dicembre 26, 2019

PALESTINA. Quattro domande sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania



La La costruzione di un insediamento israeliano a Beitar Illit, in Cisgiordania, il 7 aprile 2019

La politica statunitense è decisiva per le sorti della Palestina, del progetto di due Stati e in conclusione per la pace.
L’amministrazione Obama aveva contribuito a creare un clima di relativa convivenza sostenendo le ragioni del diritto internazionale. Ricordiamo infatti che in occasione della Risoluzione n. 2334 del 23 Dicembre 2016 con cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riaffermò lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e dichiarò illegali le colonie israeliane qui insediate, l’amministrazione Obama allora in carica per la prima volta non esercitò il proprio diritto di veto! Dal 20 gennaio 2017, giorno dell’inaugurazione della presidenza statunitense di Donald Trump, il governo israeliano, grazie al decisivo appoggio di quest’ultimo, ha invece incrementato in modo decisivo la politica degli insediamenti in territorio palestinese aumentando in tal modo le tensioni con lo Stato di Palestina.

Va infatti sottolineato che le colonie israeliane sono l’elemento centrale della strategia israeliana in Cisgiordania – e, proprio per questo, sono uno dei principali ostacoli a una soluzione condivisa del conflitto israelo-palestinese – poiché estendono la presenza israeliana nei territori palestinesi ben oltre quella, greve ma in qualche modo temporanea e removibile, dell’esercito.

Il 18 novembre scorso il segretario di stato statunitense Mike Pompeo ha dichiarato che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania non violano il diritto internazionale!

Di contrario avviso è invece la Procuratrice capo della Corte Penale Internazionale che la settimana scorsa ha aperto un'inchiesta per crimini di guerra e si è detta “convinta che vi sia una base ragionevole per avviare un’indagine sulla situazione in Palestina”.

Dov Waxman, professore di studi israeliani e autore di un nuovo manuale sul conflitto palestinese, traccia la storia degli insediamenti e spiega perché sono così controversi. Riportiamo il suo articolo pubblicato su The Conversation, (Regno Unito), nella traduzione di Andrea Sparacino pubblicata da Internazionale.

“Quattro domande sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania

1- Perché il possesso dei territori in Cisgiordania è così contestato?
Nel maggio 1967 in Cisgiordania, una regione collinare poco più grande della Liguria, non ci viveva un singolo israeliano. All'epoca la Cisgiordania era abitata da circa un milione di palestinesi, sottoposti da due secoli al controllo (sgradito) della Giordania.
Israele ha conquistato la Cisgiordania durante la guerra dei sei giorni del giugno 1967. Da quel momento i civili israeliani hanno cominciato a trasferirsi nella regione, inizialmente in aree (per esempio Kfar Etzion) popolate da comunità ebraiche prima della fondazione dello stato ebraico nel 1948.
Nel 1968 un rabbino di nome Moshe Levinger, insieme a un piccolo gruppo di seguaci che sostenevano una versione messianica del sionismo religioso, si trasferì nell’antica città di Hebron, nel cuore della Cisgiordania. Hebron è una città sacra per gli ebrei, ritenuta luogo di sepoltura dei patriarchi e delle matriarche come Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Rebecca e Lea.
Nel corso degli anni la popolazione ebraica in Cisgiordania è cresciuta in maniera esponenziale. Oggi circa 430mila ebrei vivono in 132 insediamenti riconosciuti ufficialmente (qui una mappa aggiornata realizzata dalla Bbc) e in 121 avamposti non ufficiali che hanno richiesto l’approvazione del governo di Israele, senza averla ancora ottenuta. I coloni, che rappresentano circa il 15 per cento della popolazione totale della Cisgiordania, vivono in comunità separate dai circa tre milioni di palestinesi che risiedono nella zona.

2- Perché i palestinesi si oppongono agli insediamenti israeliani?
Anche se ebrei e palestinesi sono vicini e spesso colleghi di lavoro, è raro che i rapporti siano amichevoli. I palestinesi della Cisgiordania, in maggioranza musulmani, si considerano gli abitanti indigeni della zona, anche perché i loro antenati hanno vissuto e coltivato la Cisgiordania per secoli.
I palestinesi ritengono che gli insediamenti in Cisgiordania siano costruiti su terreni rubati e che l’uso dell’acqua (una risorsa preziosa) da parte dei coloni sia altrettanto illegale.
Spesso i palestinesi subiscono le persecuzioni dei coloni più estremisti, senza che i soldati israeliani intervengano per evitare i crimini. I resoconti di aggressioni violente contro i palestinesi compiute da coloni armati, che spesso bruciano i campi e sradicano gli ulivi, si contano a centinaia.
Inoltre lo stato ebraico si è impossessato di alcune aree della Cisgiordania per costruire una rete stradale che collega gli insediamenti tra loro e con Israele. Queste strade sono generalmente vietate agli autisti palestinesi e di conseguenza ne limitano la libertà di movimento, rendendo gli spostamenti all'interno della Cisgiordania più difficili e lenti.
I checkpoint dell’esercito che costellano la Cisgiordania, concepiti per proteggere gli israeliani dagli attentati, limitano e complicano la mobilità dei palestinesi.

3- Perché gli israeliani vogliono vivere in Cisgiordania?
I motivi per cui gli israeliani vogliono vivere in Cisgiordania sono vari.
Lo stereotipo del colono ebreo come fanatico religioso, deciso a riconquistare l’antica patria che secondo l’ebraismo sarebbe stata affidata da Dio al popolo eletto, non è accurato. Secondo le stime appena un quarto dei coloni vive in Cisgiordania per motivi religiosi.
Gli estremisti religiosi rappresentano una minoranza molto rumorosa e visibile, e generalmente vivono in piccoli insediamenti nell'entroterra della Cisgiordania. Questi coloni considerano la loro presenza come uno strumento per garantire un controllo permanente degli ebrei sul territorio, che indicano con i nomi biblici di “Giudea” e “Samaria”. Vivendo in Cisgiordania, ritengono di rispettare il volere di Dio e favorire l’attesa venuta del Messia.
Tuttavia la maggior parte dei coloni ebrei della Cisgiordania vive in quei territori per ragioni economiche. Gli incentivi e gli investimenti del governo israeliano per spingere gli ebrei a trasferirsi in Cisgiordania rendono il costo della vita nettamente inferiore rispetto a quello che si registra all’interno di Israele.
Molti ebrei della Cisgiordania sono laici, soprattutto quelli che si sono trasferiti dai paesi dell’ex Unione Sovietica all'inizio degli anni novanta.
Altri, come gli ebrei ultra ortodossi (in aumento), sono effettivamente convinti che Dio abbia regalato la Cisgiordania a Israele, ma si sono trasferiti soprattutto perché attratti dagli alloggi economici e dalla migliore qualità della vita.

4- Gli insediamenti israeliani sono legali o illegali?
La maggior parte degli esperti e le Nazioni Unite ritengono che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania siano una violazione del diritto internazionale.
La convenzione di Ginevra del 1949, firmata da Israele, proibisce a uno stato occupante di trasferire civili nei territori occupati. Secondo la Corte internazionale di giustizia, principale istituzione giuridica delle Nazioni Unite, la Cisgiordania è da considerare un territorio occupato, in quanto non faceva parte di Israele prima che l’esercito la conquistasse nel 1967. Anche le acquisizioni territoriali sono proibite dal diritto internazionale.
Il governo israeliano sostiene che la convenzione di Ginevra non si applichi alla Cisgiordania, perché fa riferimento unicamente alla possibilità che uno stato occupi il territorio di un altro stato. Israele considera la Cisgiordania un “territorio conteso”, non occupato. Inoltre, secondo il governo israeliano, se anche la convenzione di Ginevra fosse applicata, vieterebbe solo i trasferimenti coatti di civili, come le deportazioni operate dalla Germania nazista, e non il movimento volontario delle persone verso i territori occupati.
La nuova posizione dell’amministrazione Trump secondo cui gli insediamenti israeliani non sono illegali rafforza le tesi di Israele sulla Cisgiordania. Ma è molto difficile che possa legittimare gli insediamenti israeliani agli occhi della comunità internazionale”.
mg

novembre 24, 2019

PALESTINA. Israele: dall'occupazione militare alla colonizzazione dei territori palestinesi.


In questo articolo da Huffpost il professor Francesco Chiodelli spiega perché la colonizzazione dei territori palestinesi  occupati militarmente da parte di Israele sia determinante e suscettibile di mettere fine al progetto di pace di "due Stati".


"Giorni fa Mike Pompeo, Segretario di Stato USA, ha dichiarato che gli Stati Uniti non considerano più le colonie israeliane in Cisgiordania illegittime, ossia contrarie al diritto internazionale. La stampa italiana ha dedicato ben poca attenzione a questa dichiarazione, considerandola probabilmente un fatto secondario. Non è così, purtroppo.

Le colonie israeliane sono l’elemento centrale della strategia israeliana in Cisgiordania – e, proprio per questo, sono uno dei principali ostacoli a una soluzione condivisa del conflitto israelo-palestinese – poiché estendono la presenza israeliana nei territori palestinesi ben oltre quella, greve ma in qualche modo temporanea e removibile, dell’esercito.
Le colonie rendono infatti permanente e, al contempo, ordinaria, l’occupazione. O meglio, aggiungono all’occupazione (militare) una vera e propria colonizzazione (civile), materializzandola in case, strade, scuole, negozi, parchi, ospedali, università. 

Come ho spiegato qui su HuffPost, oggi esistono circa 250 colonie in Cisgiordania, per lo più di carattere residenziale, che ospitano circa 400.000 israeliani (a cui si aggiungono circa 200.000 israeliani che vivono a Gerusalemme Est) – molti dei quali sono nazionalisti o religiosi iper-radicali, che scelgono di vivere nelle colonie per una questione ideologica, ossia per rivendicare la sovranità israeliana sui territori palestinesi.




L’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, così come la Corte di Giustizia Internazionale, hanno più volte sottolineato che la costruzione delle colonie – spesso direttamente promossa, avallata o legittimata dallo Stato di Israele – viola la Quarta Convenzione di Ginevra, che impedisce lo spostamento di popolazione civile nei territori occupati (atto giudicato “crimine di guerra” dalla Corte Penale Internazionale). Gli Stati Uniti sono stati per decenni allineati a tale interpretazione, fino, per l’appunto, all’altro giorno.
Questo cambiamento di linea non deve essere visto come un atto estemporaneo. Si colloca all’interno di una precisa strategia, cominciata con lo spostamento, l’anno scorso, dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Tale spostamento aveva rotto il primo dei due tabù internazionali rispetto al conflitto israelo-palestinese: il riconoscimento della sovranità israeliana su Gerusalemme “unificata”.

L’altro giorno si è rotto il secondo di questi tabù: la legittimazione del processo di colonizzazione israeliana della Cisgiordania. E la sensazione è che questa seconda decisione possa avere conseguenze ancor più profonde e devastanti della prima.
La prima decisione, infatti, per quanto politicamente grave, rappresenta in qualche modo il riconoscimento di un dato di fatto, di un risultato già ottenuto da parte dello Stato ebraico, ossia il controllo dell’intera Gerusalemme.
La seconda decisione, invece, rischia di essere un incentivo a perseguire un obiettivo a oggi non ancora raggiunto, e ancor più contestato e controverso del controllo israeliano su Gerusalemme: l’annessione israeliana di una parte rilevante dei territori palestinesi.
Non pare un caso che durante la recente campagna elettorale Benjamin Netanyahu abbia affermato che, in caso di riconferma nel ruolo di primo ministro, avrebbe annesso a Israele più del 20% della Cisgiordania, ossia la Valle del Giordano e le colonie israeliane. Questa affermazione era parsa inizialmente una boutade elettorale, la mossa sapiente di un politico esperto in un momento di difficoltà (anche per questioni giudiziarie).

Alla luce della dichiarazione di Mike Pompeo, quanto declamato da Netanyahu appare in tutta evidenza essere un vero e proprio progetto che potrebbe concretizzarsi a breve. Dopo essere passati dall’occupazione (militare) alla colonizzazione (civile), ora il cerchio è pronto per chiudersi con l’annessione – il tutto anche grazie all’avallo esplicito degli Stati Uniti e l’inazione del resto della comunità internazionale."
Fonte: Huffpost

ottobre 30, 2019

NIGERIA. Riprende in Olanda il processo Kiobel contro Shell per la tragica esecuzione dei "nove ogoni"


Shell, riprende in Olanda il processo per l’esecuzione di nove attivisti nigeriani
(Foto di Amnesty International)

E' ripreso in Olanda il processo Kiobel contro Shell sul ruolo avuto dalla compagnia petrolifera nell’esecuzione di nove attivisti nigeriani negli anni Novanta. Per la prima volta verranno ascoltate persone che accusano Shell di aver offerto loro denaro per fornire false testimonianze che portarono alla condanna a morte dei “nove ogoni”: tra loro il marito di Esther Kiobel.
“Da oltre 20 anni Shell riesce a evitare di essere chiamata in causa per il ruolo avuto in quei tragici eventi. Applaudiamo il coraggio e la tenacia di Esther Kiobel e delle altre donne che hanno promosso il processo, nonostante sia difficile per le vittime di violazioni dei diritti umani chiamare le potenti multinazionali a rispondere del loro operato”, ha dichiarato Mark Dummett, ricercatore su Aziende e diritti umani di Amnesty International.
Esther Kiobel e tre altre donne – Victoria Bera, Blessing Eawo e Charity Levula – accusano Shell di complicità nell’arresto illegale, nell’imprigionamento e nell’esecuzione dei loro mariti, impiccati nel 1995 insieme al noto attivista Ken Saro-Wiwa e ad altri quattro uomini al termine di un processo clamorosamente iniquo.
I “nove ogoni”, come sono conosciuti, erano stati accusati dell’omicidio di quattro capi tradizionali ogoni che si opponevano al Movimento per la sopravvivenza del popolo ogoni, diretto da Ken Saro-Wiwa e protagonista di una campagna contro l’inquinamento causato dalle attività petrolifere di Shell nella regione dell’Ogoniland.
“Le quattro vedove rappresentano la causa dei ‘nove ogoni’ e di innumerevoli abitanti della regione del Delta del Niger che accusano Shell di aver calpestato i loro diritti”, ha commentato Dummett.
Amnesty International ha aiutato gli avvocati di Esther Kiobel a portare il caso in Olanda nel 2017 e ha fornito informazioni dettagliate sul ruolo avuto da Shell nell’arresto e nell’esecuzione dei nove attivisti.
All’inizio del processo, nel febbraio 2019, Esther Kiobel e Victoria Bera hanno avuto per la prima volta l’opportunità di parlare e hanno fornito toccanti testimonianze sui loro mariti e sulla loro lotta per la giustizia.
Il 1° maggio il tribunale ha dato ragione alle ricorrenti riconoscendo la propria competenza sul caso, senza prescrizione temporale e ha ordinato a Shell di consegnare agli avvocati dell’accusa una serie di documenti interni riservati.
Il tribunale non ha tuttavia ingiunto a Shell di consegnare altra documentazione richiesta dagli avvocati di Esther Kiobel e ha anche respinto le denunce delle ricorrenti circa gli stretti rapporti tra Shell e la giunta militare all’epoca al potere in Nigeria e su quanto Shell avesse collaborato alla repressione contro la popolazione Ogoni negli anni Novanta, nel corso della quale molte persone – il numero è tuttora sconosciuto – vennero imprigionate, torturate, stuprate e uccise.
Shell contesta le accuse e la decisione sulla competenza del tribunale olandese, sostenendo anche che si tratta di fatti avvenuti tanto tempo fa.
L’appello da firmare per chiedere giustizia nel processo Kiobel contro Shell è online qui:
https://www.amnesty.it/appelli/dalla-parte-di-esther-kiobel-contro-il-gigante-shell/

Fonte: Amnesty  International

Sul poeta e attivista nigeriano Ken Saro-Wiwa, leggi in questo Blog:

"Accuso le compagnie petrolifere di praticare il genocidio degli Ogoni"

Sul disastro ambientale nel Delta del Niger causato dalle compagnie petrolifere, leggi in questo blog:

Quattro contadini nigeriani portano la Shell davanti ai giudici dell'Aja per disastro ambientale

agosto 31, 2019

AFRICA. In Africa la più grande discarica del mondo, il primo e ultimo anello della catena produttiva occidentale



Pavel Andreev Music: Royal on garbage (Foto di Karina Vorobyova)



In questo articolo il redattore ed editorialista di Pressenza, Luca Cellini, denuncia il sistema produttivo che fa dell’Africa la discarica del mondo occidentale.
. Vi proponiamo alcuni dei passaggi più significativi invitandovi alla lettura dell'articolo completo.


L’ULTIMO ANELLO DELLA CATENA
Se state leggendo questo articolo un giorno il computer o il telefonino che state utilizzando potrebbero andare a finire in questa enorme discarica di rifiuti elettronici, la più grande del mondo.
Siamo ad Agbogbloshie, ai sobborghi di Accra, capitale del Ghana.
Qui, decine di migliaia di persone sopravvivono guadagnandosi la giornata bruciando ogni tipo di spazzatura elettronica. Ragazzi, persino bambini si aggirano tra fumi tossici, immondizia e baracche improvvisate.
Fra quell'enorme distesa di rifiuti di provenienza occidentale ci si imbatte in cellulari, condizionatori, trattori, lettori mp3, macchine rottamate, monitor, schermi, ogni genere di oggetto dal quale si possano estrarre ferro, rame, alluminio e altri metalli di valore.
Il Ghana da solo importa oltre 40mila tonnellate di “e-waste” (spazzatura elettronica) e Agbogbloshie negli ultimi venti anni è diventato il più grande sito di riciclo informale del mondo, la discarica a cielo aperto dei prodotti elettrici di fabbricazione occidentale.
Questo ammasso di spazzatura attrae migranti dal Nord del Ghana e da paesi vicini che poi finiscono per vivere, dormire, coltivare e allevare bestiame attorno all'inesauribile fonte di attività.
Come racconta Mamadou Malick, un amico ghanese in Italia da diversi anni, “Li puoi vedere tutti i giorni, vagare per ore e ore su quella maleodorante poltiglia nera che infetta la terra, in condizioni igienico sanitarie terribili, respirano quei fumi, toccano a mani nude quei rifiuti che spesso sversano liquidi tossici, se arrivano a 40 anni senza morire prima è un vero miracolo”.
“Scrap dealers” sono chiamate così le migliaia di persone che lavorano nella discarica ma che preferiscono non chiamarla in questo modo. Per loro Agbogbloshie è un posto di lavoro dove poter guadagnare 2 forse 3 dollari al giorno.
Queste persone rappresentano l’ultimo anello della catena del libero mercato e del sistema di produzione industriale occidentale.

IL PRIMO ANELLO DELLA CATENA
Ma l’Africa è al tempo stesso anche il primo anello della catena di questo sistema produttivo dato che rappresenta uno dei più grandi giacimenti di risorse naturali del mondo. Nigeria, Angola, Algeria e Libia producono una buona parte di tutto il petrolio greggio del mondo. Il Congo, la Sierra Leone hanno le maggiori risorse di tutto il mondo d’oro e diamanti, cromo, coltan, bauxite, manganese, il mercato delle terre rare fondamentali per l’elettronica. In Namibia e in Mali c’è l’uranio. In tanti paesi africani si esporta buona parte di tutto il legname che l'Europa utilizza, stesso discorso per il cacao, il caffè, e molti altri prodotti dell’agricoltura. Con tutto ciò 18 dei 20 paesi più poveri del mondo sono africani. Un continente con un’area tre volte quella dell’Europa ma con il PIL della metà.
I Paesi industrializzati per oltre 300 anni in hanno praticato il colonialismo.
In questo preciso periodo storico in Africa ci sono tutte le potenze mondiali, sia con i rappresentanti ufficiali dei loro governi, sia con le loro multinazionali, spesso anche con le loro armi e i loro eserciti, ufficiali o per procura, poco cambia perché  è attraverso il controllo militare, oppure tramite la corruzione, il finanziamento e l’appoggio a dittatori sanguinari, oppure ancora attraverso bande paramilitari di mercenari che si diffondono la paura e le forme di controllo nei paesi africani, arrivando anche a imporre a molti paesi, il cambio con monete che debbono passare per forza dalle nostre banche in Europa, vedi franco CFA.  

Di fatto da tanto tempo, prima con il colonialismo, adesso con il controllo coatto dell’economia e delle risorse, s’impedisce lo sviluppo di questo enorme continente.
Come spiega l’attivista e poeta maliano Soumaila Diawara la soluzione per l’Africa e per gli africani non è “Aiutiamoli a casa loro, bensì: Lasciate casa nostra”espressione parafrasata poi dal calciatore Mario Balotelli che di recente ha giustamente dichiarato “lasciate l’Africa agli africani”

Presenza potenze occidentali europee in Africa durante il colonialismo


DA OLTRE TRENT’ANNI UN TRAFFICO CHE NON ACCENNA A DIMINUIRE
Lo scandalo scoppiò all'improvviso. Nel giugno del 1988 un gruppo di studenti nigeriani residenti in Italia avvertì la stampa africana riguardo l’esistenza di una grande quantità di rifiuti tossici inviati in Nigeria e poi abbandonati non lontano dalla spiaggia. In una zona abitata furono lasciati migliaia di fusti che sversavano senza nessuna sicurezza. Erano 18.000 per l’esattezza, i fusti zeppi di sostanze tossiche raccolti da un paio di note ditte di “smaltimento” italiane.
Negli stessi anni in cui lo slum di Agbogbloshie cominciava ad affollarsi, la comunità internazionale metteva a punto la Convenzione di Basilea per regolamentare il trasporto di rifiuti pericolosi tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo. La Convenzione arrivò nel 1989, (l’anno successivo alla scoperta della discarica di rifiuti tossici provenienti dall'Italia a Koko in Nigeria grazie ad un rapporto che fece l’associazione “Amici della Terra”), e venne ratificata da 185 Paesi con l’eccezione degli Stati Uniti.


Oltre 30 anni eppure il traffico non ha mai accennato a diminuire, anzi, si è intensificato, ha preso altre forme, si sono fatti tutti più accorti.
Così, da quando è sorta, l’immensa distesa di Agbogbloshie nel tempo è diventata una delle principali destinazioni dei 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici che si stima siano stati prodotti a livello mondiale nel 2018.  Una quantità di ferraglia che equivalente a 5mila Tour Eiffel. Solo il 20% di questa produzione finisce per essere riciclata, sebbene 2/3 della popolazione mondiale viva in Paesi con una legislazione che prende in considerazione il problema.
Quaranta milioni di tonnellate di “e-waste” finiscono invece nelle discariche o peggio ancora vengono bruciati, o trasportati in paesi dove le leggi sull'importazione e i controlli sulla riutilizzabilità di materiali di seconda mano, non ci sono affatto, o comunque sono del tutto inefficaci, come si può vedere dai continui casi di devastazioni ambientali.
Gli apparecchi elettronici pur essendo per necessità diventati fonte di sostentamento per tanta povera gente, tuttavia, contengono materiali altamente tossici. In molti casi anche per la legislazione occidentale rappresentano un problema per la classificazione stessa dei rifiuti. Ciò a causa di come vengono prodotti: il ciclo produttivo occidentale non è circolare, non si basa su un’idea virtuosa e intelligente dove la produzione a monte tenga conto nei suoi sistemi produttivi di criteri come ad esempio il poter riciclare facilmente le materie e i componenti utilizzati. La produzione industriale occidentale non tiene conto di nessun criterio di riciclo e di riuso, si basa solo sui vecchi concetti tanto cari all'economia del libero mercato usa e getta: produci al costo minore possibile, ottieni il maggior guadagno possibile, consuma tutto quel che puoi consumare, non preoccuparti di chi lavora, e non pensare nemmeno alle possibili conseguenze in un domani.   Poco o niente importano criteri come la durata di un prodotto, lo sfruttamento di persone che possa esserci dietro, il riutilizzo o meno che se ne possa fare alla fine del ciclo, la facilità per riciclare quel che si produce, il danno che possa arrecare un determinato prodotto una volta gettato a fine utilizzo.

Port of Koko, Nigeria

LA POLITICA DEGLI “ZERO CONTROLLI”

La legislazione italiana in materia di rifiuti è molto lacunosa, la legislazione europea non è tanto migliore. Di un qualsiasi tipo di rifiuto non si riesce a capire ad esempio come tracciarne la vita residua. Appena uscito dalle frontiere, nell’esatto momento in cui lo prende in carico una nave battente la bandiera di un altro paese, di fatto sparisce. Non possiamo sapere se finirà in mare, oppure in una immensa discarica a cielo aperto in Africa, oppure se verrà lasciato a sversare veleni sulla riva del delta di un fiume. Anche guardando soltanto a ciò, l'occidente ha un enorme debito nei confronti dell’Africa e della popolazione africana, a cui ha tolto risorse, ne ha inquinato i territori e infine ha pure tolto la forza lavoro di milioni di persone costrette a fuggire perché l’ambiente in cui vive è stato talmente avvelenato e impoverito da non offrire più forme di sostentamento.
E’ solo dal 2002 che la Convenzione di Basilea ha iniziato ad occuparsi di rifiuti elettronici (in Italia adesso si designano con la sigla Raee) il cui peso negli anni è incrementato esponenzialmente, ma una regolamentazione precisa non mai stata del tutto definita. Computer, frigoriferi, telefonini, stampanti, climatizzatori, schermi televisivi, continuano così a girare per il mondo, eludendo in un modo o nell'altro le regolamentazioni dei diversi Paesi.
Mappa della distribuzione della produzione dei Rifiuti Elettronici nel mondo

Istogramma Raee Elettronici, produzione milioni di tonnellate per anno

I dati sui flussi verso questi Stati, quasi sempre africani o asiatici, sono discordanti e di difficile interpretazione. Finora si stima che la provenienza dell’85% di questi rifiuti provenga dall'occidente.
Sul fronte del traffico portuale europeo, a parte i grandi proclami, siamo ancora di fronte alle politiche “Zero controlli”, mentre basterebbe seguire la destinazione di uno dei tanti container di rifiuti per capire dove finisca. E’ quello che di recente ha fatto l’associazione ambientalista Basel Action Network (BAN), che pochi mesi fa, ha nascosto 314 dispositivi GPS su materiali elettronici di scarto in Europa, qui l’intero report mappando così diversi casi in cui i rifiuti sono stati esportati da Regno Unito, Spagna, Italia, Irlanda, in paesi dell’Africa ed dell’Asia dove non c’è nessun controllo e dove da tale traffico guadagnano funzionari corrotti, e organizzazioni criminali locali ed estere.
E’ interessante in particolar modo tracciare, anche se parzialmente, la filiera dei rifiuti elettronici come ad esempio ha riportato in una ricerca l’Università di Napoli Federico II: Il traffico transfrontaliero e lo smaltimento di rifiuti pericolosi alivello internazionale e comunitario”.   Consultandola si può comprendere come molti dei RAEE che partono dai porti europei e che arrivano in Africa, o nei paesi asiatici non provengono dai punti di raccolta ufficiali o dalle discariche comunali, ma molto più spesso da punti di raccolta informali o dalle strade, a volte addirittura vengono raccolti direttamente su internet. Il materiale illegale poi viene solitamente stipato dentro veicoli, ad esempio automobili usate, ed esportato tramite il veicolo stesso per essere portato in Africa. Ciò, ovviamente con l’appoggio di reti criminali e  mafie locai le quali spesso si appoggiano su migranti africani che vivono in Europa e avviano piccoli business familiari su questi traffici.
Carabinieri forestali durante il sequestro di un container di Raee

GLI ESCAMOTAGE LEGISLATVI CHE RENDONO LEGALE LO SMALTIMENTO DI RIFIUTI IN AFRICA
Il ciclo produttivo va avanti grazie a una serie di escamotage legislativi che rendono più o meno “legale” lo smaltimento di scarti e rifiuti. Se l'occidente dovesse smaltirli da solo sarebbe sommerso, letteralmente affogato dai suoi stessi rifiuti: altro che terra dei fuochi, le terre italiane sarebbero già diventate tutte invivibili e l'Italia sarebbe già arrivata al collasso ambientale.
Così l’Occidente e l’Europa vanno avanti con leggi sulla gestione dei rifiuti che di fatto sono un escamotage affinché siano altri a dover pagare il prezzo del loro stile di vita e della loro condotta scriteriata.
Il fine vita degli oggetti elettronici di uso quotidiano è un problema di scala globale, reso sempre più urgente dalla crescente obsolescenza degli oggetti che quotidianamente utilizziamo e dalle difficoltà, anche dei paesi più sviluppati, di provvedere a un loro riciclo efficiente.
Uno dei problemi a monte è l’aspettativa di vita di questi prodotti che non è mai elevata, anzi è sempre più breve poiché all’interno del loro ciclo produttivo per aumentarne il consumo da anni ormai è stato introdotto il sistema dell“obsolescenza programmata”, ovvero far durare un qualsiasi oggetto il minimo indispensabile nel rispetto dei termini per la garanzia.
L’Unione Europea peraltro prova a confondere le acque e ad allargare le maglie della definizione di esportazione per “riparazione”, con l’obiettivo di escludere questa fattispecie dalla definizione di e-waste.
Il continente africano dal canto suo in questi ultimi anni ha deciso di opporsi a questa politica e si è espresso unitariamente in un’importante dichiarazione alla Conferenza di Bamako e nella produzione d’una serie di documenti redatti durante tale conferenza, dove ci si esprime contro l’importazione di rifiuti elettronici, affermando il principio che, “qualsiasi cosa non funzionante va classificata come e-waste”.
Il ciclo dei rifiuti

LA STORIA DELLE COSE
Per capire meglio quale sia la logica devastante del ciclo produttivo occidentale esiste un video che gira già da diversi anni. Il video racconta la storia di come vengono prodotte le varie cose che utilizziamo, è narrata in forma di fumetto. Sarebbe utile e bello che gli insegnanti potessero farlo vedere in tutte le scuole, così come anche noi, insieme ai nostri figli, in modo da renderci conto con più coscienza di come funzioni il ciclo produttivo delle cose,  dei danni che esso produce alle persone e all'ambiente, in particolare proprio in quelle zone da cui adesso provengono migliaia di migranti in fuga e in cerca di sopravvivenza.
Un sistema produttivo, quello occidentale, che si ostina a non voler considerare che la filiera di tutto quel che produce non si conclude nell'atto della vendita, bensì con la gestione corretta degli scarti e dei rifiuti di fine ciclo che ne derivano.


PICCOLI PROGETTI IN CORSO
Qualcosa si muove nell'ottica di trasferire alle persone che sopravvivono alle attività legate alla discarica almeno le conoscenze minime per poter gestire meglio il riciclo.

“Riusciamo a fare arrivare qua nel nostro centro il 30% dei ricavi che entrano ad Agbogbloshie. Dove siamo riusciti ad arrivare, insegniamo a estrarre i metalli in maniera rispettosa dell’ambiente e della salute delle persone che vivono ad Accra,  spiega Bennett Samuel Akuffo, uno degli operatori dell’
Agbogbloshie Technical Training Centre.
Gli Scrap dealers possono consegnare anche il materiale al nostro centro, – continua Bennet Akuffo – dove viene processato in modo ecosostenibile, e dove vengono pagati per il valore dei metalli contenuti nel materiale portato.” Un piccolo progetto interessante quest’ultimo che è stato finanziato dalla Germania, ma è davvero troppo poco per porre un freno alla catastrofe ecologica in atto nell’area.
Agbogbloshie: Technical Training Centre – (Credit: Muntaka Chasant)



mg

Per approfondire il tema del Modo di Produzione Occidentale - M.P.O.- vedi l'articolo di Adriano Torricelli