dicembre 27, 2021

SUD AFRICA - PALESTINA. Desmond Tutu ci ha lasciato, ci resta però il suo appello al popolo di Israele: liberate voi stessi liberando la Palestina

 

All’età di 90 anni ci ha lasciati Desmond Tutu, arcivescovo anglicano di Città del Capo, premio Nobel per la Pace grazie al suo impegno per la Conciliazione in Sud Africa.

Simbolo della lotta contro l’apartheid. Insieme a Nelson Mandela sosteneva che il popolo sudafricano non sarebbe stato completamente libero senza la libertà del popolo palestinese.

Di qui l’appello al popolo al popolo d’Israele affinché si liberi liberando la Palestina.

 


 

AL POPOLO D’ISRAELE: LIBERATE VOI STESSI LIBERANDO LA PALESTINA

24 agosto 2014

Nelle ultime settimane, membri della società civile del mondo intero hanno lanciato azioni senza precedenti contro le risposte brutali e sproporzionate di Israele al lancio di razzi dalla Palestina. Se sommiamo tutti i partecipanti alle manifestazioni dell’ultimo weekend per chiedere giustizia in Israele e Palestina – a Cape Town, Washington, New York, Nuova Delhi, Londra, Dublino, Sydney, e in tutte le altre città – troviamo senza alcun dubbio la rappresentazione della più importante mobilitazione dell’opinione pubblica per un’unica causa mai vista nella storia dell’umanità. Un quarto di secolo fa, ho preso parte a manifestazioni contro l’apartheid, che avevano raccolto moltissime persone.

Non avrei mai immaginato che avremmo nuovamente assistito a manifestazioni di tale portata, ma quella di sabato scorso a Cape Town è stata almeno della stessa importanza. Tra i manifestanti c’erano giovani ed anziani, musulmani, cristiani, ebrei, indù, buddisti, agnostici, atei, neri, bianchi, rossi e verdi… E’ quanto ci si può aspettare da una nazione vivace, tollerante e multiculturale.

Ho chiesto alla folla di cantare con me: “Siamo contro l’ingiustizia dell’occupazione illegale della Palestina. Siamo contro le uccisioni a Gaza. Siamo contro le umiliazioni inflitte ai palestinesi ai posti controllo e di blocco delle strade. Siamo contro le violenze perpetrate da tutte le parti in causa. Ma non siamo contro gli ebrei.”

Precedentemente, nella settimana, avevo fatto un appello per la sospensione della partecipazione di Israele all’Unione Internazionale degli Architetti, che si teneva in Sudafrica. Ho invitato le sorelle ed i fratelli israeliani presenti alla conferenza a dissociarsi attivamente, nell’ambito della loro professione, dalla progettazione e dalla costruzione di infrastrutture finalizzate a perpetuare l’ingiustizia, in particolare tramite il muro di separazione, i terminali di sicurezza, i posti di controllo e la costruzione di colonie edificate sui territori palestinesi occupati.

Ho detto loro: “Vi prego di portare con voi questo messaggio: per favore, invertite il corso della violenza e dell’odio, unendovi al movimento non violento per la giustizia per tutti gli abitanti della regione”. Nelle ultime settimane, più di 1,7 milioni di persone in tutto il mondo hanno aderito al movimento unendosi ad una campagna di Avaaz che chiede alle compagnie che traggono profitto dall’occupazione israeliana e/o sono coinvolte nei maltrattamenti e nella repressione dei palestinesi, di ritirarsi. La campagna è rivolta specificamente ai fondi di pensione dei Paesi Bassi, ABP, alla Barclays Bank, al fornitore di sistemi di sicurezza G4S, alle attività di trasporto dell’azienda francese Véolia, all’azienda di computer Hewlett-Packard, e al costruttore di bulldozer Caterpillar.

Il mese scorso 17 governi europei hanno invitato i propri cittadini ad interrompere le relazioni commerciali e gli investimenti nelle colonie israeliane illegali. Recentemente, si è potuto vedere il fondo pensionistico olandese PGGM ritirare decine di milioni di euro dalle banche israeliane, la fondazione Bill e Melinda Gates disinvestire da G4S, e la chiesa presbiteriana americana annullare un investimento di circa 21 milioni di dollari nelle imprese HP, Motorola Solutions e Caterpillar. E’ un movimento che si va ampliando. La violenza genera violenza e odio, che a sua volta non fanno che produrre altra violenza e odio. Noi sudafricani conosciamo bene la violenza e l’odio. Sappiamo cosa significa essere dimenticati dal mondo, quando nessuno vuole capire o anche solo ascoltare ciò che noi esprimiamo. Questo fa parte delle nostre radici e del nostro vissuto. Ma sappiamo anche ciò che il dialogo tra i nostri dirigenti ha permesso, quando delle organizzazioni accusate di “terrorismo” vennero nuovamente autorizzate ad esistere, ed i loro capi, tra cui Nelson Mandela, vennero liberati dalla prigione o dall’esilio.

Noi sappiamo che quando i nostri dirigenti hanno cominciato a parlarsi, la logica della violenza che aveva frantumato la nostra società si è dissolta, fino a scomparire. Gli atti terroristici che avvennero dopo l’inizio di questi cambiamenti – come gli attacchi ad una chiesa e ad un bar – furono unanimemente condannati, e chi ne era stato l’artefice non trovò più alcun consenso quando la parola passò alle urne. L’euforia che seguì a questa prima votazione non si limitò ai soli sudafricani neri. La nostra soluzione pacifica era meravigliosa perché ci includeva tutti quanti. E quando, in seguito, abbiamo dato vita ad una costituzione così tollerante, generosa ed aperta, che dio stesso ne sarebbe andato fiero, ci siamo sentiti tutti come liberati.

Certo, il fatto di aver avuto dei dirigenti straordinari ci ha aiutato. Però, ciò che alla fine ha spinto questi dirigenti a riunirsi intorno ad un tavolo di negoziati è stato l’insieme di strumenti efficaci e nonviolenti che erano stati messi in atto per isolare il Sudafrica sul piano economico, accademico, culturale e psicologico. In un momento chiave, il governo dell’epoca aveva finito per rendersi conto che continuare con l’apartheid avrebbe costituito più un danno che un vantaggio. L’embargo sul commercio applicato negli anni ’80 al Sudafrica da alcune multinazionali impegnate fu un fattore determinante per la caduta, senza spargimento di sangue, del regime di apartheid. Queste imprese avevano capito che sostenendo l’economia sudafricana contribuivano al mantenimento d’uno statu quo ingiusto.

Coloro che continuano a fare affari con Israele, contribuendo così a garantire un senso di “normalità” alla società israeliana, rendono un pessimo servizio ai popoli di Israele e Palestina. Contribuiscono al mantenimento d’uno statu quo profondamente ingiusto. Chi sostiene l’isolamento temporaneo di Israele afferma che israeliani e palestinesi hanno gli stessi diritti alla dignità e alla pace. In ultima analisi, gli eventi che hanno avuto luogo a Gaza nell’ultimo mese sono un test per chi crede nei valori umani. E ‘sempre più evidente che i politici e i diplomatici sono incapaci di trovare risposte, e che la responsabilità di negoziare una soluzione duratura alla crisi in terra santa è in capo alla società civile ed ai popoli stessi di Israele e della Palestina. Al di là della recente devastazione di Gaza, persone oneste provenienti dal mondo intero – in particolare in Israele – sono profondamente turbate dalle violazioni quotidiane della dignità umana e della libertà di movimento, che i palestinesi subiscono ai posti di controllo e ai blocchi stradali. Inoltre, le politiche israeliane di occupazione illegale e la costruzione di edifici in zone tampone sul territorio occupato aumentano la difficoltà di raggiungere un accordo che sia accettabile da tutti per il futuro.

Lo stato di Israele agisce come se non esistesse un domani. I suoi abitanti con conosceranno l’esistenza tranquilla e sicura a cui aspirano, ed a cui hanno diritto, finché i loro dirigenti perpetueranno le condizioni che determinano il perdurare del conflitto. Ho condannato coloro che in Palestina sono responsabili dei lanci di missili e razzi su Israele. Essi attizzano il fuoco dell’odio. Io sono contro ogni forma di violenza. Ma occorre essere chiari, il popolo di Palestina ha tutto il diritto di lottare per la propria dignità e libertà. Questa lotta è sostenuta da molte persone in tutto il mondo. Nessun problema creato dall’uomo è senza via d’uscita, se gli uomini mettono in comune i loro sinceri sforzi per risolverlo. Nessuna pace è impossibile se le persone sono determinate ad ottenerla. La pace necessita che il popolo israeliano e quello palestinese riconoscano l’essere umano che è in loro e si riconoscano reciprocamente per comprendere la propria interdipendenza. I missili, le bombe e le invettive brutali non sono la soluzione.

Non esiste soluzione militare. La soluzione verrà più probabilmente dai mezzi nonviolenti che abbiamo sviluppato in Sudafrica negli anni ’80 per persuadere il governo sudafricano della necessità di cambiare la sua politica. La ragione per cui questi strumenti – boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti – si sono alla fine rivelati efficaci, è che avevano il sostegno di una massa critica, sia all’interno del paese che all’estero. Lo stesso tipo di sostegno nei confronti della Palestina di cui siamo stati testimoni nel mondo durante queste ultime settimane. La mia preghiera al popolo di Israele è di guardare al di là del momento contingente, di guardare al di là della rabbia per essere costantemente sotto assedio, di concepire un mondo in cui Israele e la Palestina coesistono – un mondo in cui regnano la dignità ed il rispetto reciproco. Ciò richiede un cambiamento di paradigma.

Un cambiamento che riconosca che un tentativo di mantenere lo statu quo è destinato a condannare le prossime generazioni alla violenza e all’insicurezza. Un cambiamento che smetta di considerare una critica legittima alla politica dello stato come un attacco contro gli ebrei. Un cambiamento che ha inizio all’interno e si propaga, attraverso le comunità, le nazioni e le regioni, alla diaspora che è diffusa in tutto il mondo di cui facciamo parte. Il solo mondo di cui facciamo parte! Quando i popoli si uniscono per una causa giusta, sono invincibili. Dio non interferisce nelle vicende umane, nella speranza che la risoluzione dei nostri conflitti ci farà crescere ed imparare da soli. Però dio non dorme. I testi sacri ebraici dicono che dio sta dalla parte dei deboli, dei poveri, delle vedove, degli orfani, dello straniero che ha permesso a degli schiavi di compiere il loro esodo verso una Terra Promessa.  E’ stato il profeta Amos a dire che dovremmo lasciare che la giustizia scorra come un fiume. Alla fine, il bene trionferà.

Cercare di liberare il popolo di Palestina dalle umiliazioni e dalle persecuzioni che gli vengono inflitte dalla politica di Israele è una causa nobile e giusta. E’ una causa che il popolo di Israele ha l’obbligo per sé stesso di sostenere

Nelson Mandela ha detto che i sudafricani non si sentiranno completamente liberi finché i palestinesi non lo saranno. Avrebbe potuto aggiungere che la liberazione della Palestina sarebbe anche la liberazione di Israele.

 

Testo originale in Desmond Tutu: la mia preghiera al popolo di Israele: liberatevi liberando la Palestina - Invictapalestina

 

 

maggio 15, 2021

PALESTINA. Il rapporto di Human Right Watch sull'apartheid praticato da Israele nei confronti del popolo palestinese

Questo articolo è stato pubblicato il 3 maggio scorso dalla rivista AFFARI INTERNAZIONALI. Ne sono autori Andrea Dessì e Flavia Fusco.

Andrea Dessì è direttore del programma di ricerca “Politica estera dell’Italia” e responsabile di ricerca nell’area Mediterraneo e Medio oriente dello IAI. È direttore editoriale degli IAI Commentaries..

Flavia Fusco è ricercatrice junior nel programma Mediterraneo e Medio oriente dello IAI e laureanda in Relazioni e istituzioni dell’Asia e dell’Africa all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. 

Articolo originale https://www.affarinternazionali.it/2021/05/apartheid-israele-palestinesi/

 



Crimes of apartheid and persecution”. Così l’ong Human Rights Watch (Hrw) definisce nel suo ultimo rapporto le politiche discriminatorie praticate dalle autorità israeliane nel territorio che si estende dal Mediterraneo al fiume Giordano. Un territorio in cui il trattamento riservato alla popolazione cambia a seconda dell’etnia e religione e dove da tempo si è consolidata un’unica realtà: quella che dal 27 aprile scorso anche Hrw chiama inequivocabilmente “apartheid”.

Definito “crimine contro l’umanità” dalla Convenzione Onu del 1973 e dallo Statuto di Roma nel 1998 nel tentativo di metabolizzare l’esperienza storica della segregazione in Sudafrica, l’apartheid è oggi una realtà quotidiana per i palestinesi.

Che i palestinesi, indipendentemente dal fatto che si trovino in territorio israeliano, Gerusalemme Est, Cisgiordania o Gaza, siano schiacciati in maniera più o meno pesante dall’oppressione israeliana non è affatto una novità. La notizia è che questa condizione di subordinazione venga ora chiamata con il proprio nome anche da attori cardine del sistema liberale che a lungo hanno preferito smorzare i toni di fronte alla sistematica violazione dei diritti umani in Palestina.

Il rapporto di Hrw

Il rapporto di Human Rights Watch si aggiunge al lavoro di advocacy di tante realtà che da anni spingono affinché le politiche di Israele siano riconosciute in quanto espressamente finalizzate ad ostacolare il diritto all’autodeterminazione palestinese. Lo studio mostra come alla base del controllo demografico, politico e territoriale praticato da Israele vi siano i tre elementi cardine del crimine di apartheid: intento di dominio, istituzionalizzazione delle pratiche di discriminazione e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali.

C’è di più. Hrw afferma che non è più possibile differenziare tra le politiche discriminatorie messe in atto nei territori occupati (inclusa Gerusalemme Est) e il trattamento riservato alla minoranza arabo-palestinese dentro Israele. A venire meno è quindi quella narrazione che tenta di discernere ciò che accade in Israele – promossa come democrazia liberale – dalla realtà dei territori occupati, con il rapporto che mette a nudo la profonda disuguaglianza di due comunità solo demograficamente equivalenti – 6,8 milioni di ebrei israeliani e 6,8 milioni di arabi palestinesi -.

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Riconoscimento discorsivo, valenza reale


Anche l’organizzazione israeliana B’tselem aveva recentemente pubblicato uno studio che giunge alle stesse conclusioni di Hrw: tra il Mediterraneo e il fiume Giordano esiste un unico regime di supremazia ebraica. Andando indietro negli anni, a marzo 2017, è stata l’agenzia Onu Escwa a definire decenni di politiche discriminatorie, arresti arbitrari, repressione, espulsioni, restrizioni e costruzione degli insediamenti come un “regime di apartheid imposto sul popolo palestinese nella sua interezza”.


Anche personaggi politici come Jimmy Carter, 39° presidente Usa, e Ehud Barak, ex premier israeliano, guardavano con preoccupazione quanto accadeva in Palestina. Quando undici anni fa era alla guida del ministero della difesa, Barak ammonì che in assenza di un accordo con i palestinesi l’apartheid si sarebbe fatto largo in Israele, aspetto ribadito nel 2017. In precedenza, nel 2006, l’ex presidente Carter suscitò scalpore con il suo “Palestine: Peace Not Apartheid”.

Inserendosi in questo processo di riconoscimento discorsivo dall’importanza tutt’altro che simbolica, il report di Hrw è stato pubblicato in una data importante, il 27 aprile, ovvero il Freedom Day sudafricano, anniversario della liberazione. Molti attivisti – tra cui alcuni direttamente coinvolti nella lotta di liberazione sudafricana – hanno da tempo riconosciuto nelle politiche di Israele il crimine di apartheid.

Tra dominio e annessione

I palestinesi però sono ancora lontani dalla loro liberazione, schiacciati dall’estrema destra in Israele e non certo facilitati dall’Autorità nazionale palestinese che appare più interessata a proteggere status e privilegi che promuovere la causa palestinese, come dimostra la decisione di rimandare (ancora una volta) le elezioni.

Tuttavia, è sbagliato parlare di status quo poiché l’occupazione avanza. Dal 2009, sono 7.585 le strutture palestinesi demolite da Israele, la maggior parte in località palestinesi (Area C) che Israele vorrebbe annettere unilateralmente. Tra queste, 1.355 erano state realizzate mediante finanziamenti della comunità internazionale (perlopiù provenienti dall’Unione europea).

Strutture demolite da Israele tra 2009 e 2021

Oltre alle demolizioni, continua la costruzione degli insediamenti

Nel 2020 sono iniziati lavori per 2.433 unità abitative nelle colonie, mentre sono 11 i nuovi insediamenti agricoli che Israele stesso definisce illegali, stabiliti in porzioni di territorio occupato riservate ad un futuro stato palestinese.

Ad oggi, preoccupa in particolare la situazione di Gerusalemme, con i quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah che circondano la città vecchia presi particolarmente di mira dal processo di ebraizzazione della Città Santa. Parte di ciò è la recente marcia dell’estrema destra israeliana che al grido di “morte agli arabi”, si è poi scontrata con i residenti arabi della città.

La comunità internazionale

È in un simile contesto di normalizzazione della violenza che il report di Human Rights Watch rappresenta un punto di partenza e non certo di arrivo perché si vada verso la responsabilizzazione di tutti gli attori coinvolti. A tal proposito, lo scorso 5 febbraio, la Corte penale internazionale (Cpi) ha confermato che investigherà crimini di guerra perpetrati nei territori occupati, notizia ufficializzata il 5 marzo, nonostante le proteste di Tel Aviv, Londra, Washington e Berlino.

L’indagine – che considererà le azioni di entrambi le parti in conflitto – rappresenta un passo storico non solo per palestinesi e israeliani, ma per l’intera comunità internazionale, in particolare l’Ue e gli Stati Uniti, paralizzati nella contraddizione tra i propri valori fondamentali e l’incapacità di prendere una posizione chiara a sostegno del diritto internazionale in Palestina.

È in questo contesto che l’Ue dovrebbe sostenere non solo la Cpi ma anche l’agenzia per i rifugiati palestinesi (Unrwa), proteggendo l’organizzazione dai costanti attacchi e accuse infondate. Adesso è il momento di tradurre l’attenzione di numerose realtà della società civile in un impegno politico concreto che possa facilitare, o quantomeno non ostacolare, la lotta dei palestinesi per i propri diritti di cittadinanza e al contempo riconfermare il ruolo imprescindibile del diritto internazionale in questo e altri conflitti.



febbraio 22, 2021

AFRICA. Free trade area

 

Riportiamo l’interessante articolo pubblicato dalla Rivista AFRICA sul processo di “sganciamento” del continente africano dalla storica dipendenza dall’economia occidentale.

In Africa è nata l’area di libero scambio più grande al mondo: 54 paesi si sono uniti con l’obiettivo di sviluppare i commerci nel continente e spezzare la dipendenza dal nord del mondo. Le merci possono essere spostate da una regione all’altra senza pagare dazi.  

Ma cosa cambia davvero con il Trattato di Libero Commercio Continentale Africano?

 


di Alfredo Somoza

Nel 1985 l’economista egiziano Samir Amin formulava la “teoria dello sganciamento” ipotizzando la creazione di flussi commerciali e politici “sud-sud” come unica via per il superamento dei rapporti iniqui tra il Nord e il Sud del mondo. In sostanza Amin considerava questa come l’arma risolutiva in mano ai Paesi del “Terzo Mondo” per porre fine alla loro storica dipendenza dai rapporti coloniali e neocoloniali con l’Occidente. Molto tempo è passato e alcuni tentativi sono stati fatti, a partire dalla creazione del Mercosur, primo blocco economico interamente formato da Paesi sudamericani. Ma la svolta, con la materializzazione delle teorie di Amin, potrebbe verificarsi ora, proprio dove meno ce la si aspettava.

Il Trattato di Libero Commercio

È l’Africa, infatti, che grazie ai rapporti “stretti” con la Cina, criticatissimi dalle vecchie potenze coloniali, ha trovato la spinta per integrarsi economicamente, da sola. Il 1° gennaio di quest’anno, nel silenzio assordante della stampa mondiale, è nata l’area di libero scambio più grande al mondo: il Trattato di Libero Commercio Continentale Africano, noto con l’acronimo inglese AfCFTA, riunisce 54 Paesi africani al fine di realizzare un’unione doganale, abbattendo dazi e armonizzando le regole commerciali.

Non si tratta di un’unificazione che ambisce alla costruzione di una nuova entità sovranazionale – come invece l’Unione Europea e, almeno sulla carta, il Mercosur – ma del tentativo di agevolare la circolazione di merci e servizi in tutto il continente, con l’obiettivo dell’autosufficienza. In pratica l’intero continente diventerà area di libero scambio, con la sola esclusione dell’Eritrea. Parliamo di un miliardo e duecentomila persone, una popolazione in crescita veloce, e di 2.500 miliardi di dollari di PIL.

Secondo i pronostici, entro i prossimi 7 anni l’unificazione delle regole e dei dazi sulle merci porterà a una crescita del 7% del PIL di questo continente-area economica e a un aumento pari a 500 miliardi di dollari nello scambio tra i Paesi dell’area. Attualmente il 90% dell’export africano è diretto fuori dal continente: per fare un confronto, la quota di export dell’Unione Europea diretta all’esterno dell’UE è del 40%. Accrescere l’incidenza del commercio infracontinentale spezzerebbe la dipendenza totale dai mercati terzi. I motivi dell’attuale scarsità degli scambi tra Paesi africani sono diversi. Sicuramente ciò dipende dal fatto che l’export africano è costituito soprattutto da materie prime, ma un peso notevole hanno anche le difficoltà concrete a muovere merci e spostare servizi tra i Paesi senza finire imbrigliati nella rete di dazi, corruzione, ostacoli burocratici.

Il ruolo della Cina

Alla decisione storica di costituire una zona di libero scambio di portata continentale non è estraneo il peso acquisito in Africa dalla Cina, primo importatore, esportatore e investitore internazionale nel continente.

La Cina non ha soltanto sostituito i tradizionali legami postcoloniali con i Paesi europei o con gli Stati Uniti, ma ha effettuato enormi investimenti sulle infrastrutture e sulla trasformazione in loco delle materie prime, dando il via alla nascita di un settore industriale in diversi Stati africani. 

Per la Cina, l’Africa non è soltanto un cliente da maltrattare o un fornitore da sfruttare, come è sempre stata per tutti gli altri “partner”, ma un continente strategico sul quale investire.

La creazione dell’area di libero scambio diventerà un volano ulteriore per la presenza produttiva cinese perché le merci prodotte (o le materie prime trasformate) localmente potranno essere spostate da una regione all’altra del continente senza pagare dazi. Si tratta di una mossa mai nemmeno immaginata da Paesi come Francia, Belgio, Regno Unito, Germania o Italia, che concepirono l’Africa come uno scrigno dal quale trafugare tesori senza restituire nulla. Eppure l’Africa che oggi decide di cominciare a camminare tutta insieme ha una forza che va oltre l’interesse contingente di Pechino e costituisce un precedente a livello mondiale. Il fatto che un insieme di Paesi le cui frontiere furono disegnate a tavolino dai governi europei decida di creare una comunità con regole comuni, e di superare almeno in parte quei confini, è una delle migliori notizie degli ultimi anni, anche se quasi nessuno l’ha rilevato.

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