenti asilo rimangono in un’eterna prima
accoglienza, finendo nei CAS, di cui tratteremo tra poco.
L’ex SPRAR, ora
ribattezzato Sistema di protezione per titolari di protezione
internazionale e per minori stranieri non accompagnati (SIPROIMI), si
rivolge solo a coloro che hanno già ottenuto una risposta positiva alla domanda
di asilo (status di rifugiato
o protezione sussidiaria) e ai minori stranieri
non accompagnati.
Va detto che già dal 2014,
quando cioè i numeri dei migranti in arrivo sulle coste italiane cominciarono a
salire, molti richiedenti asilo venivano di fatto dirottati sui CAS,
visto che il programma SPRAR era di piccole dimensioni, e doveva ospitare anche
rifugiati e titolari di protezione sussidiaria e umanitaria.
Secondo l’ultimo Rapporto
SPRAR/SIPROIMI, su un
totale di 41.113 persone accolte nel sistema nel 2018 i richiedenti asilo sono
il 26% dei beneficiari dei progetti, percentuale che era del 58% nel
2015, del 47% nel 2016 e del 36% nel 2017. Il 71% dei beneficiari sono invece
titolari di una forma di protezione: 28,8% di protezione internazionale e 42,5%
di protezione umanitaria.
Questi ultimi si trovano in una
situazione di precarietà estrema, a seguito del
decreto Salvini: il
destino di queste 17 mila persone è quello di uscire dai progetti SIPROIMI,
e nel corso del 2020 vedremo se i dati sull’anno 2019 confermeranno questa
ipotesi.
Ma facciamo un passo indietro. Lo
SPRAR è stato istituito con la legge 189 del 2002, anche se in realtà una rete
di accoglienza decentrata che coinvolgeva comuni e organizzazioni del terzo
settore nella sperimentazione di esperienze di accoglienza era già attiva dal
1999. Si tratta quindi di una pratica dal basso, che è poi stata
istituzionalizzata diventando un sistema nazionale.
Il sistema è coordinato dal
Ministero dell’Interno in collaborazione con ANCI, l’Associazione Nazionale dei
Comuni Italiani. Gli enti locali che scelgono di aderire allo SPRAR possono
fare domanda per accedere ai fondi ministeriali in qualsiasi momento,
rispondendo ad un avviso pubblico sempre aperto.
Una volta che la domanda viene
approvata dal Ministero, l’ente locale riceve un finanziamento triennale per
l’attivazione di un progetto SPRAR sul proprio territorio. A quel punto l’ente
pubblica a sua volta una gara d’appalto per assegnare le risorse
ottenute ad un ente gestore, che deve essere un ente non profit (le famose
“cooperative”, ma ci sono anche associazioni). La proposta ritenuta migliore
ottiene l’appalto per la gestione del progetto SPRAR, con il comune che rimane
comunque come ente di riferimento. Non è chiaro al momento se queste procedure
subiranno qualche cambiamento.
I progetti devono
implementare il principio base del sistema SPRAR: l’accoglienza
integrata, che implica la costituzione di una rete locale (con enti del
terzo settore, volontariato, ma anche altri attori) per curare un’integrazione
a 360 gradi nella comunità locale, da realizzarsi attraverso attività di
inclusione sociale, scolastica, lavorativa, culturale.
Gli enti devono individuare gli
alloggi in cui inserire i beneficiari, che possono essere appartamenti o centri
collettivi di piccole (15 persone circa), medie (fino a 30 persone) o grandi
(più di 30 persone) dimensioni. Di fatto vengono utilizzati soprattutto gli
appartamenti, che rappresentano il 90% delle strutture disponibili.
Negli alloggi i rifugiati e
titolari di protezione sussidiaria possono restare per sei mesi, prorogabili di
altri sei mesi, durante i quali sono accompagnati a trovare una sistemazione
autonoma. Oltre agli alloggi, gli enti gestori sono chiamati a fornire
una serie di beni e servizi: pulizia e igiene ambientale (che sono comunque
anche svolti dagli ospiti in autogestione); vitto (colazione e due pasti
principali, meglio se gestiti in autonomia dagli ospiti); attrezzature per la
cucina; abbigliamento, biancheria e prodotti per l’igiene personale di base;
una scheda telefonica e/o ricarica; l’abbonamento al trasporto pubblico urbano
o extraurbano sulla base delle caratteristiche del territorio.
Ci sono poi una serie di altri
servizi per l’inserimento sociale che fanno la differenza per
l’obiettivo di una reale accoglienza e integrazione: iscrizione alla
residenza anagrafica del comune; ottenimento del codice fiscale; iscrizione al
servizio sanitario nazionale; inserimento a scuola di tutti i minori; supporto
legale; realizzazione di corsi di lingua italiana, o iscrizione e
accompagnamento a corsi del territorio; orientamento e accompagnamento all’inserimento lavorativo; orientamento e accompagnamento all’inserimento abitativo; attività
socio-culturali e sportive.
Per fare tutto questo ci vuole
personale. Gli enti gestori quindi assumono operatrici e operatori che lavorino
nei progetti a supporto dei beneficiari. Si tratta solitamente di: personale di
coordinamento e amministrazione, operatori sociali, psicologi, assistenti
sociali, operatori legali, interpreti e mediatori culturali, insegnanti di
lingua italiana, addetti alle pulizie, autisti, manutentori. Nel 2018
il totale di persone impiegate nei progetti SPRAR è stato di 13.958 persone (donne
per il 60%) il cui destino, visto il ridimensionamento del sistema, è molto
incerto.
Il personale rappresenta la spesa
più importante nei progetti. La restante quota va all’attivazione di servizi
per l’integrazione (borse lavoro, iscrizione a corsi o ad attività sportive o
culturali), eventuali interventi di manutenzione alle strutture, il pocket
money che va direttamente in mano ai beneficiari, e che possono spendere come
desiderano. Si tratta di un contributo che va dagli 1,5 ai 3 euro al giorno,
che incide per meno del 10% sul costo dei progetti.
Per quanto riguarda la
distribuzione territoriale dei progetti SPRAR/SIPROIMI, questa la mappa dei
comuni dove erano presenti strutture di accoglienza SPRAR alla fine dell’anno.
Come si nota, i comuni
coinvolti sono pochi, soprattutto al centro-nord: circa 752 su ottomila.
Eppure il sistema SPRAR è riconosciuto come una buona pratica sotto diversi
punti di vista: garantisce un coordinamento proficuo tra Stato centrale e enti
locali, pone attenzione alla distribuzione territoriale dei migranti,
garantisce un supporto all’inserimento sociale molto importante per prevenire
conflitti con la popolazione locale, si prende cura anche di categorie
vulnerabili con servizi dedicati, come i minori non accompagnati e i disabili.
Nonostante questo il sistema,
seppur in crescita costante negli ultimi anni, non era mai riuscito a decollare
dal punto di vista quantitativo, ed è per questa ragione che è stata introdotta
l’accoglienza straordinaria (i CAS, di cui diremo fra poco). Un
sistema, lo SPRAR, che dopo il decreto Salvini diviene ancora più irrilevante,
dando probabilmente il colpo di grazia a una delle esperienze più virtuose del
sistema di welfare italiano recente, seppur tra mille ostacoli e
difficoltà.
Per dare un’idea del cambiamento
in atto, riportiamo anche gli ultimi dati aggiornati a ottobre 2019.
I progetti sono diminuiti dagli 877 del 2018 a 844, i comuni coinvolti sono
scesi a 713, i posti disponibili sono diminuiti da 35.881 a 33.625.
Una ancora limitata ma evidente contrazione del sistema, che dovrebbe
ulteriormente accentuarsi nel corso del 2020.
L’accoglienza straordinaria: i CAS
Lo abbiamo detto, pochi comuni
aderiscono allo SPRAR/SIPROIMI, e questo ha reso il sistema insufficiente a
rispondere al bisogno di accoglienza delle centinaia di migliaia di richiedenti
asilo in arrivo in Italia, almeno tra metà 2014 e metà 2017. Per questo sono
stati introdotti i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), concepiti come
strutture temporanee da aprire nel caso in cui si verifichino “arrivi
consistenti e ravvicinati di richiedenti” (Decreto Legislativo
142/2015, art. 11)
che non sia possibile accogliere tramite il sistema ordinario.
I CAS tuttavia sono nel tempo
diventati la regola, e il loro nome è quanto mai improprio. Si tratta infatti
non necessariamente di centri (si possono usare anche appartamenti, come nello
SPRAR) e l’accoglienza è tutt’altro che straordinaria: si tratta
infatti della modalità ordinaria in cui vengono inseriti i migranti (il
75% delle presenze).
A differenza dei progetti
SIPROIMI, gestiti da enti non profit su affidamento dei comuni, i CAS possono
essere gestiti sia da enti profit che non profit su
affidamento diretto delle prefetture. Ogni prefettura territoriale pubblica
quindi delle gare d’appalto periodiche per l’assegnazione della gestione dei
posti in modalità CAS.
I CAS possono essere gestiti in
modalità accoglienza collettiva o accoglienza diffusa. L’accoglienza
collettiva comprende strutture anche di centinaia di persone, che sono
poi quelle che danno più spesso dei problemi sia per i migranti che per i
territori dove sono situate: hotel, bed & breakfast, agriturismi, case
coloniche. L’accoglienza diffusa avviene invece in
appartamento e, seppur con meno garanzie di qualità rispetto agli appartamenti
inseriti nello SPRAR, risulta comunque in un impatto più sostenibile sul
territorio in cui viene attuata.
Come lo SPRAR, anche i CAS
vengono finanziati con il Fondo nazionale per le politiche e i servizi
dell’asilo e vengono, come detto, assegnati tramite gare d’appalto basate su
una retta giornaliera per ciascun utente. La retta media era fino a dicembre
2018 di 35 euro a persona accolta al giorno. Il Decreto Salvini ha
tuttavia abbassato notevolmente queste rette, come riportato in questa analisi
dei bandi pubblicati dopo l’entrata in vigore del decreto dal Rapporto Invece si
può! curato dalla
cooperativa Inmigrazione e da Oxfam.
I tagli sono dunque più
importanti per i servizi di accoglienza diffusa, ossia nei piccoli appartamenti
sparsi, favorendo quindi la concentrazione di migranti in centri di media e
grande dimensione. Questo taglio si riflette sostanzialmente nella necessità di
tagliare sul personale impiegato e sui servizi offerti.
Come abbiamo spiegato più nel
dettaglio in questo articolo, risultano fortemente
limitati i servizi per l’integrazione: l’insegnamento della lingua
italiana, il supporto alla preparazione per l’audizione in Commissione
Territoriale per la propria richiesta di asilo, la formazione professionale, la
gestione del tempo libero (attività di volontariato, di socializzazione con la
comunità ospitante, attività sportive).
Spariscono o sono ridotte al
minimo inoltre figure professionali volte al sostegno e assistenza in
particolare alle persone vulnerabili: assistente sociale e psicologo. Tutti
tagli che hanno portato numerose cooperative a rinunciare a
partecipare ai bandi,
ritenendo impossibile poter offrire un servizio dignitoso e professionale. La
conseguenza è che sono incentivati a partecipare ai bandi soprattutto
quei soggetti privati meno interessati alla qualità del servizio offerto
e al benessere delle persone, e disposti a tagliare su tutto pur di gestire il
servizio non in perdita.
Le prospettive del sistema di accoglienza dei migranti
in Italia
Secondo gli ultimi dati
disponibili, contenuti in questo dossier di
OpenPolis, ad agosto
2019 sono presenti nel sistema di accoglienza dei migranti in Italia
101.540 persone. Un dato in continua decrescita dal 2017, quando si era
raggiunto il picco delle 184 mila presenze.
Gradualmente la presenza di
migranti nel sistema di accoglienza cala e, se il ritmo degli sbarchi non
riprenderà, il sistema di accoglienza avrà un ruolo sempre meno rilevante nel
paese. Ciò nonostante, nel 2018 i costi del sistema sono stati di circa
2,7 miliardi, in crescita rispetto al 2016 e 2017.
Si tratta dell’effetto di spese
accumulate negli anni. A partire dal 2019 è prevista una riduzione della spesa.
Un sistema dunque in prospettiva meno costoso, ma anche meno capace di lavorare
sull’integrazione, di preparare i richiedenti asilo alla società italiana, di farli
incontrare con le comunità di accoglienza. Cosa vale di più?"
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.