Raffaella ROGNONI
Presidente DONNE IMPRESA LIGURIA di CONFARTIGIANATO
Gli stereotipi
Buongiorno a tutte e tutti,
desidero innanzi tutto
ringraziare per l’invito a partecipare a questo incontro , che è già esempio di
rottura dello stereotipo e di apertura .
Che cos’è uno stereotipo ?
Lo stereotipo è un insieme di credenze,
rappresentazioni ipersemplificate della realtà e opinioni rigidamente connesse
tra di loro, che un gruppo sociale associa a un altro gruppo. L’uso della
parola risale al 1700, quando veniva utilizzata dai tipografi per indicare la
riproduzione, tramite lastre fisse, delle stampe. Il termine (dal greco
stereòs=rigido e tòpos=impronta). L’etimologia della parola ci da subito l’idea
della generalizzazione messa in atto .
Ragionare in termini di generalizzazioni
è naturale per noi, anzi in alcuni casi è funzionale. Ciò ci permette di sintetizzare
le informazioni che prendiamo dal mondo esterno. E’ però importante verificare
se il concetto che generalizziamo ci permette di dare reale valore e senso di
verità a ciò che pensiamo o raccontiamo. Spesso la generalizzazione ci porta a
“ fare di tutta l’erba un fascio” e a non notare le peculiarità e varietà delle
cose.
Il processo di trasformazione
delle informazioni dall’esterno al nostro interno avviene attraverso un
meccanismo di filtro tramite generalizzazioni, cancellazioni e distorsioni che
ci porta a creare un messaggio superficiale , sintetico, nostro ( è sempre
importante tenere presente ciò!)
Riguardo alla forza dello
stereotipo, in questo caso di genere, riporto una storiella che veniva
raccontata negli anni ’70 : “Un uomo e suo figlio stanno rampicando su una
parete rocciosa. A un certo punto i due non trovano l’appiglio e cadono: il
figlio, più grave, viene trasportato in elicottero all’ospedale, dove lo
attende il migliore chirurgo della struttura per operarlo. Appena il medico lo
vede, però, esclama: “Non posso operarlo, lui è mio figlio”. Com’è possibile?
Molto semplice: il chirurgo è la madre del ragazzo…..e negli anni ’70 era
proprio raro pensare ad una donna chirurgo!
Gli stereotipi di genere sono una
sottoclasse degli stereotipi. Quando si associa, senza riflettere, una
categoria o un comportamento a un genere, si ragiona utilizzando questo tipo di
stereotipi. Associazioni che nella nostra mente scattano automatiche e che
quindi sono molto difficili da estirpare o cambiare. L’uso degli stereotipi di
genere conduce infatti a una percezione rigida e distorta della realtà, che si
basa su ciò che noi intendiamo per “femminile” e “maschile” e su ciò che ci
aspettiamo dalle donne e dagli uomini. Si tratta di aspettative consolidate, e
non messe in discussione, riguardo i ruoli che uomini e donne dovrebbero
assumere, in qualità del loro essere biologicamente uomini o donne.
Per quale motivo avviene questo?
In quanto una volta che il nostro cervello ha tracciato un collegamento tra quella
parola e quella persona/esperienza il meccanismo parte in automatico grazie al
nostro ipotalamo che ci porta a rispondere in reazione, inconsciamente, per
abitudine.
Per poter uscire dunque dagli
stereotipi è importante rompere lo schema: questa è innanzitutto una
grande occasione per ognuno di noi per ampliare la nostra visione della vita e
di noi stessi . Ciò peraltro significa anche uscire dalla nostra zona di confort alla quale siamo
affezionati in quanto ci dà sicurezze e certezze che bloccano però il nostro
sviluppo e la nostra libertà. E’ dunque importante rispondere alle situazioni
con presenza, conoscenza, in azione e non in reazione .
Anche le parole, per finire, ci
danno un esempio di come gli stereotipi sono dentro di noi : la stessa parola
spesso può assumere un significato diverso al maschile o al femminile. Ad
esempio : maestro o maestra, governante ( al maschile e al femminile) , ecc.
Nell’auguravi di essere sempre in
azione e non in reazione, concludo con questa frase di Fausto Novelli tratto
dal Manuale del Risveglio “ Ogni passo determinato da una scelta consapevole
porta esclusivamente al benessere ed alla pace…” Grazie
Filomena LORETO
Associazione
P.E.N.E.L.O.P.E - DONNE DEL PONENTE PER
LE PARI OPPORTUNITA’ - Bordighera
Noi donne di P.E.N.E.L.O.P.E
siamo consapevoli che le società islamiche sono in continuo movimento. Non ci
sono società statiche. La rivoluzione iraniana e la Primavera araba hanno
mostrato in concreto l’intervento e la partecipazione attiva e consapevole
delle donne musulmane che lottavano per la libertà e la democrazia dei loro
paesi e per l’ottenimento della loro emancipazione.
Abbiamo anche visto e saputo di
maltrattamenti crudeli sul corpo delle donne: ci rendiamo conto che la storia
delle donne viaggia su percorsi paralleli. La nostra storia non è stata e non è
poi così diversa dalla vostra. Volendo fare una riflessione sui nostri
percorsi, sentiamo che le esperienze delle donne sono comuni in tutte le
società.
P.E.N.E.L.O.P.E. si è occupata di storie di donne che hanno
contribuito alla realizzazione (1860) dell’unità d’Italia durante il
Risorgimento e della lotta contro il fascismo durante la Resistenza (1943-45),
rimanendo quasi del tutto invisibili. Pur avendo dato un grosso contributo, in
due momenti fondamentali per la storia italiana, sono state escluse dall’organizzazione
politica del Paese.
Per rendere onore a queste donne
coraggiose, P.E.N.E.L.O.P.E. ha
dedicato loro due eventi culturali:
1.
8 marzo 2011, “Le donne invisibili del
Risorgimento”, nell’ambito delle celebrazioni per i 150 dell’unità d’Italia.
…e, credeteci, abbiamo fatto
delle scoperte sorprendenti anche per noi.
2.
19 aprile 2012, “Donne e Resistenza”,
nell’ambito delle celebrazioni dell’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani
Italiani)
Nell’incontro del 19 aprile
abbiamo riservato uno spazio speciale a Tina Anselmi, alla quale è stato
dedicato, tra l’altro, il calendario 2012 di P.E.N.E.L.O.P.E. e a Nilde Jotti. Due figure altamente
significative che hanno partecipato alla Resistenza italiana contro il fascismo
e hanno contribuito alla costruzione della nostra Repubblica democratica,
facendo parte del Parlamento italiano.
In particolare vorremmo parlarvi
oggi di Tina Anselmi che fu la prima donna ministro della Repubblica italiana.
Durante il suo ministero ha fatto approvare la
legge 903 del 9 dicembre 1977, in cui, finalmente, veniva sancita la
“parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”. La legge
risale a 35 anni fa, ciò significa che la donna, fino ad allora, era ritenuta
inferiore.
Questa è la prima legge che riconosce la parità di trattamento tra
uomini e donne, parità intesa come divieto di ingiustificata e arbitraria
discriminazione sulla base del sesso e come imposizione di un trattamento
uniforme. Alcune norme della Legge 903 adeguano la disciplina del lavoro
femminile al nuovo diritto di famiglia introdotto nel 1975 che riconosce piena
parità tra i coniugi, fa riferimento alle loro posizioni di lavoro, introduce
il riconoscimento della capacità professionale per entrambi e il dovere per gli
stessi di contribuire al mantenimento della famiglia, all’educazione e al
sostentamento della prole.
Contrariamente a quanto già
sancito 35 anni fa, purtroppo
constatiamo che ancora oggi le pari opportunità, di fatto, non sono garantite.
A prova di ciò è risaputo che (anche se questo è atto contrario alla legge) le
giovani donne spesso sono costrette a firmare dimissioni in bianco a vantaggio
del datore di lavoro (eventuale matrimonio, eventuale gravidanza ect…).
P.E.N.E.L.O.P.E è impegnata nella
lotta per il raggiungimento effettivo, reale delle pari opportunità e pari dignità. Noi da anni denunciamo il
flagello della violenza fisica e psichica sulle donne sia in famiglia, sia sul
lavoro.
Siamo qui per confrontare le
nostre diverse esperienze con le vostre e per auspicare un fattiva
collaborazione con voi.
Ringraziamo chi ha organizzato
questo importante convegno perché ci ha offerto la possibilità di ampliare,
arricchire le nostre conoscenze.
Antonella SQUILLACE
Presidente
MAPPAMONDO, ASSOCIAZIONE DI MEDIAZIONE CULTURALE - Sanremo
“Rapporto
femminismo e religione in Occidente: brevi spunti per una riflessione”
Ho trovato consolanti le parole della
relatrice (Asma Lambrabet n.d.r.) che mi ha preceduta, mi hanno confortata perché ritrovo nel suo
intervento molte delle riflessioni che, pur non concordate, ho fatto pensando a
questo mio intervento.
Il femminismo in Italia, su cui non mi
soffermo perché personalmente non ne ho fatto parte ma posso dire di averne,
per così dire, goduto i frutti delle battaglie fatte dalle generazioni che mi
hanno preceduta, ha preso forti distanze in generale dal mondo religioso
rappresentato nello specifico dalla Chiesa Cattolica per quello che riguarda
gran parte del mondo occidentale, quasi a voler sottolineare, sicuramente
giustamente, il maschilismo e l’impronta patriarcale di quel mondo e dunque
l’incompatibilità con le giuste rivendicazioni del mondo femminile allora.
Però, riflettendo, e guardandomi
intorno oggi in particolare, sono sempre più convinta, che, se il vento di
innovazione che proprio in quegli anni portava il Concilio Vaticano II (si
ricordano ad ottobre i 50anni dalla sua convocazione), per moltissimi versi
rimasto incompiuto, e le istanze delle
donne di quel tempo, si fossero incontrati, cercando un canale di comunicazione,
punti in comune, non lasciando sole per certi versi le donne del mondo
associativo, all’interno della chiesa, si sarebbero reciprocamente arricchiti,
avrebbero magari potuto smussare le aridità e le esagerazioni che entrambi
hanno fatto emergere, non lasciando che, Chiesa e femminismo, facessero
percorsi diversi, antitetici.
Sappiamo poi che nella realtà non è
così, che in realtà ci sono state esperienze, persone, anche documenti
ufficiali che hanno fatto sì che la donna potesse pian piano riuscire ad
occupare un posto riconosciuto e per certi versi valorizzato all’interno della
comunità ecclesiale.
Non è possibile in questa occasione
fare la storia del ruolo della donna all’interno della Chiesa negli ultimi
anni, quella cattolica nello specifico, perché quella del variegato mondo
protestante, presenta percorsi e situazioni diverse, ma mi piace citare un
pontefice che fece scandalo, a suo modo, con la sua affermazione.
Papa
Albino Luciani, Giovanni Paolo I, che all’indomani della sua elezione
nel suo breve pontificato, sottolineò con forza, scandalizzando per certi versi, il concetto di “Dio padre e ancor più madre”.
Sicuramente questa è una concezione
non propria dell’Islam secondo il suo rapporto di fede con Dio nel quale è
assente la concezione di Dio Padre, anche se personalmente penso che il
concetto di affidamento completo da parte del fedele musulmano verso Dio
proprio dell’Islam non è poi così lontano dal gesto dell’affidarsi, come nel
rapporto materno, da parte del bambino.
Dicevo fece scandalo all’epoca, sto
parlando del 1978, forse la
Chiesa e la società tutta non erano ancora pronte ad
accogliere un concetto così innovativo e per certi versi rivoluzionario, che
scardinava, anni, secoli di concezione di dio legata al genere maschile e non
propria solo del Cristianesimo: bisogna risalire alle concezioni religiose
primitive per avere la presenza di una grande Dea Madre.
Eppure quelle parole di quel
pontefice, anche se io ero all’epoca ragazzina, ricordo, rileggendo e rivedendo
ancora oggi quelle immagini, quanto avevano consolato il cuore, riconciliando
il pensiero della differenza di genere, affrontando la questione del sacro e
della trascendenza in prospettiva femminile, denunciando, in qualche misura,
nella soggezione alla nominazione maschile, un’antica e non più tollerabile
subordinazione patriarcale.
Infatti,
perché padre e non madre?, la madre dà la vita al bambino, fa un gesto
creativo.
Non dimentichiamo poi il passo di Genesì 1 sulla creazione del mondo
“Dio creò l’uomo simile a se, maschio e
femmina li creò…..”, (ish – isha),
passo pur nato in una società patriarcale e maschilista quale quella ebraica
precristiana, in particolare quella del periodo della schiavitù babilonese.
In riferimento alla Bibbia inoltre,
vorrei chiarire un pensiero cui si faceva cenno prima e riprendere la
sottolineatura fatta più volte dalla dottoressa secondo la quale è certa
interpretazione dei testi che snatura i contenuti della Parola, o, alle volte,
una scarsa conoscenza con citazioni non appropriate.
Il passo della creazione dell’essere umano non sottolinea la superiorità dell’uomo nei confronti della donna, ma solo se così lo si vuole interpretare.
Il passo della creazione dell’essere umano non sottolinea la superiorità dell’uomo nei confronti della donna, ma solo se così lo si vuole interpretare.
C’è un antico detto ebraico che dice
che la donna non è stata creata dai piedi dell’uomo, perché gli cammini sotto o
dalla testa perché gli sia sopra, ma dalla
sua costola perché gli cammini accanto.
Se veniamo in epoca più vicina a noi,
naturalmente senza la pretesa di essere esaustiva, ma dando solo piccoli spunti
di riflessione che andrebbero ripresi e approfonditi, grandi esperienze e voci
di donne in ambito religioso le possiamo rilevare nelle teologhe che hanno
rivendicato un grande spazio all’interno della Chiesa per una teologia, un
pensiero teologico al femminile, e che oggi sono riconosciute e tenute in
grande considerazione nel mondo della teologia.
Un cenno a parte in questo senso
merita ad esempio l’impegno femminile all’interno della teologia della Liberazione, esperienza nata nelle comunità di base,
conosciuta in Italia, grazie a teologi quali Leonardo Boff e alle sue opere, a
Frei Betto, Dom Helder Camara, per citare solo alcuni nomi.
Nell’opzione preferenziale per i poveri, base della teologia della
Liberazione, esiste anche una corrente
femminile, anzi femminista, assai più radicale ed antiautoritaria,
incarnata dalla figura della brasiliana Ivone Gebara, la quale sottolinea con grande forza
le sfumature, le differenze e le difficoltà che ha incontrato e incontra
tuttora la Teologia
femminista. Fin dalle sue origini, che risalgono al 1980, la Teologia della
Liberazione al femminile si caratterizza proprio per l’apertura al confronto e
al dialogo, cosa non sempre accettata dall’opzione maschile, tuttora
predominante.
Ivone ricorda
la difficoltà ad ottenere un riconoscimento dalla stessa Teologia della
Liberazione maschile, che in più di un’occasione ha esitato a comprendere
il discorso portato avanti dalle donne, così come i gruppi della sinistra
impegnati a combattere contro le dittature militari, che pure hanno faticato e
per certi aspetti ignorato le sofferenze patite dalle donne durante gli anni
dei regimi. Non si parla solo di esclusione politico-sociale o di violenza
verbale, quanto di sofferenza fisica anche e soprattutto sul proprio corpo.
Ed è proprio in questo contesto che matura il
cammino autonomo della Teologia femminista, sia dalla Teologia della
Liberazione maschile, per quanto progressista, sia dalla sinistra impegnata e
militante. La Teologia
al femminile sta spendendo il suo impegno affinché gli esseri umani ritrovino
quella fiducia tra loro persa anche nei confronti della chiesa a causa dello
svilupparsi di una società capitalista e ingiusta battendosi per eliminare la
mancanza di fiducia tra gli esseri umani.
Ho voluto citare questo pensiero
proprio perché anche in ideali progressisti e innovativi ma coniugati al
maschile, si riscontra sempre quella settorializzazione che porta alla
necessità da parte delle donne di distanziare e differenziarsi.
Ed è del 1988 la lettera apostolica Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II
sulla dignità e vocazione della donna che si colloca in continuità con
l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Infatti, già Giovanni XXIII nella Pacem in terris riteneva che la presenza della
donna nella Chiesa e nella società fosse uno dei segni dei tempi.
Il Concilio Vaticano II incoraggiò, come accennato prima, una più
vasta partecipazione delle donne sia nell’ambito culturale e sociale, che
nell’ambito ecclesiale. E nel Messaggio
del Concilio all’Umanità, nell’ampia parte dedicata alle donne, si ricorda
la loro missione a servizio dell’umanità
“le donne imbevute dello spirito del Vangelo possono tanto, per aiutare
l’umanità a non decadere”.
E viene affidata alla donna la missione di “riconciliare gli uomini
con la vita”, di “salvare la pace del mondo”.
Nel
1995 Giovanni Paolo II, dopo aver dedicato il tema della Giornata Mondiale per la Pace alla “Donna, educatrice
di pace”, scrive una lettera indirizzata a tutte le donne, in occasione
della IV Conferenza mondiale dell’Onu
sulla donna, per riflettere «sui problemi e sulle prospettive della
condizione femminile nel nostro tempo», stimolando a riflettere sul genio della donna per dare ad esso più spazio nella società e nella Chiesa. Egli guarda al grande
processo di promozione della donna, affermando che « è stato un cammino
difficile e complesso…, ma sostanzialmente positivo, anche se ancora incompiuto
per i tanti ostacoli che, in varie parti del mondo, si frappongono a che la
donna sia riconosciuta, rispettata, valorizzata nella sua peculiare dignità.
Mi si dirà che sono proclami, dichiarazioni ufficiali ma che poi
hanno corrisposto poco nei fatti e nella realtà ad una vera e propria
emancipazione del ruolo della donna all’interno della comunità ecclesiale: non
sono del tutto d’accordo.
Tutti i cambiamenti nella storia, sappiamo bene, non vengono solo
dalle rivoluzioni e dai proclami ma dalla goccia che scava passo passo, con
piccoli gesti, battaglie quotidiane, lotte e sacrifici personali.
Credo poi sia peculiare della donna, a qualunque cultura
appartenga, la specificità dell’attesa, del gettare ponti, dell’accogliere.
Ed è per questo motivo, lo dico da
credente, praticante e insegnante di
religione, che ho guardato con un misto di ammirazione e sorpresa, le
rivoluzioni avvenute nella primavera dello scorso anno, all’interno del mondo
arabo e il ruolo delle donne in particolare, non contro una appartenenza
religiosa, ma grazie e all’interno di essa, come è stato bel sottolineato dalle
relatrici di oggi.
Un concetto così lontano dal nostro
femminismo e dalla nostra chiesa.
E questo va anche a scardinare molti
pregiudizi e stereotipi sul ruolo delle donne all’interno della comunità
islamica. Le trasformazioni epocali ancora in corso nel mondo arabo stanno
travolgendo molte delle categorie occidentali che in questi ultimi venti anni
hanno pesantemente condizionato il dibattito pubblico sul rapporto possibile
tra Oriente e Occidente, sul ruolo dei diritti e della democrazia nel dialogo
tra culture e, ovviamente, sulla "condizione delle donne musulmane".
Ma le piazze piene di cittadine e cittadini che rivendicavano
diritti e democrazia, i giovani che organizzavano le rivolte via twitter e
facebook, hanno finalmente convinto quantomeno a cambiare categorie di pensiero
nei confronti del mondo islamico e in questa prospettiva.
Anche l'esperienza del
femminismo islamico andrà analizzata attentamente, per valutarne le ricadute
pratiche e coglierne l'originalità più autentica che, a mio avviso, sta
soprattutto nell'aver avviato una imponente riflessione delle donne su una
tradizione religiosa (quella islamica), evento che al momento non ha eguali nel
mondo del cristianesimo, in particolare nel cattolicesimo.
Volutamente non mi sono soffermata sulla figura di Maria per la Chiesa e il cattolicesimo,
da cristiana dentro la Chiesa
spesso ho patito le operazioni della religiosità popolare o della pastorale
comune e di magisteri di secoli che a mio giudizio hanno impoverito la
complessa figura di Maria di Nazareth che credo invece essere donna molto più
vicina a noi donne del nostro tempo. Quindi lascio ad ognuna nel mistero della
propria fede, rispettandola, la concezione che ciascuna ne può avere.
Il mio augurio, per queste riflessioni un po’ mescolate e che
andrebbero riprese, magari, chissà, in gruppi di lavoro e confronto, è che le
donne, a partire e non contro, il proprio credo, la propria cultura di
appartenenza, le proprie tradizioni e convinzioni, possano creare le basi per
una società più giusta e accogliente, di quanto, anche spesso usando la
religione, gli uomini abbiano saputo fare fino ad ora.
Lara Aisha Bisconzo
Presidente Associazione Donne e Mamme Musulmane - Albenga
La
pace sia su tutti voi.
Buongiorno
a tutti, innanzitutto mi preme ringraziare Casa Africa
nelle persone di Fatima, la presidente e di Marina, nonché Costanza e tutte le
altre ragazze che ci hanno invitato a partecipare a questo importante seminario
su un tema delicato e quanto mai attuale.
Dopo
di ciò, ci tengo a sottolineare che sia come persona che come portavoce della
mia associazione, Donne e Mamme Musulmane, non credo nel termine “femminismo”
così come in quello “maschilismo”. A me piace pensare ad un diverso tipo di
movimento, che forzatamente potrei provare a chiamare “umanitarismo”, nel
quale, donne e uomini indipendentemente dal loro genere, hanno entrambi il loro
giusto spazio per poter contribuire al meglio e rendere attraverso il loro
sforzi questo mondo più vivibile.
Sono
profondamente certa che ci sia spazio per tutti, nel giusto modo senza però
necessariamente rinchiudersi dentro ad un titolo, nemmeno se lo si fa per mera
provocazione allo scopo di avere possibilità in più.
Perché
credo fermamente che uomo e donna non sono e non debbono essere rivali, ma
anzi: esseri complementari che camminano, secondo il loro modo e le loro
capacità soggettive, fianco a fianco verso un obiettivo comune.
E
credo anche che siano diversi, l’uomo e la donna. Ma diversi non significa che
il primo sia migliore o la seconda inferiore. Hanno diverse peculiarità,
talenti, caratteristiche, e possono appunto compensare ciò che manca all’altro.
Fatta
questa per me doverosa premessa, vorrei parlare quest’oggi di un tema che come
donne, nel mio caso italiane e musulmane ci tocca particolarmente ma che
secondo noi non viene sufficientemente conosciuto e approfondito: la condizione
della donna musulmana oggi in Italia.
Il
Bel Paese senza dubbio è un posto ricco di opportunità, che permette di vivere
serenamente e di avere in linea di massima i propri diritti rispettati (crisi
permettendo…), di grandi bellezze storiche e naturalistiche e, ogni giorno
sempre più, multietnico e colorato. In mezzo a questa ricchezza ha ormai da
qualche anno fatto capolino in maniera sempre più evidente la condizione della
donna musulmana. E, ogni giorno di più, quella della donna musulmana italiana,
divenuta tale per amore di Dio dopo un percorso spirituale e consapevole di
conoscenza, studio e fede.
Differentemente
dalla donna musulmana immigrata, la musulmana italiana spesso e volentieri si
trova in una situazione come di “limbo”: viene considerata né carne e né pesce.
Ma non perché si senta inadeguata, anzi. E’ perfettamente inserita nel tessuto
sociale in cui vive proprio perché autoctona, allo stesso tempo però si vede
costretta a galleggiare in una costante situazione di insicurezza per vari
motivi che brevemente andrò ad elencare.
Il
primo fra tutti – il più evidente – è la scelta di fede di indossare il hijab,
parola araba che indica l’uso del velo e dell’abbigliamento islamico.
Il
Corano indica chiaramente il precetto di indossarlo, infatti in almeno due
versetti esso è nominato, uno dei quali, esplicito come non mai, dice: “O
Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di
coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate.
Allah è perdonatore, misericordioso.” (Sura Al Ahzab, i coalizzati, v.59). La
musulmana praticante che quindi sceglie con tutto il suo cuore, la sua ragione,
la sua fede di indossarlo per amore di Dio si trova in questo paese davanti a
varie difficoltà. Sul lavoro, per esempio. Perfino quando è alla ricerca di
mansioni semplici e umili come possono essere quelle delle operaie delle
imprese di pulizie, alla musulmana viene chiesto di togliere il hijab. Pena la
non assunzione, nonostante le referenze. E attenzione, parliamo del classico
hijab che lascia scoperte mani e viso, non di burka o niqab che impedirebbero
l’identificazione della persona. Insomma, di una copertura che talvolta viene
tutt’ora indossata dalle donne più anziane del sud Italia. Più di una volta ho
sentito storie di sorelle musulmane (italiane e non) letteralmente costrette ad
umiliare la propria fede e la propria persona (per una musulmana è atroce togliere
il velo dal capo, perché si sente in colpa verso Dio) perché fortemente
disagiate e con seri bisogni economici. E mi sono sempre posta la domanda del
perchè una donna è costretta ad un’inutile simile umiliazione. Forse che la
donna con il velo sul capo lavora meno bene di quella che non ce l’ha? Assurdo,
senza ombra di dubbio.
E
quando sento parlare di queste storie, mi salta sempre alla mente la serie di
foto che grazie al web sono a disposizione dell’intero mondo, nelle quali si
vedono donne inglesi che svolgono le più varie mansioni (poliziotte,
infermiere, gestori di sale da thè, di negozi, etc.) con il loro bell’hijab o
niqab addirittura, che non sono costrette a snaturarsi per avere rispettato il
loro sacrosanto diritto al lavoro e a quello della libertà di fede. Così come
mi salta alla mente il foulard che l’Ikea, che noi tutti ben conosciamo, ha
fatto commissionare su misura con il proprio logo perché facesse parte della
divisa delle commesse e lavoratrici musulmane che sono impiegate in Svezia nei
loro famosi centri.
Donne
che, nonostante il velo sul capo, hanno grazie a Dio mani e cervelli
perfettamente funzionanti… Forse che in Italia si creda diversamente?
Lo
stesso problema talvolta sono costrette ad affrontarlo le giovani ragazze che
decidono per loro scelta di indossarlo fin dalla più tenera età. E’ tristemente
comune in fatti ascoltare storie di professori e professoresse che, velatamente
o meno (passatemi il termine…), cercano di convincere la studentessa che
frequenta i loro istituti a togliere l’hijab, o perlomeno lo criticano spesso e
volentieri, perfino in classe davanti agli altri compagni, mettendo in un
ingiusto e scorretto imbarazzo la giovane di turno che, una volta tornata a
casa, spesso e volentieri piange a causa dell’insensibilità dimostrata da chi
invece dovrebbe contribuire alla sua crescita morale e sociale. Cito anche
questi esempi per far riflettere, perché non sono purtroppo rari, e mi auguro
possa, in maniera anche infinitesimale, servire a qualcosa.
Un
altro problema che ci tocca profondamente, è quello dei luoghi di culto. Molte
di noi hanno poche occasioni di andare all’estero in paesi arabo-musulmani,
sono obbligate quindi ad educare qui i propri figli e ad insegnare loro la
propria religione (come ogni genitore è tenuto a fare) senza poter far
respirare loro l’atmosfera di una vera moschea. Non so se riesco a farvi capire
a parole quanto è triste dover festeggiare la ricorrenza più importante
dell’Islam, quella che ricorda il comune sacrificio di Abramo, in una palestra
umida e fredda allestita alle bell’e meglio, magari anche sporca e in
disordine. Vedere donne con neonati in braccio in posti del genere sapendo che
si sta ricordando il giorno più importante dell’anno è davvero triste,
sconfortante. Ma è questo che ogni anno succede in molte città d’Italia, la mia,
Albenga, per esempio. La comunità islamica è costretta ad affittare una
palestra o un altro luogo di fortuna per poter espletare le funzioni religiose
più importanti dell’anno. Questo perché quasi ovunque non si riescono ad avere
i permessi necessari per aprire non dico una vera e propria moschea con cupola
e minareto, ma un più modesto centro islamico con annessa sala di preghiera. Le
amministrazioni non lo consentono, gli abitanti delle città non le vogliono. Si
fa ancora infatti fatica a trasmettere alle persone il fatto che una moschea,
piccola o grande che sia, è una grande ricchezza per tutti, e che non è covo di
terrorismo, ma anzi: sarebbe un luogo ove il terrorismo in prima battuta
verrebbe stoppato, denunciato, bloccato… E’ già accaduto, nella nostra Italia:
un imam (guida religiosa) del Nord ha segnalato alle forze dell’ordine una
persona che aveva incontrato nel centro da lui gestito perché aveva forti
sospetti che stesse per commettere atti non legali. Ma se un vero centro
islamico non c’è perché l’amministrazione di questo o di quel paese non ne
permette l’edificazione o l’apertura, chi insegnerà alle persone il vero
messaggio di pace e giustizia dell’Islam? I nostri figli dove apprenderanno le
basi della loro religione? Che ricordi avranno da adulti dei loro momenti di
festa? E soprattutto, quanto ci perde in termini di cultura, ricchezza, dialogo
interreligioso e conoscenza reciproca una città che non permette l’apertura di
questi centri? Quante occasioni mancate, lasciatemelo dire…
E
pensare che nella splendida, italianissima Roma è
situata la moschea più grande d’Europa, che ogni anno accoglie migliaia di
fedeli ma anche visitatori e turisti tra le loro mura, per non parlare dei
convegni e delle tavole rotonde, ultima quella che ha visto partecipe anche Giorgio Napolitano,
il capo dello Stato… E che nella nostra ligure Genova non
più di 150 anni fa già esisteva una moschea vera, dalla quale si poteva udire
addirittura il richiamo della preghiera… Moschea della quale nessuno all’epoca
si è mai lamentato…
Un
altro problema davvero da noi sentito è quello del cimitero. Come musulmane (e
musulmani…) italiane o residenti in Italia, dovesse arrivare per noi il momento
fatale che indica la fine della nostra vita sarebbe una doppia tragedia: non
sapremmo dove essere seppelliti. Infatti, come nel caso della moschea, anche
per il cimitero abbiamo immense difficoltà. Molte amministrazioni comunali non
consentono (nonostante, badate bene, la Costituzione italiana ed anche i
regolamenti comunali lo prevedano) la realizzazione di spazi cimiteriali ove i
musulmani possano essere seppelliti secondo i loro rituali. Che poi, è bene
specificarlo, basta poco per avere una struttura adeguata. Ci basterebbe solo
un pezzo di terra delimitato da una siepe. Non ci necessitano costruzioni in
muratura come loculi o similari, perché la nostra religione prevede
l’interramento del corpo del defunto, quindi non si richiederebbe nemmeno uno
sforzo in questo senso. Eppure anche in questo caso riusciamo ad ottenere quasi
sempre solo dei no. E ve lo assicuro, è una questione che personalmente mi
tocca molto da vicino essendo appunto musulmana e profondamente legata alla mia
città d’origine. Vorrei essere seppellita secondo il rito che ho abbracciato in
essa, ma non saprò fino alla fine della mia vita se questo mai potrà accadere.
Forse chissà, come molti fratelli e sorelle di religione stranieri sarò
costretta a far trasferire dalla mia famiglia la mia salma in un paese
limitrofo, o all’estero, addirittura. Con dispendio di denaro e di fatica. Mi
auguro avvenga altro…
In
breve, sono questi i punti cardine della nostra vita che come musulmani in
Italia ci troviamo quotidianamente ad affrontare. Ho scelto di farne partecipe
oggi questa platea proprio perché come associazione femminile che si propone
come interlocutore – nel suo piccolo – di fronte a chi vuol conoscere meglio la
nostra realtà a nostro modo vogliamo provare a fare una, seppur modesta,
differenza. E vogliamo a nostra volta fare del nostro meglio per attivarci e
cambiare le cose, iniziando da ciò che secondo noi è il punto d’inizio ideale:
la comunicazione e l’informazione.
Quindi
sì, a nostra volta siamo donne attive sul territorio che altro non desiderano
che rendere migliore la nostra vita. E quando dico nostra, intendo quella di
tutti, musulmani e non. Come il Corano insegna a tutti i credenti, maschi e
femmine, da 1433 anni a questa parte.
Grazie.
Miriana SEMERIA
C.I.D. Centro Iniziativa Donne -Sanremo
Prima di tutto vorrei ringraziare, a
nome del Centro Iniziativa Donne di Sanremo, Casa Africa e tutte le
organizzatrici di questo convegno per l'invito che ci avete rivolto. Invito
particolarmente gradito perchè ci consente di conoscere e approfondire temi di
grande rilevanza.
Noi siamo venute qui oggi soprattutto
per ascoltare. Vorrei comunque sottolineare alcuni aspetti delle relazioni e
del dibattito che ne è seguito.
Innanzi tutto vorrei dire che sono
molto d'accordo con Asma Lamrabet, che nell'intervento di questa mattina
evidenziava il grossolano errore delle generalizzazioni: l'Occidente non è
tutto “uguale” (l'Italia non è la Francia e neppure gli USA) così come nel
mondo musulmano vi sono grandi diversità (il Marocco non è l'Arabia Saudita).
Generalizzare ci porta solo ad acuire
i pregiudizi.
Sono anche convinta che vi sia stata
una sorta di universalità della discriminazione nei confronti delle donne, che
si è determinata in momenti storici, in contesti sociali, culturali, politici
assai differenti. Non sarà certo l'Occidente a “liberare” le donne islamiche,
come non è stato l'Occidente a “liberare” le donne italiane, francesi, ecc.
Sono state le donne, nelle diverse realtà, con le loro lotte, con il loro
lavoro, con la loro elaborazione culturale e politica a creare movimenti che
hanno portato a cambiamenti radicali.
E sono state lotte dure e difficili.
In Italia, ad esempio, si è sviluppato prima un forte movimento femminile, con
profonde radici nella Resistenza, che rivendicava pari diritti, prima di tutto
il diritto al voto, e che lottava per l'emancipazione della donna. Poi, negli
anni Settanta, c'è stata l'esplosione del movimento femminista che ha
scardinato rapporti, relazioni, modi di essere con una forte carica innovativa
e che ha creato anche tante discussioni e dibattiti nell'ambito delle stesse
forze progressiste. E' stata una rivolta contro i ruoli così come si erano
cristallizzati nella società, contro i dettami della Chiesa vista come uno dei
simboli del potere maschile. Le donne non si “accontentavano” più
dell'emancipazione, volevano la liberazione, anche dal punto di vista sessuale.
Tutto ciò ha portato a cambiamenti
radicali e profondi che hanno costituito il tessuto culturale da cui sono
scaturite leggi (Nuovo diritto di famiglia, divorzio) impensabili se non ci
fosse stato un cambiamento profondo all'interno della società.
Ognuno deve seguire la propria strada,
fare il proprio percorso, ma solo le donne nella loro autonomia di elaborazione
e di pensiero possono portare ai cambiamenti necessari.
Da ultimo un'osservazione, che è anche
una mia forte preoccupazione. In questo convegno si è molto parlato del Corano
e dei testi sacri. Io ho molta paura quando vedo nascere stati confessionali, a
qualunque credo facciano riferimento. Penso che un paese che consideri come
atto fondativo un testo sacro, per sua natura non modificabile in quanto
emanazione diretta di una divinità, possa portare a forti disuguaglianze e
intolleranza.
Per concludere, ancora grazie per
questo invito. Solo con la discussione ed il confronto delle opinioni possiamo
davvero costruire tutte insieme un mondo migliore.
Hamza PICCARDO
Direttivo UCOII , Unione delle Comunità Islamiche
d’Italia, direttore di Islam online, autore
della traduzione italiana del Corano
I contributi e gli interventi che ho
ascoltato mi hanno suggerito alcune riflessioni che cercherò di esplicitare qui
di seguito.
Ogni volta che si affronta la questione
femminile in relazione alla dottrina e alla tradizione islamiche abbiamo due
atteggiamenti contrapposti e oggettivamente sterili. Da parte musulmana la
difesa strenua della giustizia tra i generi insita nella rivelazione coranica e
nella tradizione del Profeta Muhammad (pbsl), da parte laica o più generalmente
non musulmana, l'insistere su situazioni oggettive di sperequazioni che vengono
fatte risalire a quella stessa rivelazione e tradizione.
Se nella prima c'è un'evidente verità
dottrinale è tuttavia possibile che la lettura e l'interpretazione delle fonti abbia
spesso stravolto quei principi di equità e misericordia tra uomini e donne e
tra loro e la società.
La comprensione letteralista infatti,
tende a decontestualizzare sempre e comunque l'applicazione delle norme,
tradendo di fatto la giustizia e quindi deislamizzando i comportamenti.
Credo che per noi musulmani non sia
possibile comprendere una società e le persone che ne fanno parte e applicare
le regole che sentiamo tutti come nostre e accettate, se non teniamo conto di
una grande verità che Allah nel Corano proclama quando dice: " In
verità, nella creazione dei cieli e della terra e nell'alternarsi della notte e
del giorno, ci sono certamente segni per coloro che hanno intelletto" cioè
nella natura e nel tempo Iddio altissimo ha posto segni, indicazioni che
dobbiamo percepire correttamente per testimoniare i valori sempiterni e
assoluti della Rivelazione.
Il primo incidente tra Emigranti e
Ausiliari fu provocato dalle donne. Le prime erano meccane, e quindi cittadine,
che erano vissute in una società, per quei tempi urbana e certamente
commerciale, abitavano nel centro religioso della penisola arabica ed erano
quindi abituate al rapporto e al confronto con persone e culture sensibilmente
diverse. Spesso erano loro stesse commercianti e imprenditrici come nostra
madre Khadija figlia di Khawaylid, la prima amatissima sposa del Profeta*, la
prima musulmana. Le Ausiliarie erano vissute in quel complesso di oasi che
formava Yatrib e che poi prese il nome di Medina an-Nabi, la città del
Profeta*. La loro società era agro-pastorale con tutte le sue caratteristiche
peculiari, specie nelle questione di genere. Il potere derivava dal possesso della
terra che veniva trasmesso dal padre ai figli maschi. (Il Corano riformò
radicalmente quel meccanismo di successione attribuendo alle figlie femmine
pienezza giuridica, diritti ereditari ecc.).
Le meccane erano molto più libere e forti
nel rapporto di genere ed erano confortate da quella Rivelazione che diceva che
"uomini e donne hanno parità di doveri e di diritti" e
dall'attenzione che il Profeta* gli aveva dedicato portarono un certo
scompiglio e il Profeta* dovette intervenire per ristabilire la serenità tra le
due comunità che erano destinate a costituire il primo nucleo di quella Ummah
che oggi conta un miliardo e mezzo di uomini e donne.
Ho citato questo differente per
esemplificare come sia impossibile trascendere dal contesto senza compiere gravi
ingiustizie nei confronti delle creature.
Questa contestualizzazione fu prevista dal
Profeta stesso* che inviando nello Yemen uno
dei suoi compagni, Mu’adh, con la funzione di
giudice gli chiese: “Come giudicherai i casi?”; egli rispose: “Giudicherò in accordo
con il Libro di Allah”. “Ma se non vi troverai (la risposta) come farai?”. “Mi
riferirò alla Sunnah del Messaggero di Allah”. “E se non troverai nulla nemmeno
qui, che farai?” chiese ancora il Profeta. “Mi sforzerò e non smetterò di
sforzarmi ” rispose Mu’adh. Sentendo ciò, il Profeta gli diede un colpetto
sulla spalla e disse: “Sia Lode ad Allah Che ha guidato il messaggero del Suo
Messaggero a ciò che voleva il Suo Messaggero”.
Il Profeta*, nella sua
immensa saggezza e chiaroveggenza, sapeva che ci potevano essere problemi che
non potevano essere risolti solo riferendosi in modo pedissequo al Corano o
alla tradizione dell'Inviato, ma proprio in ossequio all'altezza di quelle
fonti avrebbero necessitato uno sforzo di comprensione e di giudizio.
Venendo alla nostra situazione attuale,
dobbiamo tener conto che le società sono diverse tra loro ed estremamente
variegate anche al loro interno. E' certamente vero che, rimanendo in ambito
islamico, ci sono grandi differenze tra il Marocco, la Turchia, il Pakistan, ma
se disaggreghiamo per ambiti socio-economici, saranno molto più simili i
comportamenti di un abitante dell'Atlas marocchino, di uno della Cappadocia o
delle risaie del sub continente indiano, di quanto lo siano con quelli di chi
vive a Fes, Ankara o Islamabad (a loro volta diversi ma molto più omogenei tra
loro).
Per concludere permettetemi una piccola
provocazione intellettuale, se il maschilismo è considerato l'aberrazione dei
comportamenti maschili, un femminismo reattivo non può che essere viziato dagli
stessi difetti che mira a combattere.
Eliminiamo quindi tutti gli ismi e tra
musulmani e musulmane, tra uomini e donne, cerchiamo di camminare insieme in un
dialogo solidale e fedele, non dice forse il Corano: " Coloro che fanno la carità, uomini o donne, concedono un bel prestito ad Allah; lo riscuoteranno
raddoppiato e avranno generoso compenso" e la carità non è altro che l'amore per Dio e per le
creature.
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