maggio 15, 2021

PALESTINA. Il rapporto di Human Right Watch sull'apartheid praticato da Israele nei confronti del popolo palestinese

Questo articolo è stato pubblicato il 3 maggio scorso dalla rivista AFFARI INTERNAZIONALI. Ne sono autori Andrea Dessì e Flavia Fusco.

Andrea Dessì è direttore del programma di ricerca “Politica estera dell’Italia” e responsabile di ricerca nell’area Mediterraneo e Medio oriente dello IAI. È direttore editoriale degli IAI Commentaries..

Flavia Fusco è ricercatrice junior nel programma Mediterraneo e Medio oriente dello IAI e laureanda in Relazioni e istituzioni dell’Asia e dell’Africa all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. 

Articolo originale https://www.affarinternazionali.it/2021/05/apartheid-israele-palestinesi/

 



Crimes of apartheid and persecution”. Così l’ong Human Rights Watch (Hrw) definisce nel suo ultimo rapporto le politiche discriminatorie praticate dalle autorità israeliane nel territorio che si estende dal Mediterraneo al fiume Giordano. Un territorio in cui il trattamento riservato alla popolazione cambia a seconda dell’etnia e religione e dove da tempo si è consolidata un’unica realtà: quella che dal 27 aprile scorso anche Hrw chiama inequivocabilmente “apartheid”.

Definito “crimine contro l’umanità” dalla Convenzione Onu del 1973 e dallo Statuto di Roma nel 1998 nel tentativo di metabolizzare l’esperienza storica della segregazione in Sudafrica, l’apartheid è oggi una realtà quotidiana per i palestinesi.

Che i palestinesi, indipendentemente dal fatto che si trovino in territorio israeliano, Gerusalemme Est, Cisgiordania o Gaza, siano schiacciati in maniera più o meno pesante dall’oppressione israeliana non è affatto una novità. La notizia è che questa condizione di subordinazione venga ora chiamata con il proprio nome anche da attori cardine del sistema liberale che a lungo hanno preferito smorzare i toni di fronte alla sistematica violazione dei diritti umani in Palestina.

Il rapporto di Hrw

Il rapporto di Human Rights Watch si aggiunge al lavoro di advocacy di tante realtà che da anni spingono affinché le politiche di Israele siano riconosciute in quanto espressamente finalizzate ad ostacolare il diritto all’autodeterminazione palestinese. Lo studio mostra come alla base del controllo demografico, politico e territoriale praticato da Israele vi siano i tre elementi cardine del crimine di apartheid: intento di dominio, istituzionalizzazione delle pratiche di discriminazione e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali.

C’è di più. Hrw afferma che non è più possibile differenziare tra le politiche discriminatorie messe in atto nei territori occupati (inclusa Gerusalemme Est) e il trattamento riservato alla minoranza arabo-palestinese dentro Israele. A venire meno è quindi quella narrazione che tenta di discernere ciò che accade in Israele – promossa come democrazia liberale – dalla realtà dei territori occupati, con il rapporto che mette a nudo la profonda disuguaglianza di due comunità solo demograficamente equivalenti – 6,8 milioni di ebrei israeliani e 6,8 milioni di arabi palestinesi -.

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Riconoscimento discorsivo, valenza reale


Anche l’organizzazione israeliana B’tselem aveva recentemente pubblicato uno studio che giunge alle stesse conclusioni di Hrw: tra il Mediterraneo e il fiume Giordano esiste un unico regime di supremazia ebraica. Andando indietro negli anni, a marzo 2017, è stata l’agenzia Onu Escwa a definire decenni di politiche discriminatorie, arresti arbitrari, repressione, espulsioni, restrizioni e costruzione degli insediamenti come un “regime di apartheid imposto sul popolo palestinese nella sua interezza”.


Anche personaggi politici come Jimmy Carter, 39° presidente Usa, e Ehud Barak, ex premier israeliano, guardavano con preoccupazione quanto accadeva in Palestina. Quando undici anni fa era alla guida del ministero della difesa, Barak ammonì che in assenza di un accordo con i palestinesi l’apartheid si sarebbe fatto largo in Israele, aspetto ribadito nel 2017. In precedenza, nel 2006, l’ex presidente Carter suscitò scalpore con il suo “Palestine: Peace Not Apartheid”.

Inserendosi in questo processo di riconoscimento discorsivo dall’importanza tutt’altro che simbolica, il report di Hrw è stato pubblicato in una data importante, il 27 aprile, ovvero il Freedom Day sudafricano, anniversario della liberazione. Molti attivisti – tra cui alcuni direttamente coinvolti nella lotta di liberazione sudafricana – hanno da tempo riconosciuto nelle politiche di Israele il crimine di apartheid.

Tra dominio e annessione

I palestinesi però sono ancora lontani dalla loro liberazione, schiacciati dall’estrema destra in Israele e non certo facilitati dall’Autorità nazionale palestinese che appare più interessata a proteggere status e privilegi che promuovere la causa palestinese, come dimostra la decisione di rimandare (ancora una volta) le elezioni.

Tuttavia, è sbagliato parlare di status quo poiché l’occupazione avanza. Dal 2009, sono 7.585 le strutture palestinesi demolite da Israele, la maggior parte in località palestinesi (Area C) che Israele vorrebbe annettere unilateralmente. Tra queste, 1.355 erano state realizzate mediante finanziamenti della comunità internazionale (perlopiù provenienti dall’Unione europea).

Strutture demolite da Israele tra 2009 e 2021

Oltre alle demolizioni, continua la costruzione degli insediamenti

Nel 2020 sono iniziati lavori per 2.433 unità abitative nelle colonie, mentre sono 11 i nuovi insediamenti agricoli che Israele stesso definisce illegali, stabiliti in porzioni di territorio occupato riservate ad un futuro stato palestinese.

Ad oggi, preoccupa in particolare la situazione di Gerusalemme, con i quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah che circondano la città vecchia presi particolarmente di mira dal processo di ebraizzazione della Città Santa. Parte di ciò è la recente marcia dell’estrema destra israeliana che al grido di “morte agli arabi”, si è poi scontrata con i residenti arabi della città.

La comunità internazionale

È in un simile contesto di normalizzazione della violenza che il report di Human Rights Watch rappresenta un punto di partenza e non certo di arrivo perché si vada verso la responsabilizzazione di tutti gli attori coinvolti. A tal proposito, lo scorso 5 febbraio, la Corte penale internazionale (Cpi) ha confermato che investigherà crimini di guerra perpetrati nei territori occupati, notizia ufficializzata il 5 marzo, nonostante le proteste di Tel Aviv, Londra, Washington e Berlino.

L’indagine – che considererà le azioni di entrambi le parti in conflitto – rappresenta un passo storico non solo per palestinesi e israeliani, ma per l’intera comunità internazionale, in particolare l’Ue e gli Stati Uniti, paralizzati nella contraddizione tra i propri valori fondamentali e l’incapacità di prendere una posizione chiara a sostegno del diritto internazionale in Palestina.

È in questo contesto che l’Ue dovrebbe sostenere non solo la Cpi ma anche l’agenzia per i rifugiati palestinesi (Unrwa), proteggendo l’organizzazione dai costanti attacchi e accuse infondate. Adesso è il momento di tradurre l’attenzione di numerose realtà della società civile in un impegno politico concreto che possa facilitare, o quantomeno non ostacolare, la lotta dei palestinesi per i propri diritti di cittadinanza e al contempo riconfermare il ruolo imprescindibile del diritto internazionale in questo e altri conflitti.