luglio 29, 2013

PALESTINA. L’Unione Europea cessa ogni cooperazione con le colonie installate da Israele nei territori palestinesi occupati dal 1967.



Il 19 luglio scorso sulla Gazzetta Ufficiale dell'UE sono state pubblicate le linee guida che precisano i limiti territoriali ai quali si applicherà a partire dal 2014 la cooperazione dell’Unione Europea con Israele. Si tratta di una decisione che ha una portata politica di notevole importanza perché stabilisce chiaramente che gli Accordi UE-Israele, i finanziamenti comunitari, gli scambi finanziari, economici e culturali non saranno applicabili ai territori occupati da Israele dal 1967, territori che l’Unione Europea non riconosce come territori di Israele e che Israele invece continua a colonizzare illegalmente, contro il diritto internazionale. (v. in dettaglio la notizia in apiceuropa.eu).
“…2.  Per territori occupati da Israele dal giugno 1967  – precisa il provvedimento comunitario-  si intendono le Alture del Golan, la Cisgiordania inclusa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza.       
3. L'Unione europea non riconosce la sovranità di Israele sui territori di cui al punto 2 che non ritiene parte del territorio d'Israele, indipendentemente dal loro status giuridico nell'ordinamento israeliano…”.



La decisione costituisce corretta applicazione di quanto statuito nella Risoluzione con cui nel novembre dello scorso anno l’Assemblea Generale ha ammesso lo Stato Palestinese alle Nazioni Unite: “…riaffermando il principio, sancito dalla Carta ⦋delle NU⦌ della inammissibilità dell'acquisizione di territori con la forza, riaffermando anche le sue risoluzioni 43/176 del 15 dicembre 1988 e 66/17 del 30 novembre 2011 e tutte le risoluzioni pertinenti in merito alla soluzione pacifica della questione palestinese le quali, tra l'altro, sottolineano la necessità del ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati dal 1967…e la completa cessazione di tutte le attività di colonizzazione israeliana nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est…” (v. il nostro articolo pubblicato nel novembre scorso)

Foto news - 7 giugno - Palestina


Nei territori occupati da Israele dopo il 1967 –informa Luisa Morgantini di assopacepalestina.org- vivono circa 500mila coloni che controllano il 43% dei territori tra Cisgiordania e Gerusalemme est e la maggior parte delle risorse naturali e idriche. Pur se tali colonie sono di fatto illegali secondo la legge internazionale, gli Stati europei hanno un volume di affari con loro di 100 volte superiore a quello che hanno con i palestinesi. Aggiunge Luisa Morgantini che la decisione adottata potrà avere un impatto positivo sulle possibilità di pace e bloccare le costruzioni illegali nei territori palestinesi poiché Israele finalmente capirà che il proseguimento della colonizzazione e dell’occupazione ha un prezzo da pagare.
Tra l'altro  le principali banche e compagnie israeliane rischiano di perdere i prestiti della Banca di Investimento UE. Tra i soggetti esclusi dal ricevere prestiti dalla Banca di Investimento Europea -segnala "articolo21"- ci saranno le principali banche israeliane, comprese Bank Hapoalim, Mizrahi Tefahot Bank e Bank Leumi, che operano illegalmente nei territori occupati e hanno filiali nelle colonie illegali israeliane.

Secondo alcuni osservatori internazionali le implicazioni di tale decisione non faranno che contribuire alla ricerca di una soluzione negoziata del conflitto arabo-israeliano per svariati motivi. Tuttavia, almeno per il momento, la risposta israeliana alla decisione di Bruxelles contro le colonie appare di segno opposto: non saranno rilasciati permessi per progetti in Cisgiordania e sarà vietato l'ingresso al personale della UE.

                                               
Nel frattempo l’Italia continua a fare affari con Israele, e in particolare con l’export armato.


Sebbene la legge n.185 del 1990 che regola l’export militare italiano stabilisca (art.1, comma 6) che l'esportazione di materiali di armamento sono vietati verso paesi in conflitto o in cui siano accertate gravi violazioni dei diritti umani o la cui spesa miliare è eccessiva rispetto a quella sociale (tutte “qualità” in cui Israele eccelle), al primo posto nell’export armato italiano c’è Israele (473 milioni di esportazioni autorizzate)

mg

luglio 15, 2013

EGITTO. Stupri di massa come arma di guerra


Ormai si contano a centinaia le aggressioni sessuali contro le donne che partecipano alle manifestazioni in piazza Tahrir. Molte donne hanno subìto un intervento chirurgico dopo essere state violentate, alcune di loro addirittura con oggetti appuntiti. Altre sono state picchiate con catene, bastoni e altri corpi contundenti o ferite con lame di coltelli. In soli quattro giorni sono un centinaio le donne che hanno subito violenza nella piazza (v.la Repubblica).

 
Joe Stork, vice direttore per il Medio Oriente di Human Rights Watch afferma “questi sono crimini gravissimi che tentano di dissuadere le donne dal partecipare alla vita pubblica in Egitto". Human Rights Watch  mette in evidenza infatti le modalità con cui avvengono le aggressioni, organizzate da gruppi perfino di 100 uomini. L’azione inizia quando un gruppo di una quindicina di uomini riesce a circondare una donna separandola dai suoi amici. Subito si formano diversi cordoni di uomini: il primo la butta a terra , la denuda e la viola sessualmente, il secondo e il terzo gruppo si incarica di evitare che qualcuno si avvicini. Di fronte alle modalità con cui avvengono è difficile credere che  tratti di episodi isolati e spontanei, ed appare invece ben evidente che si tratta di attacchi ben organizzati e orchestrati. (v. El Pais)

E’ molto difficile per una donna raccontare la violenza subita. Così il silenzio e l’omertà garantiscono impunità ai colpevoli. Però oggi qualcosa si sta muovendo: se in passato la media delle denunce da parte delle donne violentate era di una all'anno adesso il numero è molto più alto. Le donne oggi stanno parlando. Così afferma Azza Soliman, fondatrice del Centro di Assistenza Legale per le Donne Egiziane





Parallelamente sono nate diverse iniziative per proteggere le donne che partecipano alle manifestazioni da parte di attivisti e della società civile come quella dell’organizzazione di cordoni umani, ben evidenziata nella foto sottostante. 

La violenza sessuale come arma di guerra


Durante i conflitti, sia internazionali che interni, spesso vengono commessi stupri e violenze sessuali per scopi diversi: seminare terrore tra la popolazione, disgregare famiglie, distruggere le comunità modificandone la composizione etnica e come specifica forma di arma politica per polverizzare il fronte nemico .
Quello che sta succedendo in Egitto riporta alla mente le efferate violenze sessuali sistematicamente avvenute in Cile durante la dittatura del generale Pinochet (1973-1990) nei confronti delle donne militanti politiche. Nei loro confronti la violenza sessuale assolveva una funzione punitiva per aver oltrepassato il limite: in qualità di potenziali sovversive e per essersi spinte ben oltre il ruolo loro consentito e socialmente accettabile (v. il rapporto della Commissione Valech)

La violenza sessuale in situazioni di conflitto come crimine internazionale.


Per secoli, la violenza sessuale in situazioni di conflitto è stata tacitamente accettata e ignorata. Durante la Seconda Guerra Mondiale, tutte le parti del conflitto furono accusate di aver commesso stupri di massa, tuttavia nessuno dei due tribunali istituiti a Tokyo e a Norimberga dai paesi alleati risultati vittoriosi per perseguire i crimini di guerra hanno riconosciuto il reato di violenza sessuale.

É stato solo nel 1992, a fronte degli efferati stupri di donne avvenuti nella ex Yugoslavia, che il tema è giunto all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il 18 dicembre 1992, il Consiglio ha dichiarato la “prigionia di massa, organizzata e sistematica e lo stupro di donne, in particolare di donne musulmane, in Bosnia e in Erzegovina” un crimine internazionale che deve essere perseguito.
In seguito, lo Statuto del Tribunale Penale Internazionale per la ex Yugoslavia (ICTY, 1993) ha incluso lo stupro come crimine contro l’umanità e il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (ICTR, 1994) ha dichiarato che lo stupro è un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità (v. la giurisprudenza dei Tribunali speciali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda nel rapporto della relatrice speciale ONU sulla violenza contro le donne).

Infine, lo Statuto della Corte Penale Internazionale in vigore da luglio 2002, considera lo stupro e le altre violenze di genere fra i crimini più gravi di interesse della comunità internazionale e li definisce come atti costitutivi di crimini contro l’umanità e crimini di guerra.


A partire dal 2000 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato importanti risoluzioni volte a potenziare da un lato le misure di contrasto alla violenza sessuale in situazioni di conflitto e dall’altro per dare l’avvio ad iniziative atte a garantire la partecipazione delle donne ai vertici degli organismi internazionali nella “prevenzione e risoluzione dei conflitti” e nelle operazioni di peacekeeping, partecipazione considerata elemento indefettibile per il mantenimento della pace. Risoluzione 1325 (2000); Risoluzione 1820 (2008); Risoluzione 1888 (2009); Risoluzione 1889 (2009); Risoluzione 1960 (2010).


Nel 2007 nasce UN Action Against Sexual Violence in Conflict, un'unità in seno alle Nazioni Unite il cui compito è coordinare il lavoro di 13 enti impegnati nella lotta contro le violenze sessuali nei conflitti.

Il rapporto dal titolo "Violenza sessuale in situazioni di conflitto"pubblicato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon  nel gennaio 2012, mette in evidenza come la violenza sessuale in situazioni di conflitto non sia una realtà limitata a una particolare area geografica, ma un problema di carattere globale; come venga utilizzata anche nel corso di elezioni politiche, scioperi e disordini civili e come essa rappresenti una minaccia per la sicurezza delle Nazioni, e costituisca  spesso un ostacolo all'instaurazione e al mantenimento della pace.  Un paragrafo specifico viene dedicato alle violenze sessuali avvenute in Egitto nel 2011 durante le sollevazioni popolari che misero fine alla dittatura di Mubarak.



Obblighi e responsabilità dello Stato



La recente giurisprudenza delle corti internazionali, in  particolare della Corte interamericana dei diritti umani, ha statuito che è obbligo inderogabile dello Stato investigare con la dovuta diligenza, giudicare e perseguire i responsabili degli episodi di violenza sessuale avvenuti nel proprio territorio nel corso di confitti armati o di violenza generalizzata,  nonché adottare politiche appropriate per sradicare e perseguire tali pratiche. Sulla base di tale orientamento la Corte ha emesso storiche sentenze di condanna nei confronti dei governi del Guatemala (2004), Perù (2006) e Messico (2009).  

 

La violenza sessuale in situazioni di conflitto come continuum della violenza in tempo di pace.

 

L'esercizio della violenza di genere  in situazioni di conflitto costituisce un continuum dei comportamenti discriminatori e violenti che avvengono in tempo di pace e un'estensione della distribuzione diseguale del potere economico e sociale fra i sessi. La violenza corre infatti sempre sul filo di sistemi di dominio e di potere fondati sulla razza, il sesso, condizioni sociali, nazionali ed etniche spesso interconnessi e che si alimentano reciprocamente. La violenza è il risultato della discriminazione e agisce come moltiplicatore della discriminazione.

La battaglia dei movimenti femminili sul fronte internazionale per ottenere strumenti normativi a carattere universale contro la discriminazione e la violenza è iniziata nel 1975 con la prima conferenza mondiale sulle donne tenutasi a Città del Messico ed è proseguita con le altre  tre conferenze mondiali (Copenhagen 1980, Nairobi 1985 e Pechino 1995) convocate dalle Nazioni Unite nel corso dell’ultimo quarto di secolo.  

Nel 1993 la "Conferenza Mondiale sui diritti umani" tenutasi a Vienna riconosceva a pieno titolo la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani. Successivamente la "Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne" , assunta dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riconosceva che
"la violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini"

mg

   

 

 










 

 




luglio 14, 2013

PAKISTAN. Malala Yousufzai, la studentessa pakistana rimasta fra la vita e la morte per un attentato taleban, ha ripreso la sua battaglia e parla all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.




“Dateci penne oppure i terroristi metteranno in mano alla mia generazione le armi”.

Questa frase è di Malala Yousufzai la giovanissima studentessa a cui un gruppo di talebani ha sparato alla testa il 9 ottobre scorso all’uscita da scuola. Il fatto è avvenuto nella valle dello Swat, nel nord-ovest del Pakistan, regione ancora controllata dai talebani (vedi la notizia riportata dal nostro blog).

Dopo aver lottato tra la vita e la morte per diversi mesi ed aver subito delicati interventi chirurgici, Malala ha ripreso la sua coraggiosa battaglia il 12 luglio scorso ha parlato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite chiedendo con forza che la comunità internazionale si attivi con iniziative contundenti ed efficaci perché sia garantito nel mondo il diritto all’istruzione: "chiediamo a tutti i governi di assicurare l'istruzione obbligatoria e gratuita in tutto il mondo ad ogni bambino"

Vi proponiamo un estratto del suo intervento:

“un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo, l’istruzione è l’unica soluzione”








 mg

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