dicembre 31, 2020

LA CULTURA DELLA CURA COME PERCORSO DI PACE


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE 
FRANCESCO 
PER LA CELEBRAZIONE DELLA 
LIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
 
1° GENNAIO 2021 


LA CULTURA DELLA CURA COME PERCORSO DI PACE 


1. Alle soglie del nuovo anno, desidero porgere i miei più rispettosi saluti ai Capi di Stato e di Governo, ai responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai leader spirituali e ai fedeli delle varie religioni, agli uomini e alle donne di buona volontà. 
A tutti rivolgo i miei migliori auguri, affinché quest’anno possa far progredire l’umanità sulla via della fraternità, della giustizia e della pace fra le persone, le comunità, i popoli e gli Stati. 

Il 2020 è stato segnato dalla grande crisi sanitaria del Covid-19, trasformatasi in un fenomeno multisettoriale e globale, aggravando crisi tra loro fortemente interrelate, come quelle climatica, alimentare, economica e migratoria, e provocando pesanti sofferenze e disagi. Penso anzitutto a coloro che hanno perso un familiare o una persona cara, ma anche a quanti sono rimasti senza lavoro. Un ricordo speciale va ai medici, agli infermieri, ai farmacisti, ai ricercatori, ai volontari, ai cappellani e al personale di ospedali e centri sanitari, che si sono prodigati e continuano a farlo, con grandi fatiche e sacrifici, al punto che alcuni di loro sono morti nel tentativo di essere accanto ai malati, di alleviarne le sofferenze o salvarne la vita. Nel rendere omaggio a queste persone, rinnovo l’appello ai responsabili politici e al settore privato affinché adottino le misure adeguate a garantire l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e alle tecnologie essenziali necessarie per assistere i malati e tutti coloro che sono più poveri e più fragili.[1] 

Duole constatare che, accanto a numerose testimonianze di carità e solidarietà, prendono purtroppo nuovo slancio diverse forme di nazionalismo, razzismo, xenofobia e anche guerre e conflitti che seminano morte e distruzione. 

Questi e altri eventi, che hanno segnato il cammino dell’umanità nell’anno trascorso, ci insegnano l’importanza di prenderci cura gli uni degli altri e del creato, per costruire una società fondata su rapporti di fratellanza. Perciò ho scelto come tema di questo messaggio: La cultura della cura come percorso di pace. Cultura della cura per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente. 

2. Dio Creatore, origine della vocazione umana alla cura 

In molte tradizioni religiose, vi sono narrazioni che si riferiscono all’origine dell’uomo, al suo rapporto con il Creatore, con la natura e con i suoi simili. Nella Bibbia, il Libro della Genesi rivela, fin dal principio, l’importanza della cura o del custodire nel progetto di Dio per l’umanità, mettendo in luce il rapporto tra l’uomo (’adam) e la terra (’adamah) e tra i fratelli. Nel racconto biblico della creazione, Dio affida il giardino “piantato nell’Eden” (cfr Gen 2,8) alle mani di Adamo con l’incarico di “coltivarlo e custodirlo” (cfr Gen 2,15). Ciò significa, da una parte, rendere la terra produttiva e, dall’altra, proteggerla e farle conservare la sua capacità di sostenere la vita.[2] I verbi “coltivare” e “custodire” descrivono il rapporto di Adamo con la sua casa-giardino e indicano pure la fiducia che Dio ripone in lui facendolo signore e custode dell’intera creazione. 

La nascita di Caino e Abele genera una storia di fratelli, il rapporto tra i quali sarà interpretato – negativamente – da Caino in termini di tutela o custodia. Dopo aver ucciso suo fratello Abele, Caino risponde così alla domanda di Dio: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).[3] Sì, certamente! Caino è il “custode” di suo fratello. «In questi racconti così antichi, ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri».[4] 

3. Dio Creatore, modello della cura 

La Sacra Scrittura presenta Dio, oltre che come Creatore, come Colui che si prende cura delle sue creature, in particolare di Adamo, di Eva e dei loro figli. Lo stesso Caino, benché su di lui ricada la maledizione a motivo del crimine che ha compiuto, riceve in dono dal Creatore un segno di protezione, affinché la sua vita sia salvaguardata (cfr Gen 4,15). Questo fatto, mentre conferma la dignità inviolabile della persona, creata ad immagine e somiglianza di Dio, manifesta anche il piano divino per preservare l’armonia della creazione, perché «la pace e la violenza non possono abitare nella stessa dimora».[5] 

Proprio la cura del creato è alla base dell’istituzione dello Shabbat che, oltre a regolare il culto divino, mirava a ristabilire l’ordine sociale e l’attenzione per i poveri (Gen 1,1-3; Lv 25,4). La celebrazione del Giubileo, nella ricorrenza del settimo anno sabbatico, consentiva una tregua alla terra, agli schiavi e agli indebitati. In questo anno di grazia, ci si prendeva cura dei più fragili, offrendo loro una nuova prospettiva di vita, così che non vi fosse alcun bisognoso nel popolo (cfr Dt 15,4). 

Degna di nota è anche la tradizione profetica, dove il vertice della comprensione biblica della giustizia si manifesta nel modo in cui una comunità tratta i più deboli al proprio interno. È per questo che Amos (2,6-8; 8) e Isaia (58), in particolare, alzano continuamente la loro voce a favore della giustizia per i poveri, i quali, per la loro vulnerabilità e mancanza di potere, sono ascoltati solo da Dio, che si prende cura di loro (cfr Sal 34,7; 113,7-8). 

4. La cura nel ministero di Gesù 

La vita e il ministero di Gesù incarnano l’apice della rivelazione dell’amore del Padre per l’umanità (Gv 3,16). Nella sinagoga di Nazaret, Gesù si è manifestato come Colui che il Signore ha consacrato e «mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Queste azioni messianiche, tipiche dei giubilei, costituiscono la testimonianza più eloquente della missione affidatagli dal Padre. Nella sua compassione, Cristo si avvicina ai malati nel corpo e nello spirito e li guarisce; perdona i peccatori e dona loro una vita nuova. Gesù è il Buon Pastore che si prende cura delle pecore (cfr Gv 10,11-18; Ez 34,1-31); è il Buon Samaritano che si china sull’uomo ferito, medica le sue piaghe e si prende cura di lui (cfr Lc 10,30-37). Al culmine della sua missione, Gesù suggella la sua cura per noi offrendosi sulla croce e liberandoci così dalla schiavitù del peccato e della morte. Così, con il dono della sua vita e il suo sacrificio, Egli ci ha aperto la via dell’amore e dice a ciascuno: “Seguimi. Anche tu fa’ così” (cfr Lc 10,37). 

5. La cultura della cura nella vita dei seguaci di Gesù 

Le opere di misericordia spirituale e corporale costituiscono il nucleo del servizio di carità della Chiesa primitiva. I cristiani della prima generazione praticavano la condivisione perché nessuno tra loro fosse bisognoso (cfr At 4,34-35) e si sforzavano di rendere la comunità una casa accogliente, aperta ad ogni situazione umana, disposta a farsi carico dei più fragili. Divenne così abituale fare offerte volontarie per sfamare i poveri, seppellire i morti e nutrire gli orfani, gli anziani e le vittime di disastri, come i naufraghi. E quando, in periodi successivi, la generosità dei cristiani perse un po’ di slancio, alcuni Padri della Chiesa insistettero sul fatto che la proprietà è intesa da Dio per il bene comune. Ambrogio sosteneva che «la natura ha riversato tutte le cose per gli uomini per uso comune. [...] Pertanto, la natura ha prodotto un diritto comune per tutti, ma l’avidità lo ha reso un diritto per pochi».[6] Superate le persecuzioni dei primi secoli, la Chiesa ha approfittato della libertà per ispirare la società e la sua cultura. «La miseria dei tempi suscitò nuove forze al servizio della charitas christiana. La storia ricorda numerose opere di beneficenza. […] Furono eretti numerosi istituti a sollievo dell’umanità sofferente: ospedali, ricoveri per i poveri, orfanotrofi e brefotrofi, ospizi, ecc.».[7]

6. I principi della dottrina sociale della Chiesa come base della cultura della cura 

La diakonia delle origini, arricchita dalla riflessione dei Padri e animata, attraverso i secoli, dalla carità operosa di tanti testimoni luminosi della fede, è diventata il cuore pulsante della dottrina sociale della Chiesa, offrendosi a tutte le persone di buona volontà come un prezioso patrimonio di principi, criteri e indicazioni, da cui attingere la “grammatica” della cura: la promozione della dignità di ogni persona umana, la solidarietà con i poveri e gli indifesi, la sollecitudine per il bene comune, la salvaguardia del creato. 

* La cura come promozione della dignità e dei diritti della persona. 

«Il concetto di persona, nato e maturato nel cristianesimo, aiuta a perseguire uno sviluppo pienamente umano. Perché persona dice sempre relazione, non individualismo, afferma l’inclusione e non l’esclusione, la dignità unica e inviolabile e non lo sfruttamento».[8] Ogni persona umana è un fine in sé stessa, mai semplicemente uno strumento da apprezzare solo per la sua utilità, ed è creata per vivere insieme nella famiglia, nella comunità, nella società, dove tutti i membri sono uguali in dignità. È da tale dignità che derivano i diritti umani, come pure i doveri, che richiamano ad esempio la responsabilità di accogliere e soccorrere i poveri, i malati, gli emarginati, ogni nostro «prossimo, vicino o lontano nel tempo e nello spazio».[9]

 * La cura del bene comune. 

Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune, ossia dell’«insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente».[10] Pertanto, i nostri piani e sforzi devono sempre tenere conto degli effetti sull’intera famiglia umana, ponderando le conseguenze per il momento presente e per le generazioni future. Quanto ciò sia vero e attuale ce lo mostra la pandemia del Covid-19, davanti alla quale «ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme»[11], perché «nessuno si salva da solo»[12] e nessuno Stato nazionale isolato può assicurare il bene comune della propria popolazione.[13]

 * La cura mediante la solidarietà. 

La solidarietà esprime concretamente l’amore per l’altro, non come un sentimento vago, ma come «determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti».[14] La solidarietà ci aiuta a vedere l’altro – sia come persona sia, in senso lato, come popolo o nazione – non come un dato statistico, o un mezzo da sfruttare e poi scartare quando non più utile, ma come nostro prossimo, compagno di strada, chiamato a partecipare, alla pari di noi, al banchetto della vita a cui tutti sono ugualmente invitati da Dio. 

* La cura e la salvaguardia del creato. 

L’Enciclica Laudato si’ prende atto pienamente dell’interconnessione di tutta la realtà creata e pone in risalto l’esigenza di ascoltare nello stesso tempo il grido dei bisognosi e quello del creato. Da questo ascolto attento e costante può nascere un’efficace cura della terra, nostra casa comune, e dei poveri. A questo proposito, desidero ribadire che «non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani».[15] «Pace, giustizia e salvaguardia del creato sono tre questioni del tutto connesse, che non si potranno separare in modo da essere trattate singolarmente, a pena di ricadere nuovamente nel riduzionismo».[16]

 7. La bussola per una rotta comune 

In un tempo dominato dalla cultura dello scarto, di fronte all’acuirsi delle disuguaglianze all’interno delle Nazioni e fra di esse,[17] vorrei dunque invitare i responsabili delle Organizzazioni internazionali e dei Governi, del mondo economico e di quello scientifico, della comunicazione sociale e delle istituzioni educative a prendere in mano questa “bussola” dei principi sopra ricordati, per imprimere una rotta comune al processo di globalizzazione, «una rotta veramente umana».[18] Questa, infatti, consentirebbe di apprezzare il valore e la dignità di ogni persona, di agire insieme e in solidarietà per il bene comune, sollevando quanti soffrono dalla povertà, dalla malattia, dalla schiavitù, dalla discriminazione e dai conflitti. Mediante questa bussola, incoraggio tutti a diventare profeti e testimoni della cultura della cura, per colmare tante disuguaglianze sociali. E ciò sarà possibile soltanto con un forte e diffuso protagonismo delle donne, nella famiglia e in ogni ambito sociale, politico e istituzionale. 

La bussola dei principi sociali, necessaria a promuovere la cultura della cura, è indicativa anche per le relazioni tra le Nazioni, che dovrebbero essere ispirate alla fratellanza, al rispetto reciproco, alla solidarietà e all’osservanza del diritto internazionale. A tale proposito, vanno ribadite la tutela e la promozione dei diritti umani fondamentali, che sono inalienabili, universali e indivisibili.[19] 

Va richiamato anche il rispetto del diritto umanitario, soprattutto in questa fase in cui conflitti e guerre si susseguono senza interruzione. Purtroppo molte regioni e comunità hanno smesso di ricordare un tempo in cui vivevano in pace e sicurezza. Numerose città sono diventate come epicentri dell’insicurezza: i loro abitanti lottano per mantenere i loro ritmi normali, perché vengono attaccati e bombardati indiscriminatamente da esplosivi, artiglieria e armi leggere. I bambini non possono studiare. Uomini e donne non possono lavorare per mantenere le famiglie. La carestia attecchisce dove un tempo era sconosciuta. Le persone sono costrette a fuggire, lasciando dietro di sé non solo le proprie case, ma anche la storia familiare e le radici culturali. 

Le cause di conflitto sono tante, ma il risultato è sempre lo stesso: distruzione e crisi umanitaria. Dobbiamo fermarci e chiederci: cosa ha portato alla normalizzazione del conflitto nel mondo? E, soprattutto, come convertire il nostro cuore e cambiare la nostra mentalità per cercare veramente la pace nella solidarietà e nella fraternità? 

Quanta dispersione di risorse vi è per le armi, in particolare per quelle nucleari,[20] risorse che potrebbero essere utilizzate per priorità più significative per garantire la sicurezza delle persone, quali la promozione della pace e dello sviluppo umano integrale, la lotta alla povertà, la garanzia dei bisogni sanitari. Anche questo, d’altronde, è messo in luce da problemi globali come l’attuale pandemia da Covid-19 e dai cambiamenti climatici. Che decisione coraggiosa sarebbe quella di «costituire con i soldi che s’impiegano nelle armi e in altre spese militari un “Fondo mondiale” per poter eliminare definitivamente la fame e contribuire allo sviluppo dei Paesi più poveri»![21] 

8. Per educare alla cultura della cura 

La promozione della cultura della cura richiede un processo educativo e la bussola dei principi sociali costituisce, a tale scopo, uno strumento affidabile per vari contesti tra loro correlati. Vorrei fornire al riguardo alcuni esempi.

- L’educazione alla cura nasce nella famiglia, nucleo naturale e fondamentale della società,dove s’impara a vivere in relazione e nel rispetto reciproco.Tuttavia, la famiglia ha bisogno di essere posta nelle condizioni per poter adempiere questo compito vitale e indispensabile.
 
- Sempre in collaborazione con la famiglia, altri soggetti preposti all’educazione sono la scuola e l’università, e analogamente, per certi aspetti, i soggetti della comunicazione sociale.[22] Essi sono chiamati a veicolare un sistema di valori fondato sul riconoscimento della dignità di ogni persona, di ogni comunità linguistica, etnica e religiosa, di ogni popolo e dei diritti fondamentali che ne derivano. L’educazione costituisce uno dei pilastri di società più giuste e solidali.

- Le religioni in generale, e i leader religiosi in particolare, possono svolgere un ruolo insostituibile nel trasmettere ai fedeli e alla società i valori della solidarietà, del rispetto delle differenze, dell’accoglienza e della cura dei fratelli più fragili. Ricordo, a tale proposito, le parole del Papa Paolo VI rivolte al Parlamento ugandese nel 1969: «Non temete la Chiesa; essa vi onora, vi educa cittadini onesti e leali, non fomenta rivalità e divisioni, cerca di promuovere la sana libertà, la giustizia sociale, la pace; se essa ha qualche preferenza, questa è per i poveri, per l’educazione dei piccoli e del popolo, per la cura dei sofferenti e dei derelitti».[23]

 - A quanti sono impegnati al servizio delle popolazioni, nelle organizzazioni internazionali, governative e non governative, aventi una missione educativa, e a tutti coloro che, a vario titolo, operano nel campo dell’educazione e della ricerca, rinnovo il mio incoraggiamento, affinché si possa giungere al traguardo di un’educazione «più aperta ed inclusiva, capace di ascolto paziente, di dialogo costruttivo e di mutua comprensione».[24] Mi auguro che questo invito, rivolto nell’ambito del Patto educativo globale, possa trovare ampia e variegata adesione.

 9. Non c’è pace senza la cultura della cura 

La cultura della cura, quale impegno comune, solidale e partecipativo per proteggere e promuovere la dignità e il bene di tutti, quale disposizione ad interessarsi, a prestare attenzione, alla compassione, alla riconciliazione e alla guarigione, al rispetto mutuo e all’accoglienza reciproca, costituisce una via privilegiata per la costruzione della pace. «In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia».[25]

In questo tempo, nel quale la barca dell’umanità, scossa dalla tempesta della crisi, procede faticosamente in cerca di un orizzonte più calmo e sereno, il timone della dignità della persona umana e la “bussola” dei principi sociali fondamentali ci possono permettere di navigare con una rotta sicura e comune. Come cristiani, teniamo lo sguardo rivolto alla Vergine Maria, Stella del mare e Madre della speranza. Tutti insieme collaboriamo per avanzare verso un nuovo orizzonte di amore e di pace, di fraternità e di solidarietà, di sostegno vicendevole e di accoglienza reciproca. Non cediamo alla tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli, non abituiamoci a voltare lo sguardo,[26] ma impegniamoci ogni giorno concretamente per «formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».[27] 

Dal Vaticano, 8 dicembre 2020 

Francesco 


Vedi il messaggio originale- con i link delle citazioni e la traduzione del testo in varie lingue


[1] Cfr Videomessaggio in occasione della 75ª Sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 25 settembre 2020. 
[2] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 67. 
[3] Cfr “Fraternità, fondamento e via per la pace”, Messaggio per la celebrazione della 47ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2014 (8 dicembre 2013), 2.
[4] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 70. 
[5] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 488. 
[6] De officiis, 1, 28, 132: PL 16, 67. 
[7] K. BIHLMEYER - H. TÜCHLE, Storia della Chiesa, vol. I L’antichità cristiana, Morcelliana, Brescia 1994, 447.448. 
[8] Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale nel 50° anniversario della “Populorum progressio” (4 aprile 2017).
[9] Messaggio alla 22ª sessione della Conferenza degli Stati Parte alla Convenzione-Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP22), 10 novembre 2016. Cfr Tavolo interdicasteriale della Santa Sede sull’ecologia integrale, In cammino per la cura della casa comune. A cinque anni dalla Laudato si’, LEV, 31 maggio 2020. 
[10] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 26. 
[11] Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020. 
[12] Ibid. 
[13] Cfr Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 8; 153. 
[14] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 38. 
[15] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 91. 
[16] Conferenza dell’Episcopato Dominicano, Lett. past. Sobre la relación del hombre con la naturaleza (21 gennaio 1987); cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 92. 
[17] Cfr Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 125. 
[18] Ibid., 29. 
[19] Cfr Messaggio ai partecipanti alla Conferenza internazionale “I diritti umani nel mondo contemporaneo: conquiste, omissioni, negazioni”, Roma, 10-11 dicembre 2018. 
[20] Cfr Messaggio alla Conferenza dell’ONU finalizzata a negoziare uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari, che conduca alla loro totale eliminazione, 23 marzo 2017. 
[21] Videomessaggio in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2020, 16 ottobre 2020. [22] Cfr Benedetto XVI, “Educare i giovani alla giustizia e alla pace”, Messaggio per la 45ª Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2012 (8 dicembre 2011), 2; “Vinci l’indifferenza e conquista la pace”, Messaggio per la 49ª Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2016 (8 dicembre 2015), 6. 
[23] Discorso ai Deputati e ai Senatori dell’Uganda, Kampala, 1° agosto 1969. 
[24] Messaggio per il lancio del Patto Educativo, 12 settembre 2019: L’Osservatore Romano, 13 settembre 2019, p. 8. 
[25] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 225. 
[26] Cfr ibid., 64.
[27] Ibid., 96; cfr “Fraternità, fondamento e via per la pace”, Messaggio per la celebrazione della 47ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2014 (8 dicembre 2013), 1.


ottobre 28, 2020

PALESTINA. La lotta delle donne contro l'occupazione e il colonialismo passa per la lotta al patriarcato


In questa intervista pubblicata da nena-news nel febbraio scorso Miassar Ateyani così sintetizza il lavoro che lei e le donne palestinesi che fanno capo al Gupw svolgono nei territori occupati da Israele e l'ideologia che le ispira:

“La liberazione delle donne dalla cultura patriarcale deve diventare il movimento propulsore più importante della lotta del popolo palestinese contro il colonialismo. Non dobbiamo relegare in secondo piano la difesa dei nostri diritti di donne: noi combattiamo la violenza dell’occupazione combattendo la violenza sociale che gli uomini esercitano su di noi”

 


Chi è Miassar Ateyani.

Miassar Ateyani, classe 1964, è la direttrice dell’ufficio di Nablus (Cisgiordania) della General Union of Palestinian Women (Gupw), ramo dell’Olp che si occupa delle donne palestinesi nei Territori occupati e nella diaspora. La Gupw è stata fondata nel 1965, pochi mesi la fondazione della stessa OLP. La storia personale di Miassar è una lunga storia di militanza politica: da sempre attiva nella sinistra radicale palestinese, Miassar è stata ripetutamente detenuta nelle carceri israeliane

Ecco il testo dell’intervista

di Wolfram Kuck

Ci può descrivere le attività che svolgete come Gupw, il modo in cui intervenite nella società palestinese e il quadro teorico di analisi a cui fate riferimento?

Noi abbiamo un piano per combattere l’occupazione. Sosteniamo che la lotta di liberazione delle donne dalla cultura patriarcale debba diventare il movimento propulsore più importante della lotta del popolo palestinese contro l’occupazione e il colonialismo. Per questo nelle nostre attività i piani si intrecciano, ci occupiamo della liberazione delle donne per liberare la Palestina. Sin dall’inizio, nella lotta di liberazione palestinese, le donne hanno ricoperto un ruolo importante, come combattenti hanno compiuto operazioni militari contro l’occupazione. Un esempio su tutti, Leyla Khaled. Molte donne sono state imprigionate nel corso dei decenni. E ancora oggi molte donne sono incarcerate.

Noi come Gupw ci prendiamo cura delle donne prigioniere, sia mentre sono in stato di detenzione sia dopo il loro rilascio. Così come ci occupiamo delle donne che vivono nei campi profughi oppure nei villaggi della Valle del Giordano. Tante energie le investiamo nel sostenere le ragazze che studiano all’università. Sosteniamo coloro che studiano e incoraggiamo tutte le altre a farlo. Parliamo con le famiglie e le invitiamo a permettere l’iscrizione delle loro figlie all’università e di sostenerle economicamente. Crediamo fermamente nello studio e nella formazione superiore come arma di riscatto. Altro nostro punto di intervento centrale è la campagna di boicottaggio di Israele. Non solo siamo parte attiva della grande campagna Bds, ma abbiamo anche fondato uno specifico comitato di donne per il boicottaggio. Con questo comitato andiamo a bussare casa per casa, entriamo a parlare con le donne per convincerle a boicottare i prodotti israeliani che trovano nei negozi. Insegniamo alle donne anche a riconoscere quei prodotti e proponiamo tutta una serie di alternative. Con il comitato per il boicottaggio andiamo anche nelle scuole e parliamo con gli studenti. Insegniamo loro come si fa a boicottare i prodotti israeliani. Sembra una banalità ma, in un’economia sotto occupazione e colonizzata come lo è la nostra, il boicottaggio dei prodotti dell’occupante colonizzatore non è affatto semplice. Bisogna saper riconoscere quei prodotti, scoprire quali trucchetti usano per camuffarli, bisogna soprattutto avere delle alternative e sapere dove si possono andare a reperire.

Insegnare tutto ciò ai giovanissimi che frequentano le scuole è un lavoro che consideriamo di fondamentale importanza. Poi nelle scuole, oltre a quello appena detto, proviamo con gli studenti più interessati e motivati a ideare degli spot e delle campagne a favore del boicottaggio. Collaboriamo stabilmente anche con le facoltà di Media e Giurisprudenza dell’Università di Nablus e proviamo a far incontrare liceali e universitari e farli lavorare insieme nell’ideazione di nuove campagne di promozione del boicottaggio. Con il comitato entriamo anche negozio per negozio nei quartieri di Nablus e ci mettiamo a parlare con tutti i clienti che entrano e consigliandoli di comprare prodotti locali, o comunque non israeliani. Il boicottaggio poi non si limita all’ambito economico. Ci spendiamo molto anche per il boicottaggio culturale, ovvero il rifiuto di collaborazione con le università o altri istituti di ricerca che in un modo o nell’altro sostengono l’occupazione. C’è poi anche tutto l’aspetto dello spettacolo, con il boicottaggio degli eventi sportivi o artistici. Ovviamente su questa tema del boicottaggio lavoriamo molto con gli internazionali; una campagna di boicottaggio dell’occupazione e dell’apartheid può funzionare solo se è una grande campagna a livello internazionale. Come Gupw sosteniamo e partecipiamo a tutte le manifestazioni contro le colonie illegali.

Non ci dimentichiamo di sostenere quelle famiglie o comunità le cui case si trovano al di là del muro dell’apartheid e la cui vita è diventata un labirinto di checkpoint, orari di chiusura e apertura, controlli militari, minacce di demolizione delle case e tutto il corollario classico dell’occupazione coloniale. Combattiamo quotidianamente contro tutti i molteplici tentativi di normalizzazione dell’occupazione, ovvero il tentativo di farci accettare lo status quo dell’occupazione come un dato di fatto con cui convivere con rassegnazione e in cui provare a svolgere una vita normale, come se niente fosse. Stiamo vicine e non lasciamo sole nel dolore tutte le madri che hanno perso un figlio o una figlia, uccisi dai soldati israeliani. Oppure sosteniamo tutte quelle famiglie che hanno perso una donna per mano dell’occupazione, che sia una figlia, una madre o una nonna. Invitiamo sempre le famiglie a denunciare gli omicidi e affrontare il processo, offrendoci di seguirle passo passo in tutta la fase processuale. E’ chiaro che non crediamo nei tribunali e nella giustizia dell’occupante ma crediamo anche che sia importante mostrare al mondo tutta l’ipocrisia del sistema dell’occupazione che nella stragrande maggioranza dei casi assolve i suoi soldati assassini. Inoltre, con quelle sentenze di assoluzione possiamo rivolgerci ad altre istituzioni internazionali e combattere così l’occupazione su piani diversi.

Incoraggiamo il lavoro manuale tradizionale delle donne e organizziamo periodicamente dei mercatini in cui provare a vendere questi prodotti. In questo modo proviamo a generare piccole entrare di reddito per le donne per favorire la loro autonomia. Ovviamente come Gupw un momento centrale della nostra attività è l’8 marzo. Ogni anno incentriamo la nostra manifestazione sulla richiesta di libertà per tutte le donne prigioniere. E’ un momento di grande visibilità e quindi decidiamo di sfruttarlo per parlare della condizione delle nostre sorelle in prigione. Irrinunciabile per noi è andare ogni 8 marzo in corteo verso un checkpoint della nostra città a urlare la nostra rabbia in faccia ai soldati per la prigione a cielo aperto in cui l’occupazione ci costringe a vivere e per chiedere di poter riavere tra di noi e riabbracciare le nostre sorelle sequestrate nelle prigioni dell’occupante. Ogni anno poi, in prossimità dell’8 marzo, organizziamo conferenze, iniziative e incontri con tutte le organizzazioni delle donne palestinesi per rinsaldare e rafforzare l’unità d’azione. In questo periodo poi come Gupw stiamo lavorando all’organizzazione del nostro sesto congresso. Lo stiamo immaginando come una sorta di conferenza internazionale delle donne. Infatti, oltre alle donne palestinesi nei campi profughi di Siria, Libano e Giordania, stiamo invitando anche delegazioni dal Sud America, dal Cile e dal Brasile.

Può entrare più nello specifico sulla tua visione delle donne nella società e nella lotta palestinese?

Lo dico molto francamente: le donne soffrono di più sotto l’occupazione militare ed è proprio a causa di questa sofferenza che le donne palestinesi sono donne molto forti. Fin dall’inizio della nostra lotta ci sono sempre state delle combattenti e ancora oggi è così. Perché le donne che sono in prigione sono delle combattenti. Le giovani ragazze che attaccano i checkpoint militari sono delle combattenti. Le donne palestinesi si considerano ancora delle combattenti. In questo non è cambiato nulla. Le donne sono quindi coinvolte nella rivoluzione palestinese. Questo coinvolgimento riguarda ambiti anche molto diversi: ci sono le giovani donne che continuano a studiare nonostante le mille difficoltà e riescono a formare una loro competenza, ci sono le donne che si attivano per il boicottaggio di Israele e quelle che non permettono ai soldati di entrare nelle loro case quando vengono per arrestare dei loro familiari. Poi ci sono ovviamente le donne che fanno la resistenza. Le donne sotto l’occupazione soffrono il doppio. Se guardi negli occhi di una donna palestinese puoi leggere l’orgoglio di essere palestinese, perché siamo donne forti. I nostri sono occhi bellissimi. Purtroppo, visto che viviamo questa terribile situazione di occupazione militare, spesso ci scordiamo dei nostri diritti di donne, o meglio li mettiamo in secondo piano. Per esempio, ci scordiamo che non dobbiamo permettere che una ragazza si sposi prima dei 18 anni. Oppure ci scordiamo che dobbiamo difendere i diritti di ogni donna nel matrimonio, come anche nel divorzio.

Come Gupw quindi abbiamo fatto la precisa scelta di non relegare in secondo piano, per via dell’occupazione, la difesa dei nostri diritti di donne. Anzi, abbiamo deciso di concentrarci proprio su questo tema per combattere l’occupazione. Noi combattiamo la violenza dell’occupazione combattendo la violenza sociale che gli uomini esercitano su di noi. Un esempio attuale e specifico su tutti: il Cedaw (Commitee on the Elimination of Discriminations Against Women, comitato delle Nazioni Unite fondato nel 1979. Gli Stati che ratificano questa convenzione si impegnano ad adeguare a essa la loro legislazione, a eliminare ogni discriminazione nonché a prendere ogni misura adeguata per modificare costumi e pratiche consuetudinarie discriminatorie. La Palestina ha firmato nell’aprile 2014, ndr). Ogni anno l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) scrive la propria relazione per le Nazioni Unite sull’attuazione del Cedaw. Noi e le altre organizzazioni di donne contribuiamo alla stesura dello Shadow report (le “relazioni ombra” sono un metodo per integrare e/o presentare informazioni alternative ai rapporti che i governi sono tenuti a presentare in base ai trattati sui diritti umani, ndr), scriviamo la nostra relazione ombra. Il nostro rapporto è sempre diviso in due parti. Una parte è dedicata alla violenza delle forze di occupazione contro le donne, l’altra parte invece si concentra sulla violenza dell’Autorità palestinese contro di noi.

Voglio dire con questo che noi donne palestinesi dobbiamo muoverci contemporaneamente su diversi fronti: dobbiamo combattere l’occupazione, dobbiamo combattere l’Autorità palestinese e il sistema patriarcale della nostra società. Per questo cerchiamo sempre il contatto con tutte le donne nel mondo, perché vogliamo imparare dalle lotte delle donne nei differenti contesti. Vogliamo confrontarci e capire meglio insieme come combattere la violenza contro di noi nelle nostre diverse società. Quando ad esempio è cominciata la guerra in Siria, Daesh e al Nusra hanno attaccato e assediato il campo profughi palestinese Yarmouk. Chi ha sofferto più di tutti? Le donne rifugiate del campo. Hanno sofferto come tutti la guerra, in più dovevano fuggire da chi voleva letteralmente schiavizzarle. Le donne del Yarmouk Camp si sono dovute rifugiare in Libano. Come Gupw ci siamo occupate anche di loro, sostenendole materialmente ed economicamente.

Si sono registrati dei cambiamenti nella condizione delle donne nella società palestinese rispetto a venti, trenta o quaranta anni fa?

La situazione delle donne nella società palestinese è cambiata molto negli ultimi decenni. Le donne ora possono prendere il passaporto senza l’obbligo della firma dell’uomo e possono aprire un conto in banca ai loro figli (prima era proibito). Oggi le donne possono andare autonomamente in tribunale e divorziare, prima qualche maschio della famiglia (marito, fratello, zio o cugino) le avrebbero ammazzate per “difendere l’onore del nome della famiglia”. A Gaza purtroppo le donne soffrono ancora di più, sia sotto l’occupazione, sia sotto il governo di Hamas. Quando Hamas ha preso il potere nel 2007 e ha sostenuto il velo obbligatorio per tutte le donne e “consigliato” loro di non lavorare ma occuparsi della famiglia e della casa, alcune donne si sono subito ribellate, ma poche. Perché solo poche? Perché la maggior parte delle gazawi non aveva paura tanto di Hamas, quanto del marito o in generale degli uomini della famiglia. Adesso, rispetto ai primi anni dopo il 2007, anni veramente di buio oscurantismo, la situazione a Gaza è un minimo migliorata. Ma succedono ancora delle cose allucinanti. Ad esempio, una vicenda attualissima che riguarda il gruppo musicale Soul Band Gaza, un gruppo di giovani gazawi, tra l’altro musicalmente parlando bravissimi, con una giovane ragazza come cantante. Hanno girato i loro video musicali suonando in pubblico a Gaza, in piazza o sulla spiaggia, e la ragazza cantava senza velo. Hamas l’ha attaccata e la società non l’ha protetta. Ora il gruppo se n’è dovuto andare in Turchia. Ma ti sembra normale che noi come società perdiamo dei giovani talenti del genere perché la ragazza ha cantato in pubblico senza velo?

Si tratta quindi di un problema di società, non solo di regime. Che sia un regime di Fatah o di Hamas, è la società innanzitutto che deve sostenere le donne. Per esempio, ti posso dire cosa è successo pochi mesi fa ad al Khalil (Hebron), qui in Cisgiordania, non nella Striscia sotto Hamas. Come Gupw abbiamo organizzato una conferenza sul Cedaw e i gruppi islamisti hanno organizzato una contro-iniziativa di donne islamiste contro di noi. Donne contro donne, capisci? Le donne islamiste hanno sostenuto che avrebbero combattuto il Cedaw e ci hanno accusato di essere contro il Corano e contro l’Islam. I gruppi islamisti inoltre minacciarono di ritorsioni i proprietari di case e sale ad al Khalil che ci affittarono gli spazi. Quindi mi chiedo io, è davvero più grave la situazione a Gaza che ad al Khalil? Ti faccio un altro esempio: sempre ad al Khalil circa due mesi fa un marito ha ammazzato la propria moglie. I capifamiglia delle due famiglie coinvolte hanno fatto un incontro, si sono messi d’accordo economicamente e il tutto è stato risolto senza l’intervento della legge. E sono proprio questo tipo di famiglie che si oppongono alle nostre attività per l’implementazione del Cedaw. Tre settimane fa qui a Nablus abbiamo organizzato un convegno sul Cedaw. Sono venuti rappresentanti di molte organizzazioni e partiti, dal Fronte Popolare a Fatah. Durante la conferenza all’improvviso si è alzato un uomo che ha detto pubblicamente di essere di Hizb al Tahrir (letteralmente Partito della Liberazione, in realtà si tratta di un gruppo salafita nato proprio ad al Khalil, ndr) e ha iniziato a urlare contro di noi interrompendo l’iniziativa.

Noi non abbiamo Daesh qui in Palestina, noi qui abbiamo Hamas e Hizb al Tahrir. E mi raccomando, voi in Europa fate spesso confusione, il Jihad Islami non fa parte di questa tipologia di formazioni politiche, si tratta di tutto un altro filone. Questi gruppi islamisti o salafiti o come altro preferiscono denominarsi fanno il gioco dell’occupazione. E’ molto semplice: l’occupazione vuole che ci combattiamo tra noi anziché unirci per combattere l’occupazione. Perché Israele per esempio ha permesso a Hizb al Tahrir di fare il suo congresso ad al Khalil? L’occupazione controlla tutto, conta persino quanti ulivi piantiamo e quanti litri d’acqua abbiamo a disposizione e poi permette lo svolgimento del congresso di un gruppo salafita. E’ evidente a ogni mente lucida: se ci uccidiamo tra palestinesi, com’è successo a Gaza tra Hamas e Fatah nel 2007, rendiamo un grandissimo servizio all’occupazione.

Sembra una contraddizione, prima hai parlato di miglioramenti legislativi nella condizione delle donne.

La risposta è che esiste un doppio livello di analisi. C’è il livello legislativo, in cui ci sono stati indubbiamente dei miglioramenti. Poi c’è il livello culturale della società e lì ci sono state invece delle regressioni. Oggi, ad esempio, molte famiglie sono spaventate dal mandare le loro figlie alle manifestazioni, proprio per via di questi gruppi islamisti. Nei decenni passati invece ci sono sempre state tantissime donne nei cortei. La realtà è sempre complessa ed è tra l’altro un tratto tipico delle formazioni politiche reazionarie negare la complessità della realtà che ha intorno per imporre la propria visione semplicistica basata sull’odio e la sopraffazione. Il problema poi è sempre collegato al fatto che siamo sotto occupazione e quindi, tra le altre cose, non abbiamo un parlamento vero. Se ci fosse, noi donne potremmo utilizzare il parlamento per imporre delle regole a nostra protezione contro questi fanatici invasati. Certo, c’è sempre il rischio che anche con un parlamento vero poi con le elezioni arrivano gli islamisti, com’è successo in Tunisia. Ma in Tunisia il movimento delle donne e della società civile progressista è coraggioso e forte e non li farà passare, di questo sono certa. 

nena-news


luglio 31, 2020

AFRICA. Il Great Green Wall





8mila km di alberi per fermare la desertificazione


Al confine Sud del deserto del Sahara, da più di dieci anni sono in corso dei lavori che potrebbero stravolgere l’aspetto e l’ecosfera di una lunga fascia di territorio che attraversa l’Africa da parte a parte. Nel 2007, L’Unione Africana ha infatti dato il via a un ambizioso progetto chiamato “The Great Green Wall”, ovvero la costruzione di una vera e propria grande muraglia verde, che sorgerà nella regione del Sahel e che, una volta terminata, si estenderà per 8.000 chilometri di lunghezza e 15 di larghezza.

Vediamo brevemente di cosa si tratta:




maggio 29, 2020

PALESTINA. La Nakba. L'esodo forzato dei palestinesi ieri e oggi.




In un articolo postato sulla rivista online Pressenza, Patrizia Cecconi ci spiega quali sono le origini della Nakba (in arabo “la catastrofe”), nome con cui si indica l’esodo forzato di circa 700.00 palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948. Israele impedì e tuttora impedisce loro l’esercizio del diritto di rientrare nella propria patria sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite. 

Un esodo forzato che ancora continua in forza delle degli insediamenti messi in atto dalla potenza occupante. 



Era il 14 maggio di 72 anni fa, un giorno prima che scadesse il mandato britannico sulla Palestina, quando Ben Gurion, capo dell’Organizzazione Sionista Mondiale fondata nel 1897 da Theodor Herzl e presidente dell’Agenzia Ebraica, proclamò la nascita dello Stato di Israele.  Non fu una nascita stabilita dall’ONU ma fu un’autoproclamazione, peraltro su un territorio già abitato.
L’occasione fu fornita dalla Risoluzione ONU 181 del 29 novembre 1947, Risoluzione molto sofferta e fortemente voluta dal presidente USA Truman. La giustificazione teorica era quella di portare la pace in quella zona del Medio Oriente abitata da arabi di diverse religioni, prevalentemente musulmani, ma con un buon 20% di cristiani e circa il 6% di ebrei, questi ultimi in parte nativi e in parte arrivati dall’Occidente negli ultimi decenni.
Non era il credo religioso il problema del conflitto che in diversi periodi del Mandato britannico (ottenuto alla fine della Prima guerra mondiale e non certo per fini caritatevoli) si era ripresentato, quanto piuttosto l’uso politico della religione che, a partire dalla fondazione dell’Organizzazione Sionista Internazionale era diventato occasione per pretendere l’occupazione della Palestina, accampando come diritto la mitologia biblica.
Fu la genialità di Theodor Herzl, il giornalista austriaco padre del sionismo, a dare questo impulso para-religioso quando, dopo aver abbandonato la possibilità di creare uno Stato per gli ebrei in America o in Africa, aveva pensato, pur essendo ateo, che scegliere un luogo in cui si potessero accampare miti fondativi di carattere religioso sarebbe stata la carta vincente per far sentire “popolo” genti provenienti da tutto il mondo e unite solo dalla comune religione.


Il Mandato britannico, pur non essendo favorevole agli arabi, stava tuttavia piuttosto stretto agli ebrei sionisti che ormai, animati dal progetto lanciato da Herzl, si macchiarono di notevoli crimini e non solo contro i palestinesi, al punto che il Regno Unito, qualche anno dopo la Grande rivolta araba del “36/”39, decise di restituire il Mandato stesso non riuscendo a gestire i disordini che ormai potevano essere a buon diritto chiamati terrorismo delle varie formazioni paramilitari sioniste.
Infatti, il terrorismo ebraico pre-israeliano, di cui si è costretti a tener conto per correttezza storica facendo bene attenzione a strumentali fraintendimenti, ormai non si limitava più agli orrendi massacri commessi nei villaggi palestinesi, ma colpiva anche strutture britanniche, nonostante il debito di riconoscenza che il futuro Israele doveva al Regno Unito, anche solo pensando alla dichiarazione di lord Balfour del 1917. Possiamo ricordare, tra le varie azioni moralmente ripugnanti aventi come obiettivo gli inglesi, il massacro del luglio 1946 all’hotel King David a Gerusalemme, sede degli uffici amministrativi britannici, che provocò un centinaio di morti per mano dell’Irgun e della banda Stern, ai cui vertici si trovavano Begin e Shamir (successivamente divenuti importanti e rispettati statisti israeliani) con l’approvazione dell’Agenzia ebraica, ovvero di Ben Gurion, padre fondatore e primo presidente di Israele.


In realtà la Risoluzione 181, che in teoria aveva l’obiettivo di riportare la pace nella Palestina storica dividendone il territorio, non fu mai rispettata. Gli arabi palestinesi, vedendosi togliere il 56% della propria terra da una mano giudicante che non li aveva neanche interpellati, dissero no.
Gli ebrei , invece, ebbero posizioni diverse. Le formazioni terroriste dell’Irgun, della banda Stern e buona parte dei nazionalisti si opposero vigorosamente alla partizione, in quanto rivendicavano l’intera Palestina per la costituzione di Eretz Israel, la grande Israele. Accampavano diritti che andavano anche oltre il fiume Giordano utilizzando l’ineffabile patto di Abramo con Dio per il possesso della “terra promessa”, esattamente come previsto nella grande intuizione di Theodor Herzl .
Ma l’intelligenza politica che non è mai mancata ai futuri israeliani, fece dire a Ben Gurion che andava bene così. Già anni prima, il futuro presidente di Israele, si era espresso dicendo che la fondazione di uno stato ebraico sarebbe stata un primo passo “per il possesso della terra nel suo complesso”.


Quindi il rifiuto degli arabi era un’ottima notizia, sarebbe iniziata una guerra civile già all’emanazione della Risoluzione ONU e poi una guerra vera e propria non solo con i palestinesi ma con tutti gli eserciti arabi. L’importante sarebbe stato vincerla e aumentare da subito il proprio territorio. Infatti, nell’autoproclamazione della nascita di Israele, detta pure atto di indipendenza, del 14 maggio 1948, non si accenna ai confini e tutt’oggi Israele non ha una vera e propria costituzione perché quell’obiettivo, precedente alla stessa fondazione di Israele, passo dopo passo, grazie alla tolleranza o alla complicità internazionale, si sta realizzando e i confini hanno ancora tempo per essere posti.
Israele attende. Attende che le parole di Begin in risposta alla Risoluzione 181 si facciano realtà, cosa che, grazie all’accelerazione data dal presidente più rozzo d’America, sta succedendo. Begin, fondatore del Likud e primo ministro dello Stato di Israele, quando ancora era nei ranghi del terrorista dell’Irgun aveva detto che “La divisione della Palestina è illegale. Non sarà mai riconosciuta. La Grande Israele sarà ristabilita per il popolo di Israele. Tutta. E per sempre”


Se non ci fosse stata la lungimiranza di Ben Gurion, forse lo Stato di Israele non sarebbe nato, ma la storia andò così. Israele, nato alle 4 di un pomeriggio con riunione organizzata in segreto, ma lettura della dichiarazione d’indipendenza inviata in diretta alla radio, Kol Yisrael che iniziò così le sue trasmissioni, ebbe il primo riconoscimento dall’Unione Sovietica a soli tre giorni dall’autoproclamazione. Il suo esercito, incredibilmente potente per uno Stato appena costituito riuscì a tener testa agli eserciti di tutti i paesi arabi che tentarono di sopraffarlo. Roba che, se non si crede ai miracoli, si deve per forza credere a tanti interessi occidentali che, mentre avevano taciuto durante la tragedia della Shoah, oggi si prodigavano per sostenere uno Stato che della Shoah avrebbe fatto il suo cavallo di battaglia e il suo silenziatore di ogni critica per le sue azioni aberranti e criminali contro i palestinesi.
Poche ore dopo la dichiarazione di Ben Gurion l’esercito mandatario avrebbe lasciato la Palestina, come già reso pubblico in precedenza e ben calcolato dal fondatore del nuovo Stato.
Israele nasceva quindi al di fuori della legalità internazionale ma veniva immediatamente riconosciuto e poco dopo accolto come membro delle Nazioni Unite.


I massacri di palestinesi, già iniziati pochi mesi prima, il 15 maggio divennero vera e propria catastrofe, la NAKBA, appunto. Le formazioni paramilitari, che presto sarebbero quasi tutte diventate componenti effettive dell’esercito “più morale del mondo” ebbero un ruolo importante, un ruolo che nessuna Risoluzione ONU avrebbe mai potuto dichiarare: quello di iniziare la pulizia etnica della Palestina.
Israele voleva la terra palestinese, non voleva uno Stato al cui interno potessero convivere gli autoctoni. La dichiarazione d’indipendenza parlava di Stato con parità di diritti senza distinzione di credo, di sesso, o di razza, è vero, ma le parole servono alla narrazione. I fatti erano altri: bisognava liberare le case palestinesi affinché vi si potessero insediare gli ebrei venuti da varie parti del mondo.


In pochi giorni vennero distrutti i primi 432 villaggi di varie dimensioni. Città come Haifa o Jaffa vennero occupate e bombardate. Gli abitanti cacciati o uccisi o costretti a fuggire per il terrore di essere a loro volta uccisi o fare la fine degli abitanti di Deir Yassin, o di Abu Shuha, o di Al Arabiya dei cui massacri, come quelli di tanti altri villaggi, erano arrivate le notizie portate dai superstiti terrorizzati.
Quasi tutti i circa 750.000 palestinesi costretti a lasciare le loro case non ancora distrutte portarono con sé le chiavi, convinti che l’ONU avrebbe ristabilito i loro diritti o che chi eserciti arabi avrebbero costretto Israele a fermare le sue pretese.
Non andò così. La guerra andò avanti con alcune brevi tregue e Israele, il “piccolo Stato appena nato” forte di una dotazione militare che neanche Dio avrebbe saputo fornirgli, vinse la guerra appropriandosi del 78% del territorio palestinese contro il 56% previsto nella Risoluzione 181.




Per i palestinesi il 15 maggio del “48 iniziò la diaspora. Paradossalmente, lo stesso anno della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, i palestinesi si videro privati di ogni diritto da parte di uno Stato che voleva eliminarli dalla loro terra, distruggerne la cultura e la memoria affinché quella terra diventasse loro aliena.
Nel dicembre dello stesso anno l’ONU emanò la Risoluzione 194 con la quale dichiarava il diritto al ritorno nelle loro case e nelle loro terre dei profughi palestinesi. Israele non riconobbe mai quel diritto, lo stesso per il quale i palestinesi di Gaza hanno portato avanti per circa due anni la Grande Marcia de Ritorno, ricevendo dal mondo indifferenza e qualche buona parola mentre Israele decretava la pena di morte senza processo dei manifestanti inermi uccidendone circa 300 e lasciandone mutilati alcune centinaia. Nessuna sanzione contro o Stato ebraico neanche stavolta, solo qualche richiamo a non essere troppo birichino!


Israele non ha rispettato mai nessuna Risoluzione ONU, ha seguitato a mangiarsi terra palestinese creando suoi insediamenti abitativi illegali in tutta la cosiddetta Area C, cioè la parte di territori palestinesi “temporaneamente” sotto la sua giurisdizione secondo gli infelici Accordi di Oslo del 1993.
Il desiderio di Begin e le profezie di Ben Gurion si avvicinano alla realizzazione. Israele, mostrando al mondo che il Diritto è carta straccia quando si ha la forza e le giuste alleanze, sta per annettersi – sostenuto e incoraggiato dall’America del presidente Trump, a sua vota sostenuto dalle lobby ebraiche negli Usa – un altro grosso pezzo di Palestina, quello in cui ha illegalmente costruito le proprie colonie, e la Valle del Giordano. I palestinesi si oppongono ma è una battaglia impari tra una voce che grida i suoi diritti e un gigantesco mostro armato di tutto che quei diritti li calpesta senza averne in cambio neanche una sanzione.


Oggi i palestinesi commemorano la Nakba, ma contro il volere di Israele, perché Israele sa che la memoria deve essere selettiva, e quella palestinese non deve avere visibilità. Le commemorazioni della catastrofe non devono sciupare con la loro tristezza i festeggiamenti per la ricorrenza della nascita dello Stato che ha invaso la Palestina. Lo sa talmente bene che nel 2010 il suo parlamento, la Knesset, ha votato una legge che punisce i palestinesi con cittadinanza israeliana che commemorano la Nakba: la pulizia etnica ha le sue regole e il “memoricidio” è una di esse, solo così può essere dimenticata la sostituzione della popolazione autoctona con popolazione insediata al suo posto.
Ma una cosa Israele forse non riesce a comprendere e cioè che, seppure riuscirà a comprarsi o a sottomettere con la forza o a cacciare dalla Palestina il 99% dei palestinesi, quell’1% che resterà perché non ucciso, non comprato, non cacciato, sarà il suo tormento finché non avrà giustizia. E ormai la giustizia non è più soltanto nel diritto al ritorno, nell’avere uno Stato sovrano, o nel riconoscimento di eguali diritti in uno Stato che non sia discriminatorio, o nel riconoscere il diritto alla libertà, no, ormai, oltre a tutto questo, la giustizia esige che Israele venga condannato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ai sensi del Diritto internazionale e del Diritto Umanitario Universale.
La memoria della Nakba non sarà mai cancellata, neanche se Israele ormai la vieta nei libri di storia e i suoi sodali pensano di comprarla con qualche pugno di dollari, magari ricorrendo al “deal of the century” meglio espresso con la formula “Peace to prosperity”. Anche Israele qualche volta commette errori di valutazione: non ha pensato che non tutti gli uomini sono in vendita.

Articolo originale su Pressenza

marzo 30, 2020

EMERGENZA CORONAVIRUS: Più investimenti per la salute, meno spese militari.



Emergenza Coronavirus: necessario un nuovo modello di difesa e sicurezza
Rete della Pace e Rete italiana per il Disarmo: "Più investimenti per la salute, meno spese militari".

Fonte: Rete Italiana per il Disarmo - 17 marzo 2020

L'Italia e il mondo intero stanno affrontando la gravissima emergenza sanitaria derivante dalla pandemia di coronavirus COVID-19, forse la più grande crisi di salute pubblica (e non solo) del dopoguerra per i paesi ricchi ed industrializzati. Rete della Pace e Rete italiana per il Disarmo si uniscono alle voci di vicinanza e compartecipazione ai problemi che l'intero Paese sta vivendo, con un particolare pensiero ai familiari delle vittime e un forte sostegno nei confronti degli operatori della sanità e di chi mantiene operativi i servizi essenziali.

La drammatica situazione causata dal COVID-19 deve farci riflettere e ripensare alle nostre priorità, al concetto di difesa, al valore del lavoro e della salute pubblica, al ruolo dello Stato e dell’economia al servizio del bene comune, con una visione europea ed internazionale, costruendo giustizia sociale, equità, democrazia, pieno accesso ai diritti umani universali, quali condizioni imprescindibili per ottenere sicurezza, benessere e pace.
Non possiamo però dimenticare che l'impatto di questa epidemia è reso ancora più devastante dal continuo e recente indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale a fronte di una ininterrotta crescita di fondi e impegno a favore delle spese militari e dell'industria degli armamenti. Non siamo cosi sprovveduti da pensare che tutti i problemi sanitari dell'Italia si possano risolvere con una riduzione della spesa militare (anche per il diverso ordine di grandezza: 5 a 1), ma è del tutto evidente che una parte della soluzione potrebbe risiedere proprio nel trasferimento di risorse dal campo degli eserciti e delle armi a quello del sistema sanitario e delle cure mediche, tenendo conto che le tendenze degli ultimi anni dimostrano una strada diametralmente opposta. 



Mentre infatti (come dimostrano le analisi della Fondazione GIMBE- Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze) la spesa sanitaria ha subito una contrazione complessiva rispetto al PIL passando da oltre il 7% a circa il 6,5% previsto dal 2020 in poi, la spesa militare ha sperimentato un balzo avanti negli ultimi 15 anni con una dato complessivo passato dall'1,25% rispetto al PIL del 2006 fino a circa l'1,40% raggiunto ormai stabilmente negli ultimi anni (a partire in particolare dal 2008 e con una punta massima dell'1,46% nel 2013).

Le stime dell' Osservatorio MIL€X degli ultimi due anni ci parlano di una spesa militare di circa 25 miliardi di euro nel 2019, (cioè 1,40% rispetto al PIL) e di oltre 26 miliardi di euro previsti per il 2020 (cioè l'1,43% rispetto al PIL), quindi quasi ai massimi dell’ultimo decennio. All'interno di questi costi sono ricompresi sia quelli delle 36 missioni militari all'estero (ormai stabilmente pari a 1,3 miliardi annui circa) sia quelli del cosiddetto "procurement militare", cioè di acquisti diretti di armamenti. Una cifra che negli ultimi bilanci dello Stato si è sempre collocata tra i 5 e i 6 miliardi di euro annuali. Sono questi i fondi che servono a finanziare lo sviluppo e l'acquisto da parte dell'Italia di sistemi d'arma come i caccia F-35 (almeno 15 miliardi di solo acquisto), le fregate FREMM e tutte le unità previste dalla Legge Navale (6 miliardi di euro complessivi) tra cui la "portaerei" Trieste (che costerà oltre 1 miliardo), elicotteri, missili. Senza dimenticare i 7 miliardi di euro "sbloccati" dalla Difesa e dal MISE, in particolare per mezzi blindati e la prevista "Legge Terrestre" da 5 miliardi (con Leonardo principale beneficiario).

Contemporaneamente nel settore sanitario sono stati tagliati oltre 43.000 posti di lavoro e in dieci anni si è avuto un definanziamento complessivo di 37 miliardi (dati sempre della Fondazione GIMBE) con numero di posti letto per 1.000 abitanti negli ospedali sceso al 3,2 nel 2017 (la media europea è del 5). Le drammatiche notizie delle ultime settimane dimostrano come non siano le armi e gli strumenti militari a garantire davvero la nostra sicurezza, promossa e realizzata invece da tutte quelle iniziative che salvaguardano la salute, il lavoro, l’ambiente (per il quale l’Italia alloca solamente lo 0,7% del proprio bilancio spendendone poi effettivamente solo la metà).

Infine va ricordato come l'Amministrazione statunitense sotto Trump stia spingendo affinché tutti gli alleati NATO raggiungano un livello di spesa militare pari al 2% rispetto al PIL. Una richiesta che, secondo recenti dichiarazioni e notizie di stampa, sarebbe stata accettata anche dagli ultimi Governi italiani: ciò significherebbe un ulteriore esborso per spese militari di almeno 10 miliardi di euro per ogni anno. Riteniamo questa prospettiva inaccettabile, soprattutto quando è evidente che dovrebbero essere potenziati i servizi fondamentali per la sicurezza ed il progresso del Paese, a partire dal Sistema Sanitario Nazionale, insieme all’educazione, alla messa in sicurezza idro-geologica del territorio, ai processi di disinquinamento, agli investimenti per l’occupazione.

Il Governo, proprio in queste ore, ha messo in campo misure economiche straordinarie per rispondere all'emergenza sanitaria del coronavirus: "Cura Italia" costa 25 miliardi di denaro fresco, la stessa cifra del Bilancio della Difesa annuale, e certamente non basterà; quanto si potrebbe fare di più risparmiandoci le spese militari anche in tempi ordinari?

In definitiva è essenziale ed urgente:
o    rilanciare proposte e pratiche di vera difesa costituzionale dei valori fondanti la nostra Repubblica, come le iniziative a sostegno della Difesa Civile non armata e Nonviolenta. È necessario un aumento delle spese per la sanità, come è pure necessario investire, senza gravare sulla spesa pubblica, a favore della difesa civile nonviolenta e per questo chiediamo che vi siano trasferimenti di fondi dalla spesa militare verso la Protezione Civile, il Servizio Civile universale, i Corpi civili di Pace, un Istituto di ricerca su Pace e disarmo. Proponiamo inoltre che i contribuenti, in sede di dichiarazione dei redditi, possano fare la scelta se preferiscono finanziare la difesa armata o la difesa civile riunita in un apposito Dipartimento che ne coordini le funzioni.  Un'opzione fiscale del 6 per 1000 a beneficio della difesa civile potrebbe consentire ai cittadini di contribuire direttamente a questa forma nonviolenta di difesa costituzionale, finora trascurata dai Governi che hanno sempre privilegiato la difesa militare armata;
o    ridurre le spese militari ed utilizzare tali fondi per rafforzare la sanità, per l’educazione, per sostenere il rilancio della ricerca e degli investimenti per una economia sostenibile in grado di coniugare equità, salute, tutela del territorio ed occupazione; 
o    puntare alla riconversione produttiva (anche grazie alla diversa allocazione dei fondi pubblici) delle industrie a produzione bellica verso il settore civile che consentirebbe, inoltre, di utilizzare migliaia di tecnici altamente qualificati per migliorare la qualità della vita (verso l'economia verde e la lotta al cambiamento climatico), non per creare armi sempre più sofisticate e mortali;

Già subito dopo la seconda guerra mondiale il nascente movimento pacifista chiedeva "Ospedali e scuole, non cannoni", come ricordava Aldo Capitini alla prima Marcia italiana per la pace e la fratellanza tra i popoli. Dopo 60 anni ci accorgiamo che quel semplice slogan non era un sogno utopistico generico, ma una realistica necessità politica: oggi ci troviamo con ospedali insufficienti e scuole chiuse, mentre spendiamo troppo per le armi.

Una conversione della difesa dal militare al civile è quello di cui abbiamo tutti bisogno.