novembre 30, 2013

MALI. “Ridare il Mali ai maliani”: l'appello di Aminata Traoré ex ministra della cultura







Aminata Traorè,  ex ministra della cultura del Mali (1997-2000), è una delle voci più autorevoli dell’antiglobalizzazione .

Ultimamente ha condotto una grande campagna a livello internazionale   lanciando diversi appelli contro la guerra nel suo paese e contro il predominio degli organismi finanziari che dettano l’agenda politica ai governi eletti democraticamente.
  
Rivendica l’autodeterminazione dei popoli africani da costruire attraverso  l’unità e il dialogo.




La battaglia che Aminata Traoré sta conducendo porta alla ribalta l’importanza del ruolo che le  donne hanno nella costruzione della pace.


"Il Pieno accesso e la piena partecipazione delle donne nelle strutture di potere e il loro pieno coinvolgimento in tutti gli sforzi per la prevenzione e risoluzione dei conflitti sono essenziali per il mantenimento e la promozione della pace e della sicurezza”((Women's Empowerment).


Con queste parole il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite  (Risoluzione 1325 del 2000 a cui ne sono seguite altre cinque) ha  esortato tutti gli Stati membri a garantire la partecipazione delle donne a tutti i livelli delle istituzioni decisionali, nazionali e internazionali, per la prevenzione e risoluzione dei conflitti.

L'assenza delle donne ai tavoli per la pace ha infatti comportato la mancanza di attenzione a questioni chiave per la soluzione dei conflitti e per una pace duratura, quali i diritti umani sociali ed economici spesso esclusi dai negoziati. Ciò implica passare una cultura di guerra a una cultura pace.

Del resto il nesso tra pace e diritti umani è stato considerato fondamentale dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che nel suo preambolo ammonisce: “è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione”.

Nell’aprile del 2012 Aminata Traoré è stata definita persona non grata in Europa su richiesta della Francia...

In questo appello Aminata Traoré mette in evidenza le radici della guerra in Mali decisa dalla Francia nel gennaio scorso e gli stretti legami con l'impoverimento dell'Africa. Qui ne riportiamo alcuni brani. 
Si può leggere il testo completo nella traduzione italiana e nell' originale francese.


 Il collasso del capitalismo maliano


“La militarizzazione come risposta al fallimento del modello neo-liberista nel mio Paese è la scelta che qui contesto”
“Il Mali non soffre di una crisi umanitaria e di sicurezza nel nord del Paese a causa di una ribellione e dell'Islam radicale e di una crisi politica e istituzionale al sud a causa del colpo di Stato del 22 Marzo 2012. Questo approccio riduttivo e' il primo vero ostacolo alla pace e alla ricostruzione nazionale. Noi abbiamo assistito soprattutto al fallimento di un capitalismo maliano pretenziosamente vincente, ma ad altissimo costo sociale ed umano”. 
“Aggiustamento strutturale, disoccupazione, povertà e povertà estrema, sono il nostro premio a partire dagli anni '80. La Francia e gli altri Paesi europei hanno soltanto una trentina d'anni di ritardo sul Mali ed i suoi compagni di sventura africani, sottomessi da decenni alla medicina da cavallo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale”.

Secondo l'UNCTAD (Rapporto 2001) l'Africa e' il continente dove la messa in opera dei Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS) durante i decenni '80 e '90 e' stata più massiccia, più spinta e più distruttiva e durante i quali le istituzioni internazionali non si sono preoccupate di correggere gli squilibri macro-economici e le distorsioni dei mercati”.

Le poste in ballo dell'intervento militare in corso in Mali sono: economiche (l'uranio, quindi il nucleare e l'indipendenza energetica), di sicurezza (la minaccia di attentati terroristici contro gli interessi delle multinazionali, in particolare della francese AREVA, la presa di ostaggi, la grande criminalità, ovvero il narcotraffico e la vendita di armi), geopolitiche (la concorrenza cinese) e migratorie. Quale pace, quale riconciliazione e quale ricostruzione possiamo sperare di avere quando le poste sono così accuratamente nascoste al popolo?”.

Aiuto allo sviluppo o militarizzazione?

“La miseria è il vero fermento delle ribellioni”.
“Il radicalismo religioso prospera laddove lo Stato, aggiustato e privatizzato, è gioco forza carente o semplicemente assente”.
 “La miseria morale e materiale di giovani diplomati, di contadini, di allevatori e di altri gruppi vulnerabili costituisce il vero fermento di rivolte e ribellioni che, mal interpretate, alimentano i sollevamenti. La lotta, senza effusione di sangue, contro il terrorismo ed il crimine organizzato in Mali e in Africa occidentale deve passare per un'analisi onesta ed un rigoroso bilancio degli ultimi tre decenni di liberalismo selvaggio, di distruzione del tessuto economico e sociale, così come degli ecosistemi. Niente impedirà che centinaia di migliaia di giovani dal Mali, Niger, Ciad, Senegal, Mauritania e da altrove che ogni anno ingrossano il numero dei disoccupanti e dei richiedenti di visto finiscano per entrare nei ranghi dei terroristi se gli Stati ed i loro partner tecnici e finanziari non sono capaci di mettere in dubbio il modello neoliberista”.
“Non credo che la "guerra al terrorismo" abbia portato la pace in Iraq, Afghanistan e Libia o che i Caschi Blu abbiano saputo proteggere le popolazioni della Repubblica Democratica del Congo e di Haiti come ci si sarebbe aspettato da loro”.

Osiamo un’altra economia

 “Noi rivendichiamo il nostro diritto a:
-un’'altra economia, in maniera tale di poter disporre delle ricchezze del nostro Paese e di scegliere liberamente le politiche per mettere fine alla disoccupazione, la povertà, le migrazioni e la guerra;
-un sistema politico veramente democratico, perché intelligibile dall'interezza dei Maliani, declinato e dibattuto nelle lingue nazionali, fondato su valori di cultura e di società largamente condivisi;
- libertà di espressione e di movimento.

L’indispensabile convergenza delle lotte

“Chiediamo uno slancio di solidarietà per prendere in contropiede la militarizzazione, restituirci la dignità e preservare la vita e gli ecosistemi”.
“Questo approccio altermondista ci restituisce la nostra "dignità'" in un contesto in cui abbiamo la tendenza a colpevolizzarci e di rimetterci, mani e piedi legati, alla mercé di una "comunità internazionale" parte e giudice della questione”.
“Chiediamo la convergenza di tutte le lotte all'interno delle frontiere e fra tutte quelle componenti della società martoriate dalla barbarie del sistema capitalista che non vogliono, non si rassegnano e non si sottomettono. Devono esplorare insieme le alternative alla guerra”.
“Gli Stati liberisti hanno privilegiato la guerra e investito nelle armi di distruzione di vite umane, dei legami sociali e degli ecosistemi. Innoviamo attraverso la battaglia delle idee e convochiamo una conferenza della cittadinanza per un altro sviluppo del Mali per allentare il cappio della globalizzazione capitalista. Si tratta di aprire un dibattito sulla relazione fra le politiche neoliberiste e ciascun aspetto della crisi: disoccupazione endemica dei giovani, ribellioni, ammutinamenti, colpi di Stato, violenza contro le donne, radicalismo religioso”.

Ridateci le chiavi del nostro paese

“Solo noi possiamo prendercene cura perché, come ha ricordato Bouna Boukary Dioura, noi sappiamo, noi i popoli del Sahel, che le pietre finiscono per fiorire a forza di amore e perseveranza”.

mg


MALI. Le verità della guerra


Sono trascorsi più di dieci mesi dall'inizio di questa guerra "umanitaria" e a causa di un inquietante blackout dell'informazione poco si sa su che cosa sta succedendo sul campo di battaglia, salvo che ha già prodotto morte, centinaia di migliaia i profughi e aggravato le condizioni di vita miserabili del popolo maliano nonché  dei paesi vicini costretti ad accogliere i rifugiati, in particolare la Mauritania.






La barbara uccisione di due giornalisti francesi, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, avvenuta il 2 Novembre scorso nel Nord del paese, ha riportato per un momento l’interesse dei media su questa guerra in cui la verità pare destinata a restare nascosta e il diritto all'informazione sconfitto.

AFRICANISTAN

Iniziata unilateralmente dalla Francia l’11 gennaio scorso con l’operazione Serval la guerra aveva ufficialmente l’obiettivo “umanitario” di rispondere alla richiesta di intervento da parte del Governo del Mali (governo peraltro provvisorio a seguito del colpo di stato militare del marzo 2012) per far fronte alla possibile avanzata di gruppi islamici operanti nel nord del paese che avevano preso il controllo dell’Azawad, regione dichiarata indipendente nell’aprile del 2012  dal movimento indipendentista MNLA (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad) dei Tuareg. Un gruppo etnico di origine berbera che costituisce il 6% della popolazione del Mali e che da anni si batte per ottenere condizioni di vita più degne e contro l’impatto devastante per l’ambiente causato dall’estrazione di Uranio nella regione. 
Di fatto l’Azawad in cui operano tali gruppi è una regione strategica ed estremamente importante per la Francia in quanto situata a nord del paese in prossimità di Arlit, città del Niger in cui opera la società francese AREVA per l’estrazione dell’Uranio, minerale da cui dipende la produzione dell’energia nucleare così come il programma di armamenti nucleari francesi.
Peraltro così giustificava la necessità dell'intervento militare l’economista e banchiere francese Jacques Attali in un articolo del maggio del 2012: “Non possiamo essere indifferenti davanti alla catastrofe umanitaria che si annuncia... perché questa regione può diventare un avamposto per la formazione di terroristi e kamikaze che presto cominceranno ad aggredire gli interessi occidentali, sia nella regione, sia, servendosi di numerosi canali di accesso, in Europa. Per ora sono poche centinaia: ma se non si interviene, saranno presto diverse migliaia, convenuti dal Pakistan, dall'Indonesia e dall'America Latina. E i giacimenti di uranio del Niger, essenziali alla Francia, sono lì a due passi». 

Un intervento quindi quello della Francia che sembra ricalcare le orme dell’azione internazionale che l'aveva vista in prima fila in Libia nel 2011 a difendere i suoi interessi neo-coloniali con la cosiddetta “Françafrique”. Del resto la guerra in Libia, o almeno il suo epilogo, costituisce l’antefatto di questa guerra per il peso e gli stretti legami che il governo libico (Gheddafi) aveva con i paesi subsahariani e con gli stessi gruppi ribelli e per le conseguenze che la destabilizzazione del paese, una volta concluso il conflitto, ha prodotto sul Mali, da considerarsi "vittima collaterale del conflitto libico" (così Aminata Traoré). Di fatto poi gli arsenali del conflitto libico divenuti privi di controllo hanno finito per armare i gruppi contro cui questa guerra viene condotta.

Presentata inizialmente come “guerra lampo”, per l’importanza degli equilibri geopolitici e degli interessi commerciali che sono in gioco (l’intera regione che abbraccia il nord del Mali, Mauritania e Niger è stata definita un nuovo eldorado) non solo sembra destinata a durate ancora a lungo ma minaccia di ampliare il suo raggio di azione ben al di là dei confini del Mali, tanto che si parla di Africanistan.

Ciò sembra trovare conferma nell’adozione da parte dell’ONU nello scorso luglio di una tra le più importanti missioni di “peacekeeping” (MINUSMA) con la messa in campo di circa 12.000 uomini.
 La Francia, da parte sua, dopo aver comunicato per ben due volte il ritiro delle proprie truppe ha infine deciso di lasciare sul campo un contingente “su base permanente” come ha dichiarato il 5 aprile scorso Laurent Fabius, Ministro degli Esteri.


LE RADICI DEL CONFLITTO E IL LEGAME
CON LE CAUSE DI IMPOVERIMENTO DELL'AFRICA

Una popolazione di poveri nel "nuovo eldorado" saccheggiato da potenze straniere"

La compagnia petrolifera francese Total, ha definito la regione compresa tra Mauritania, Niger e Mali come un nuovo “Eldorado” per  la grande ricchezza del suo sottosuolo. La regione è  un importante snodo di passaggio di gas e petrolio; il Niger è quarto produttore mondiale di Uranio e la presenza di oro porta il Mali ad essere il terzo produttore africano e undicesimo mondiale. Una parte di Africa quindi dove si giocano grandi interessi occidentali e che, negli ultimi anni, è diventata anche di grande interesse economico di altre potenze, in particolare della Cina.
Ben poco di tali ricchezze arrivano però alla popolazione. Il Mali è alla 182° posizione su 186 paesi nell’ Indice dello Sviluppo Umano UNPD del 2013.

Le statistiche più recenti indicano che le donne mettono al mondo 6,5 figli, di cui uno su sei muore  prima di arrivare all’età di 6 anni; la morte per parto colpisce una donna su 200; 9 case su 10 non hanno elettricità, 19 su 20 non hanno la rete fognaria; tre quarti dei bambini che hanno più di  7 anni non frequentano la scuola.  Nell’ultimo decennio c’è stato un incremento continuo della disuguaglianza sociale, di quella regionale (le famiglie  di Gao, Timbuktu e Kidal della regione di Azawad) hanno la metà del reddito di quelle di Bamako) e della  crescita del numero di poveri.

"La miseria morale e materiale di giovani diplomati, di contadini, di allevatori e di altri gruppi vulnerabili costituisce il vero fermento di rivolte e ribellioni" (così Aminata Traoré)

  
Cittadini del grande Impero africano del Mali (dal XIII al XVII secolo) i maliani sono stati vittime del traffico di schiavi che ha alimentato le economie degli Europei nelle Americhe e per circa un secolo (1864-1960) sono stati sudditi dell'impero coloniale francese.

Paul Vigné d'Octon, medico della Marina che accompagnò nel 1898 una colonna di fanteria incaricata di consolidare il controllo francese sulla regione ha lasciato questo resoconto della presa di Sikasso (a sud est della capitale Bamako): “Tutti vengono catturati o uccisi. Tutti i prigionieri, circa 4.000 sono ammassati come in un gregge. […] Ogni europeo riceveva una donna che sceglieva […]. Sulla strada del ritorno, abbiamo fatto tappe di 40. km con i prigionieri. I bambini e tutti coloro che si stancano vengono uccisi con i calci dei fucili e con le baionette”.


Le conseguenze disastrose dei piani di aggiustamento strutturale

I programmi di aggiustamento strutturale (SAP) sono quei cambiamenti delle politiche economiche nazionali che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale impongono ai  paesi in via di sviluppo come condizione per ricevere finanziamenti o per ottenere tassi d'interesse inferiori sui finanziamenti in essere.
Una politica comunemente richiesta negli aggiustamenti strutturali riguarda la privatizzazione delle industrie e delle risorse di proprietà statale. Apparentemente, questa politica mira a incrementare l'efficienza e gli investimenti, nonché a diminuire la spesa pubblica. 
Si tratta di politiche che comportano, in nome della libertà di mercato e al fine di stimolare l'iniziativa e l'imprenditorialità, una drastica riduzione delle spese sociali e lo smantellamento delle industrie statali. Quasi ovunque vengono abbandonati gli esperimenti di collettivismo o di ''deconnessione'' dal mercato e si arriva quindi a uno sviluppo che finisce per rafforzare i vincoli con il Nord.

I critici (autorevoli come Joseph Stiglitzeconomista statunitense già Senior Vice President e Chief Economist della Banca Mondiale) hanno condannato le richieste di privatizzazione. Quando le risorse vengono trasferite a società straniere e/o a élite nazionali, l'obiettivo della pubblica prosperità è infatti rimpiazzato con l'obiettivo dell'accumulazione privata. Inoltre, le imprese di proprietà statale possono anche avere bilanci in perdita perché assolvono un ruolo sociale più ampio, come la fornitura di servizi pubblici capaci di garantire lo sviluppo socio economico delle fasce più deboli della popolazione e, quindi, in prospettiva, la crescita economica dell’intero paese. 

Di fatto i piani di aggiustamento strutturale hanno avuto conseguenze disastrose per il Mali, traducendosi nella privatizzazione massiccia delle aziende del paese a beneficio delle imprese multinazionali, in prima linea quelle francesi, e nel graduale impoverimento del paese. Ciò  ha fatto aumentare in modo esponenziale il peso del debito estero che gli aiuti finanziari dovevano invece ridurre.

Il debito estero che nel 1968 era di 55 miliardi Fcfa (vecchi franchi) nel 2005 era già salito a 1.766 miliardi.
mg