dicembre 30, 2018

MIGRAZIONI. IL RACCONTO DI UN NAUFRAGIO




Il naufragio è quello del 6 novembre 2017 nel Mediterraneo, ricostruito in un video del New York Times che mostra le violenze della Guardia costiera libica e le responsabilità di Italia e UE 

Un momento dell'operazione di soccorso ai migranti naufragati al largo delle coste della Libia il 6 novembre 2017 (New York Times) 

Il New York Times ha pubblicato un mini-documentario che racconta passo a passo il naufragio di una barca di migranti al largo della Libia avvenuto il 6 novembre 2017, in cui morirono almeno venti persone. Il naufragio avvenne dopo che il governo italiano allora guidato da Paolo Gentiloni (PD) aveva iniziato ad “appaltare” i soccorsi in mare alla Guardia costiera libica – se di “Guardia costiera libica” si può parlare – adottando politiche sempre più rigide nei confronti dei migranti e delle ong impegnate nel loro salvataggio nel mar Mediterraneo. Le immagini mostrano nel dettaglio alcune cose di cui si parla da tempo – l’incompetenza della Guardia costiera libica e le loro violenze gratuite dei suoi membri sui migranti, gli scontri tra Guardia costiera libica e ong, le torture subite dai migranti nei centri di detenzione in Libia, tra le altre cose – ma lo fa in una maniera molto approfondita e documentata.

Il video del New York Times, che dura poco più di 20 minuti, ricostruisce gli eventi di quel giorno attraverso le immagini di più di 10 videocamere, le interviste ad alcuni dei sopravvissuti e le ricostruzioni in 3D realizzate dal gruppo di ricerca londinese Forensic Architecture e dal progetto Forensic Oceanography, che si occupa di documentare le violazioni dei diritti umani nel Mediterraneo. Lo stesso video e l’articolo che lo accompagna sono stati realizzati da membri del Forensic Architecture e del Forensic Oceanography, e da avvocati di una ong che ha avviato un’azione legale contro l’Italia per quello che è successo il 6 novembre 2017.

La mattina del 6 novembre 2017 un gommone che la notte precedente era partito da Tripoli si trovò in difficoltà a causa delle cattive condizioni del mare. I migranti a bordo chiamarono la Guardia costiera italiana con un telefono satellitare, chiedendo aiuto: sul posto arrivò per prima una nave della Guardia costiera libica, con a bordo 13 membri dell’equipaggio: 8 di loro avevano ricevuto addestramento dal programma navale anti-trafficanti dell’Unione Europea, conosciuto come Operazione Sofia. Si avvicinarono a grande velocità, provocando nuove onde che fecero cadere in mare alcuni dei migranti che si trovavano sul gommone. Lanciarono qualche salvagente in mare e fecero poco altro. In quel momento il gommone era già fuori dalle acque territoriali libiche.

La nave della Guardia costiera libica si avvicina a grande velocità al gommone di migranti (New York Times)

Negli ultimi due anni la Guardia costiera libica – o meglio, quella legata al governo di Tripoli – è stata appoggiata e finanziata in particolare dal governo italiano. L’inizio di una più stretta collaborazione risale al febbraio 2017, quando l’Italia e il governo libico di accordo nazionale – quello sostenuto dall’ONU e guidato dal primo ministro Fayez al Serraj – firmarono un “memorandum” relativo alla lotta contro «l’immigrazione illegale» e il traffico di essere umani: l’accordo aveva lo scopo di prevenire l’arrivo di nuovi migranti sulle coste europee e forniva soldi, equipaggiamento e addestramento alle forze libiche. Nei mesi successivi la Guardia costiera libica fu piuttosto efficiente nel fermare le barche dirette verso l’Italia, ma si mostrò completamente impreparata e soprattutto non interessata a soccorrere i migranti in mare, come mostrano anche gli eventi del 6 novembre.

La nave della Guardia costiera libica coinvolta nei soccorsi del 6 novembre, la Ras Jadir, è una di quelle che erano state risistemate dall’Italia e poi date ai libici nel maggio dello stesso anno. A bordo era finito anche l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, per celebrare la collaborazione tra Italia e Libia in materia di immigrazione.3

L’allora ministro dell’Interno italiano Marco Minniti a bordo della Ras Jadir, nave italiana donata alla Guardia costiera libica nel maggio 2017 (New York Times)

Nonostante i programmi di addestramento previsti dall’accordo tra Italia e Libia, la mattina del 6 novembre, invece che usare una nave di soccorso più piccola, più agile e in grado di non provocare nuove onde, la Guardia costiera libica si avvicinò direttamente al gommone, fino ad accostarlo. Molti dei membri dell’equipaggio rimasero a bordo della nave senza fare nulla per aiutare i migranti in mare: uno di loro si mise a filmare col cellulare le persone che annegavano. Alcuni dei sopravvissuti raccontarono poi di essere stati insultati.4

La nave della Guardia costiera libica si affianca al gommone: nel video si vedono diversi membri dell’equipaggio che rimangono fermi, senza soccorrere i migranti (New York Times)

Pochi minuti dopo sul luogo del naufragio arrivò anche una nave della ong tedesca Sea Watch, anch’essa avvisata dalle autorità italiane: si avvicinò a velocità ridotta, mantenendo la distanza di sicurezza dal gommone e registrando tutto quello che stava succedendo grazie alle nove telecamere installate a bordo per documentare le eventuali violenze dei libici.

Diversi membri dell’equipaggio della Sea Watch salirono a bordo di alcune imbarcazioni più piccole per soccorrere i migranti in mare, che nel frattempo a causa delle onde si erano allontanati dal gommone. «C’erano così tante persone in acqua. Cercammo di soccorrerle tutte, ma la distanza tra loro era molta», ha raccontato al New York Times Stefanie Hilt, paramedica che si trovava a bordo della Sea Watch. Alcuni migranti annegarono prima di essere raggiunti dai soccorsi.

Il braccio di un migrante che chiede aiuto, poco dopo il naufragio. I soccorritori di Sea Watch non riuscirono a salvarlo: uno dei migranti già soccorsi si buttò in mare per cercare di raggiungerlo, ma arrivò troppo tardi (New York Times)

Durante le operazioni di soccorso, l’equipaggio della Sea Watch fu attaccato dalla Guardia costiera libica, che oltre a intimargli di allontanarsi cominciò a lanciargli contro oggetti come salvagenti e patate. Johannes Bayer, capo missione di Sea Watch, ha raccontato al New York Times che i libici fecero diversi gesti di minaccia, per esempio mimando di tagliare il collo e di sparare con delle pistole.

Una patata lanciata dalla nave della Guardia costiera libica contro un’imbarcazione di Sea Watch, nel mezzo dei soccorsi ai migranti (New York Times)

Alcuni dei migranti portati a bordo della nave della Guardia costiera libica si ributtarono in mare, per paura di quello che avrebbero potuto fare loro i membri dell’equipaggio e per evitare di essere riportati in uno dei centri di detenzione in Libia, nei quali secondo diversi governi, ong e inchieste giornalistiche vengono compiute sistematicamente torture, stupri e aste per la vendita degli schiavi (Annalisa Camilli aveva raccontato su Internazionale una di queste storie: si può leggere qui). Uno di loro ha detto al New York Times di non sapere nuotare ma di essersi buttato lo stesso in mare nel tentativo di raggiungere i soccorritori europei: «Preferivo morire in quelle acque che essere riportato in Libia». 

Come mostrano le immagini registrate da Sea Watch, i membri dell’equipaggio libico cominciarono poi a picchiare i migranti rimasti a bordo

Un membro dell’equipaggio della Guardia costiera libica prende a calci alcuni migranti a bordo della nave (New York Times)

Dopo essere stato picchiato, uno di loro si buttò in mare, rimanendo però aggrappato alla scaletta lasciata sul lato della nave della Guardia costiera libica. Subito dopo il comandante fece ripartire la nave a grande velocità, disinteressandosi del migrante e degli avvisi dell’equipaggio di Sea Watch, che dicevano: «Guardia costiera libica, Guardia costiera libica. State uccidendo una persona. Vogliamo che vi fermiate. Ora! Ora! Ora!».
Un migrante appeso alla scaletta della nave della Guardia costiera libica in movimento. L’uomo fu fatto risalire a bordo solo dopo l’intervento di un elicottero militare italiano (New York Times)

Le sorti dei migranti soccorsi dalla Sea Watch furono diverse da quelle dei migranti recuperati dalla Guardia costiera libica. Ai primi furono date coperte e cibo, garantite cure mediche e furono portati in Europa. I secondi finirono nei centri di detenzione libici.
Il New York Times ha contattato telefonicamente due migranti nigeriani che erano a bordo del gommone naufragato il 6 novembre 2017 e che furono riportati in Libia. Hanno raccontato di essere stati chiusi in una stanza e di essere stati picchiati, torturati con le scosse elettriche e di essere stati venduti a un altro gruppo di trafficanti, prima di riuscire a scappare e nascondersi in un posto che hanno voluto rimanesse segreto, per questioni di sicurezza. «Non possiamo uscire. Non abbiamo cibo, non abbiamo libertà. Non abbiamo niente, niente». Uno di loro è poi riuscito a lasciare la Libia e arrivare in Europa. L’altro è ancora in Libia.

Sulla base della ricostruzione degli eventi di quel 6 novembre, la Global Legal Action Network, ong che si occupa di azioni legali transazionali, insieme all’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e con la collaborazione degli studenti dell’Università di Legge di Yale, hanno avviato una causa legale contro l’Italia di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in rappresentanza di 17 sopravvissuti del naufragio. La tesi di chi sta lavorando all’azione legale è questa: anche se non furono cittadini italiani o europei a intercettare i migranti e riportarli in Libia, nel momento del naufragio il governo italiano esercitava una tale influenza sulla Guardia costiera libica da essere co-responsabile delle azioni dei libici. L’Italia, inoltre, sapeva che costringere persone probabilmente intenzionate a richiedere una qualche forma di protezione internazionale in Europa a ritornare in Libia, dove vengono compiute sistematiche violazioni dei diritti umani, era contrario al diritto nazionale e internazionale
.
L’inchiesta, conclude l’articolo del New York Times, mostra due cose: che da tempo i governi europei stanno evitando di assumersi le proprie responsabilità legali e morali di fronte alla mancata protezione dei diritti umani delle persone che lasciano il loro paese per avere subìto violenze o per disperazione economica; e che il partner a cui si è scelto di “appaltare” i soccorsi in mare, la Guardia costiera libica, è pronto a violare anche i diritti più basilari per evitare che i migranti attraversino il mar Mediterraneo.
Fonte: Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione  

ottobre 31, 2018

MALI. Africa, una storia da riscoprire. I Dogon del Mali, un popolo straordinario.

Toguna nel villaggio di Sangha, Mali (Foto di BluesyPete)


In questo blog abbiamo parlato del Mali sotto altri profili: la guerra scatenata nel paese dalle potenze coloniali ("Mali le verità della guerra") e gli appelli lanciati dai maliani contro il predominio degli organismi finanziari occidentali che dettano l’agenda politica ai governi autoctoni democraticamente eletti ( "Ridare il Mali ai maliani").
Questo breve articolo pubblicato da Pressenza ci induce a riflettere sulla secolare storia del Mali e sulla complessità della cultura africana ignorate dal mondo occidentale.
"Chi sono i Dogon? Da dove vengono?
Non abbiamo tanti elementi su di loro, ma sicuramente ebbero un legame con i primi popoli che si stabilirono in Egitto. Poi, nel XIII secolo, all’epoca dell’Impero del Mali, scesero verso l’Africa occidentale, dove la famiglia dell’imperatore Sundiata Keita sembrava proteggerli. Dopo la caduta dell’impero, nel XIV secolo, fuggirono nella falesia di Bandiagara, dove viveva un popolo di cacciatori pigmei, i Tellem, con cui in parte si fusero.
Secondo alcune fonti i Dogon vivono in quella zona da oltre sette secoli. Secondo le loro leggende, credono di venire dalla stella Sirio, a cui attribuivano l’esistenza di una stella gemella, detta Potolo, impossibile da vedere a occhio nudo, che la scienza moderna ha scoperto solo nel 1862. C’è anche una terza stella, chiamata Emenya Tolo. Tutte e tre le stelle hanno nomi di cereali. I Dogon descrivono la Via Lattea come una galassia a spirale formata da milioni di stelle, studiate da un osservatorio di pietra tipo Stonehenge.
I Dogon hanno una lingua segreta, nota solo agli iniziati e molte feste, tra cui quella del Dama, con maschere a forma di lucertole, serpenti e leoparsi e danze. Ogni sessant’anni celebrano la festa del Sigi, dedicata alla fertilità e alla vita.
I villaggi sono amministrati da un capo, il Gina e problemi e conflitti vengono risolti in modo pacifico. Non si riscontrano crimini, furti o suicidi.
Il Toguna è l’edificio pubblico più importante; uno straniero che non sa dove dormire può farlo là. Purtroppo la modernità sta facendo sì che soprattutto i giovani vadano abbandonando le tradizioni, con il rischio di perdere un’identità antichissima"
Pressenza-International Press Agency 

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settembre 29, 2018

OTTOBRE di PACE, Sanremo, 05-29 ottobre 2018, tredicesima edizione.


“Ottobre di Pace” è una rassegna di eventi realizzata da una rete di associazioni cittadine che nel mese di ottobre di ciascun anno vuole celebrare la proclamazione di “Sanremo città internazionale della pace e dei diritti umani” avvenuta nel 2006.

Casa Africa vi partecipa dal 2015, anno in cui organizzò insieme a Caritas Diocesana e al Centro Culturale Islamico l’incontro sul tema : "Il terrorismo non ha religione. Cosa c'è dietro il sedicente Stato Islamico?" tenutosi presso l’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario

Quest’anno la tredicesima edizione della rassegna è dedicata al preoccupante problema dell'espansione internazionale del mercato delle armi che vede  l'Italia in prima fila (v. anche il nostro post "Scenari di guerra") con pesanti e inevitabili ripercussioni sulle scelte di politica interna e internazionale fatte dai nostri governanti e sull'affermarsi di modelli culturali fondati sulla violenza e sulla sopraffazione...a  partire dalle scuole (v.La lunga notte delle scuole armate").

La rassegna inizia con la testimonianza di Vito Alfieri Fontana, divenuto da fabbricante di mine a sminatore.  Già titolare di  una delle imprese leader in Italia nella fabbricazione di mine anticarro e antiuomo chiuse questa attività per dedicarsi alla bonifica dei territori infettati da tali ordigni. Prima in Kosovo, poi dal 2001 a Sarajevo, fu alla testa del team incaricato di bonificare l’ex capitale bosniaca e le colline circostanti.



luglio 29, 2018

TUNISIA. Dove fiorisce l’economia sociale, tra laboratori artigianali e campi agricoli.

Donne e giovani di quattro regioni della Tunisia sono i protagonisti dei progetti di economia sociale sostenuti anche dall’ong italiana Cospe. Da Tunisi a Jendouba, tra laboratori artigianali e campi agricoli. Qui il reportage di Ilaria Sesana  pubblicato da Altreconomia.

Madame Baja Hizaoui ha sessant’anni e quattro figli. Si siede a terra, la schiena dritta e la pesante macina di pietra posata davanti a sé. Con la mano sinistra gira velocemente il disco superiore, con l’altra versa manciate di orzo. Separa la pula dai chicchi fino a ottenere una farina grezza che mostra con orgoglio. “Sono l’unica donna in tutta la regione di Jendouba che ancora fa questo tipo di lavorazione”, spiega. Questa tecnica permette di conservare intatto il gusto e le proprietà dei cereali.
L’interno di Maison Rayhana
Per lungo tempo Baja ha venduto i suoi prodotti solo ai familiari e agli abitanti del suo villaggio, nel Nord-Ovest della Tunisia, con un guadagno minimo. Ma da quando ha iniziato a frequentare "Maison Rayhana"-uno spazio di aggregazione per le donne di Jenduoba e dei villaggi limitrofi- la sua vita è cambiata: non solo ha la possibilità di incontrare altre donne, discutere dei problemi quotidiani, trovare supporto e assistenza. Ora può vendere i suoi prodotti a un pubblico molto più ampio. Mentre Baja illustra le qualità dei suoi prodotti, Nacyb Allouchi, 26 anni, presidente dell’associazione, rifinisce la grafica per le etichette di “Friga” (l’antico nome della regione di Jendouba), un marchio che riunirà i prodotti alimentari trasformati dalle donne che orbitano attorno a “Maison Rayhana”. “Stiamo portando avanti un percorso di riscoperta e valorizzazione della filiera agroalimentare di questi territori -spiega Nacyb-. Sulle etichette dei prodotti Friga verrà raccontato non solo il prodotto, ma anche la storia di chi lo ha realizzato e trasformato”.
Ma “Maison Rayhana” non è solo uno spazio imprenditoriale. La casa delle donne di Jendouba è nata sull’onda della rivoluzione del 2011, grazie all’impegno di un gruppo di ragazze che si sono aggregate attorno a un’esigenza: dare alle donne uno spazio dove trovarsi, parlare, confrontarsi e progettare. Oggi l’associazione ha sede in una bella villetta con giardino: la grande sala serve come spazio per le riunioni e le attività di formazione, una sala più piccola e dotata di pc viene messa a disposizione delle studentesse della zona, che possono accedere a internet a un prezzo contenuto. In un altro locale è stata ricavata una piccola palestra riservata alle donne. “Attualmente sono circa un centinaio quelle che frequentano le nostre attività”, spiega Nacyb.
“Maison Rahyana” è uno dei progetti che l’ong italiana Cospe, presente in Tunisia dagli anni Novanta, sostiene oggi attraverso il progetto “Initiative d’emploi en economie sociale et solidaire en Tunisie” (Iess), lanciato nel 2014 e finanziato dall’Unione europea. L’obiettivo è promuovere l’occupazione attraverso lo sviluppo dell’economia sociale, con un’attenzione particolare alle iniziative imprenditoriali dei giovani e delle donne. Fra agricoltura e turismo, trasformazione dei prodotti alimentari e artigianato, il progetto Iess si concentra in quattro regioni particolarmente svantaggiate della Tunisia: i governatorati di Jendouba, Kasserine, Sidi Bouzid e Mahdia. Proprio a Sidi Bouzid, nel dicembre 2010, sono scoppiate le proteste che hanno innescato la primavera araba, la caduta del regime di Ben Alì e l’avvio di un processo democratico nel Paese.
La rivoluzione ha portato cambiamenti epocali nella società tunisina: nel volgere di pochi mesi si sono aperte nuove opportunità di dibattito e di confronto, la società civile -prima immobile e repressa- è rinata, in pochi anni sono state fondate migliaia di associazioni. Parallelamente, si è avviato un processo democratico che ha portato all’elezione di un’assemblea costituente, alla scrittura di una nuova Carta fondamentale e all’alternanza democratica di governo.
Questo però non è bastato ad avviare una svolta economica nel Paese, segnato anche da due gravi attentati terroristici che hanno colpito il settore turistico. Nel 2012 in Tunisia il tasso di disoccupazione ufficiale è arrivato al 17,6% per poi scendere al 15% nel primo trimestre del 2017. E la mancanza di lavoro resta un problema particolarmente grave per i giovani (spesso altamente scolarizzati) e per le donne. “Una delle parole chiave della rivoluzione del 2011 è dignità”, ricorda Alessia Tibollo, referente Cospe in Tunisia e coordinatrice del progetto Iess. “L’economia sociale mira a dare una risposta alle istanze della rivoluzione, una possibilità di impiego duraturo, adeguatamente retribuito e dignitoso -spiega Tibollo-. Con il progetto Iess sosteniamo movimenti di giovani produttori e donne che vogliono fare economia in modo diverso, mettendo al centro la persona, la comunità e il territorio”.
Donne come Wahida Saadi, artigiana, attivista per i diritti delle donne e anima del progetto "Artisan Solidaire", nato nel 2014. L’atelier occupa tutto il primo piano di una piccola palazzina nel cuore di Kasserine: una stanza con due grossi telai è adibita a laboratorio, mentre in una stanza più piccola vengono messi in mostra tappeti colorati, tessuti ricamati a mano di ogni colore, cestini e tappeti realizzati con l’alfa, una fibra vegetale resistente che cresce nella regione. “Il problema principale per le donne artigiane della regione di Kasserine sono gli intermediari. Sfruttano il loro lavoro, pagandolo a cottimo e senza riconoscere il giusto valore”, spiega Wahida. Costrette a lavorare da casa, in una situazione di isolamento, le donne sono costrette ad accettare i prezzi e le condizioni di lavoro imposte dagli intermediari. Che poi rivendono i loro prodotti con un ampio margine.
Il costo reale per un metro quadrato di tappeto, ad esempio, è di circa 50 dinari (17 euro): all’artigiana che lo realizza solitamente viene pagato meno del suo valore reale (circa 30 dinari) mentre il ricarico applicato dall’intermediario può arrivare fino a 80 euro. “Sono le donne, con il loro lavoro, a mandare avanti le famiglie. Ma sono sfruttate e spesso non possono uscire di casa -spiega Wahida-. Con il progetto Artisan Solidaire diamo loro la possibilità di uscire di casa e rendersi autonome da un punto di vista economico: un lavoro degno e adeguatamente retribuito è essenziale per la liberazione della donna”.
Leila Horchani sta studiando per conseguire una specializzazione
 sull’agricoltura biologica
Lo sfruttamento della manodopera femminile è ugualmente diffuso in agricoltura: le donne sono pagate a giornata (15 dinari per otto-nove ore di lavoro) o a cottimo dai proprietari dei campi. Leila Horchani, 27 anni e un master nel settore agroalimentare all’università di Monastir, ha sfidato questo sistema dando vita a un progetto che oggi permette a lei e ad altre tre donne di vivere di agricoltura e allevamento. “Non è stato facile, non abbiamo trovato molto supporto”, spiega Leila, figlia di contadini di Sidi Bouzid. Grazie al supporto di Cospe, Leila ha messo a punto il proprio progetto imprenditoriale, ha fatto una valutazione sulla qualità del terreno per individuali quali ortaggi si adattavano meglio e ha ricevuto i finanziamenti per acquistare cinque capre (oggi ha un gregge di 35 animali) e il necessario per un impianto di irrigazione “a goccia” che riduce al minimo gli sprechi d’acqua. Dopo due anni di accompagnamento, oggi il progetto di Leila è ben avviato e lei sogna di crescere ancora. “Ci sono tante donne nella zona che vorrebbero entrare a far parte del progetto, ma in questo momento non possiamo farlo, non abbiamo abbastanza terra -spiega-. Abbiamo affittato un campo di tre ettari, che avvieremo l’anno prossimo. Purtroppo comprare i terreni qui in Tunisia è molto difficile”.
Non solo l’accesso alla terra, ma anche quello al credito è particolarmente complicato per gli imprenditori sociali tunisini. Zaafouri Mohamed Fadhel, un giovane ingegnere, ha avviato assieme a due colleghi un progetto di economia sociale per il riciclaggio della plastica a Sidi Bouzid. “Non c’è una forma giuridica che ci permetta di presentarci alle banche come impresa sociale per chiedere un finanziamento -spiega Fadhel-. Così in questa prima fase l’ho chiesto a nome mio”. “Manca una legge quadro che regoli l’economia sociale”, spiega Dalia Mabrouk, direttrice esecutiva del “Polo Citess” di Mahdia. La struttura che dirige è stata creata nel marzo 2017 e ha come obiettivo quello di fornire agli imprenditori sociali servizi di consulenza e attività di formazione coinvolgendo le istituzioni del territorio.
La situazione potrebbe cambiare in tempi brevi: il governo tunisino, infatti, ha inserito l’economia sociale nella sua “Strategia nazionale di sviluppo 2016-2020” e ha avviato un percorso che dovrebbe portare all’approvazione di una legge quadro nei primi mesi del 2018. “Entro fine 2017 inizierà la discussione in Parlamento -spiega Nawel Jabbes, incaricata per l’economia sociale presso il ministero delle Politiche agricole ed ex sindacalista-. Questa legge permetterà di dare una definizione di economia sociale, definisce il perimetro delle realtà che ne possono far parte e dei settori in cui può agire. Inoltre istituisce una serie di agevolazioni fiscali e, in prospettiva, si parla anche di una sorta di ‘banca etica’ dedicata al finanziamento di questi progetti”. 
L'atelier Tili Tanit

Nell’attesa che la legge diventi realtà, gli imprenditori tunisini continuano a rimboccarsi le maniche. “Ho imparato l’arte del ricamo da mia madre. Lei, le sue sorelle e sua madre erano ricamatrici. Amo quest’arte perché è un patrimonio del mio Paese”, spiega il giovane designer Najib Belhadj, creatore del marchio “Tili Tanit”. Il suo atelier impiega cinque sarte che guadagnano 300 dinari al mese oltre ai contributi sociali (che molte aziende invece non pagano). Mentre parla, Najib espone un lungo abito nuziale interamente ricamato a mano e ricco di colori accompagnato da un gilet ricamato con filo d’argento: un abito meraviglioso il cui prezzo sfiora i mille dinari. “Quando propongo i miei capi ai clienti mi sento spesso dire che i miei prodotti sono cari. Ma non posso abbassare i prezzi -conclude Najib-. Non possono sfruttare le mie lavoratrici. Sarebbe come sfruttare mia madre o mia nonna”.

giugno 10, 2018

13 ª Festa dei popoli di Sanremo 16-23 giugno. Il primo appuntamento è con Mah Aissata Fofana




Il primo appuntamento è con Mah Aissata Fofana, poetessa e poliedrica scrittrice del Mali. Arrivata in Italia negli anni 80, laureata in traduzione presso la Scuola per Interpreti e Traduttori di Trieste, ha scritto numerosi libri per valorizzare e diffondere la cultura del proprio paese e in particolare quella femminile. 

Suo è anche il primo vocabolario Bambara-Italiano (EUT 2008). Il bambara è la lingua parlata in Senegal e Mali. 

Da anni Mah Aissata si occupa di immigrazione femminile.

Tra i suoi libri ricordiamo: La Cucina in Africa, Il Linguaggio dei Capelli in Africa, I Sette Baobab della Felicità e del Successo, Le indagini dell' ispettrice Fofy, Un popolo delle stelle, Un baobab, ll cadavere di un albino, Il cadavere sorridente, Una calebasse piangente, Un balanzan rimpicciolito.

La incontriamo sabato 16 giugno alle ore 18 nel salone parrocchiale di Piazza San Siro 49.

Per capire di più la cultura di cui Aissata Fofana è potatrice vi proponiamo una breve scheda sul suo paese, il Mali.

La Repubblica del Mali è uno dei paesi più grandi dell’Africa occidentale (1.241.142 km²,16.174.580 abitanti; capitale Bamako), più o meno come Regno Unito e Francia messi insieme. Situato nella pianura saheliana é costituito a nord dal deserto e a sud dalla savana.


La parola Sahel in arabo significa “litorale” (Sahil), nella fattispecie la fascia del deserto che va verso la savana e che attraversa tutta l’Africa da ovest ad est, coprendo Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Senegal, Sudan ed Eritrea.

Cittadini del grande Impero africano del Mali (dal XIII al XVII secolo) i maliani sono stati vittime del traffico di schiavi che ha alimentato le economie europee nelle Americhe e per circa un secolo (1864-1960) sono stati sudditi dell'impero coloniale francese.

In Mali si trova la struttura più grande del mondo in mattoni di terra. Si tratta della Grande moschea di Djenné, nel centro del Mali. Come gran parte dell'architettura del Sahel, è costruita con mattoni di fango. Data la scarsità di pietre da costruzione, in Africa Occidentale i grandi edifici venivano costruiti impastando il fango su dei tralicci di legno le cui estremità lasciate all'esterno, servono ancora oggi per effettuare il restauro dopo le grandi piogge. Il centro storico di Djenné è stato designato Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO nel 1988.


Tuareg al Desert Festival 

Il "Festival au Désert" una delle manifestazioni più popolari della world music (oltre 7mila spettatori nel 2004), è un altro evento che ha reso celebre il Mali e in particolare la città di Timbuctù. Esiliato dal 2012 a causa dell'occupazione e della guerra franco-maliana contro i jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, lo storico festival è tornato nel febbraio di quest’anno e sfida la guerra dei jihadisti

13 ª Festa dei popoli di Sanremo 16-23 giugno. Programma



Anche quest'anno Casa Africa è tra le associazioni che hanno promosso la festa
Vi aspettiamo!






maggio 31, 2018

PALESTINA. Gaza, la flottiglia della speranza





In queste ore è in partenza dal porto di Gaza una piccola flottiglia della speranza, o forse della disperazione.
L'equipaggio è di 35 persone ed è composto da feriti bisognosi di cure, studenti e laureati disoccupati. Cosa si deve fare per catturare un minuto di attenzione da parte dell'opinione pubblica internazionale per una comunità che vive, nell'indifferenza più totale, una crisi umanitaria senza precedenti, stremata da un interminabile assedio?
Inoltre, dal 30 marzo scorso (giorno in cui è iniziata la pacifica #GreatReturnMarch) i cecchini israeliani hanno causato oltre 13mila feriti, di cui moltissimi in gravi condizioni. I rapporti medici parlano di proiettili che si espandono nel corpo distruggendo i vasi sanguigni e i tessuti e costringendo spesso all'amputazione delle gambe. Molti infatti hanno dovuto subire amputazioni agli arti per l'impossibilità di interventi chirurgici specifici. E 117 sono i morti. Il sistema sanitario è paralizzato per la mancanza di farmaci e adeguate attrezzature mediche.
Ma non ci sono solo feriti sulla flottilla, ci sono anche giovani senza futuro. Il tasso di disoccupazione a Gaza è al 44%, che sale tra le donne fino al 71,5% e tra i giovani fino a 29 anni, arriva a 61,9%.
Un tentativo disperato dunque di rompere l’assedio via mare da parte di piccole barche di pescatori. La Marina israeliana è noto che apre il fuoco su chiunque si avvicini al limite deciso da Israele, tre miglia nautiche dalla costa sebbene gli Accordi di Oslo pongano il limite a 20 miglia.
Staremo ancora tutti in silenzio a guardare?

#Gaza #BreakIsraeliSiege



aprile 29, 2018

ITALIA. Il 25 aprile e la contestata Brigata Ebraica




Il 25 aprile è una festa nazionale della Repubblica Italiana che ricorre ogni anno per celebrare  la lotta di resistenza militare e politica attuata dalle forze partigiane durante la seconda guerra mondiale contro il governo fascista e l'occupazione nazista in Italia.
Il 25 aprile del 1945  il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) proclamò l'insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti indicando a tutte le forze partigiane attive del nord Italia di attaccare i presidi fascisti e tedeschi per imporre loro la resa prima dell'arrivo delle truppe alleate. Da allora, annualmente, in tutte le città italiane vengono organizzate manifestazioni pubbliche in memoria dell'evento a cui partecipano numerose associazioni antifasciste sotto l’egida dell’Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.

A partire dal 25 aprile 2004 la Comunità ebraica decide di sfilare per la prima volta con la bandiera sionista dello Stato d’Israele, ritenuto simbolo della Brigata Ebraica, anziché, come avveniva nel passato, sotto le diverse insegne delle brigate partigiane in cui gli ebrei antifascisti italiani avevano combattuto. Questa decisione viene spiegata con chiarezza sul sito “Amici di Israele”. La scelta di sfilare sotto le insegne della Brigata ebraica deriva dall'essere “stanchi di partecipare circondati da bandiere palestinesi [...] e per non farci annoverare tra la massa dei manifestanti anti-americani o anti-israeliani”. É un percorso che deve portare a “lo sdoganamento del sionismo”. “Crediamo, infatti, importante spiegare agli italiani che il sionismo è un ideale alto, nobile e giusto”.

Tale decisione viene immediatamente contestata da più parti in quanto portatrice dell'ideologia sionista che sostiene l'illegale occupazione della Palestina.
Quest’anno in particolare, anche in considerazione degli ultimi eventi sulla striscia di Gaza, più vigorose sono state le contestazioni al grido di “Palestina libera, Israele Stato Assssino”. A Roma la Comunità ebraica ha così annunciato di  non partecipare al corteo organizzato dall’Anpi a causa della presenza di una delegazione palestinese e a Bologna il rabbino Alberto Sermoneta, ha abbandonato la manifestazione nel bel mezzo del discorso di Anna Cocchi, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani.

Ma quale fu il vero ruolo della Brigata Ebraica nella lotta di liberazione partigiana contro il nazifascismo in Italia?

Un articolo pubblicato sulla pagina Facebook ,"Femminile Palestinese" che qui riportiamo ha voluto fare chiarezza distinguendo  innanzitutto l'enorme contributo di resistenza al nazifascismo dato dagli "ebrei italiani che hanno partecipato alla guerra di liberazione nelle diverse formazioni partigiane, sotto il Comitato di Liberazione Nazionale, dagli ebrei arruolati nella Brigata facente parte della 8° Armata britannica, provenienti dalla Palestina mandataria britannica.
L’articolo cita Faris Yahiaautore del libro "Relazioni pericolose" che, attingendo a fonti esclusivamente ebraiche, fa luce sui solidi rapporti fra movimento sionista, Germania nazista e fascismo. A pag. 84 del libro si legge "che la brigata più che per combattere il nazifascismo fu costituita per supportare l’idea della entità nazionale ebraica (quindi una operazione di propaganda) e per acquisire esperienza militare (questo spiegherebbe la lunga fase di addestramento). Significativamente, finita la guerra e prima di essere smantellata, la brigata si occupò della organizzazione di flussi migratori (clandestini ndr) verso la Palestina"

Riportiamo il testo dell’articolo.

“Gli ebrei combattevano contro i nazifascisti già dall’agosto 1942 inquadrati nel Palestine Regiment insieme ai Palestinesi. Altri ebrei già combattevano nelle formazioni partigiane, soprattutto “Giustizia e Libertà” e “Garibaldi”.
Oltre 1000 ebrei ebbero il certificato di “partigiano combattente”, più di 100 furono i caduti, numeri elevati se si pensa che erano solo 43.000 i cittadini di razza ebraica censiti nel ‘43 dal regime fascista. Fu un contributo molto significativo, sia in termini numerici, sia per il ruolo di primo piano che essi ebbero a livello del CLN. Ricordiamo figure come Leo Valiani, Emilio Sereni, Umberto Terracini. I sette ebrei italiani decorati di medaglia d’oro al valor militare, Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti. Infine ricordiamo Leone Ginzburg. A tutti questi ebrei va la nostra immensa gratitudine.

Ben diversa invece è la realtà della Brigata Ebraica sionista, che, come abbiamo visto, costituita nella Palestina del mandato britannico, non comprendeva ebrei italiani. Era composta da ebrei provenienti dalla Palestina storica, che sarebbe poi diventata l’attuale Israele, e da ebrei provenienti da altri paesi del Commonwealth britannico, Canada, Australia, Sud Africa e da ebrei di origine polacca e russa. Era formata da tre battaglioni di fanteria, da un reggimento di artiglieria, uno di genieri e da altre unità ausiliari per un totale di 5.500 unità. Churchill ne annuncia la creazione nel settembre 1944, dopo una lunga trattativa fra i rappresentanti del movimento sionista, l’Agenzia sionista e il governo britannico, inizialmente contrario alla costituzione di una unità militare esclusivamente ebraica.
Inquadrata nella 8° Armata britannica, dopo un periodo di addestramento in Egitto e Cirenaica, il 31 ottobre 1944 la Brigata ebraica viene imbarcata su due navi nel porto di Alessandria d’Egitto e trasferita in Italia al porto di Taranto, dove attende altri quattro mesi prima di partecipare ad alcuni scontri nella zona di Ravenna. (un addestramento notevole quindi)
L’esercito inglese non voleva che soldati ebrei provenienti dai territori del Mandato britannico in Palestina occupassero posizioni di rilievo nella Brigata, ma l’ Haganà, gruppo paramilitare sionista organizzatosi negli anni ’20 in Palestina, crea all’interno della Brigata una sua struttura segreta di comando, che viene alla luce solo a guerra finita. Per inciso ricordiamo che i membri della Brigata confluiranno poi nel futuro esercito di Israele, insieme all’Irgun, di Jabotinsky e poi di Begin, e alla banda Stern. Organizzazioni responsabili di attacchi terroristici a obiettivi britannici, arabi ed ebraici. Fra i più noti: l’esplosione sulla nave Patria nel 1940 ad opera dell’Haganà, 202 ebrei uccisi; l’attentato all’hotel King David di Gerusalemme, sede del governo mandatario inglese, nel 1946, ad opera dell’Irgun con vittime inglesi, arabe ed ebree; la repressione della rivolta araba del 1936/39, ad opera dell'Haganà insieme alle truppe inglesi, e ovviamente nel 1947-1948, la pulizia etnica della Palestina, in quello che fu definito il Piano Daletin stretta sinergia fra Haganà, Irgun e banda Stern.
Ma tornando alla Brigata, che abbiamo lasciato a Taranto in fase di addestramento, la ritroviamo in Irpinia dove continua per altri due mesi il suo addestramento per essere poi inquadrata, il 26 febbraio del 1945, nell’VIII Corpo d’Armata Britannico. Il 1° marzo 1945 la Brigata viene schierata sulla linea del fronte nei pressi di Alfonsine in Romagna e combatte con le proprie bandiere a fianco di unità italiane, la divisione Friuli del Corpo italiano di Liberazione, e la 3a divisione del Corpo di Armata Polacco. Partecipa a numerose operazioni militari a Riolo Terme, Imola, Ravenna. I 42 caduti riposano nel cimitero di Piangipane (RA). Per motivi di opportunità politica viene posta a riposo presso Brisighella, mentre la Brigata Maiella, il Gruppo Friuli e il Corpo polacco entrano a Bologna il 21 aprile del 1945.
L’apporto della Brigata sionista alla lotta di liberazione è circoscritto quindi al periodo che va dal 3 marzo al 21 aprile del 1945.
Ma la storia della Brigata sionista non termina nell’aprile del 1945.
Il 2 maggio 1945 la Brigata venne dislocata nella zona di Tarvisio, dove si dedica a due attività: 

1) il sostegno all’emigrazione clandestina di ebrei verso la Palestina.

2) l'Operazione NAKAM (vendetta):
 la ricerca di criminali nazisti nascosti in Carinzia, prelevati e uccisi sommariamente nei boschi del Tarvisano. L’operazione fu realizzata attraverso la costituzione, in seno alla Brigata, di cellule di 8-10 persone che agivano indipendentemente l’una dall’altra in tutta la Carinzia, fino al Tirolo orientale e anche a Vienna. 

Secondo la testimonianza resa nel 2009 da uno degli ultimi protagonisti, Chaim Miller ebreo viennese, residente in Israele, in visita in Carinzia e nell’alto Friuli: “Ricevevamo indicazioni sulla presenza di ex nazisti dai partigiani iugoslavi. Di giorno facevamo sopralluoghi per localizzare le persone. La nostra uniforme britannica, distinta soltanto dalla stella di David su una manica, ci permetteva di attraversare il confine e di muoverci liberamente. La cattura delle persone avveniva però all’imbrunire. Bussavamo alla porta presentandoci come polizia militare. Invitavamo le persone ricercate a seguirci al comando per essere interrogate, ma anziché al comando le portavamo in Italia dove potevamo agire senza problemi. Raggiungevamo una baita in un bosco tra Tarvisio e Malborghetto, dove la persona fermata veniva interrogata da altri componenti della cellula. Se le accuse trovavano conferma lo si fucilava sul posto, seppellendolo in una fossa che prima lo avevamo costretto a scavare”.

Il giornalista americano Howard Blum, corrispondente del New York Times e di Vanity Fair e vincitore di due premi Pulitzer, nel 2001 scrive un libro sulla Brigata ebraica e su questi eventi e sostiene che una quarantina di uomini della Brigata abbiano preso parte a queste missioni uccidendo, in meno di 4 mesi, 125 tedeschi. I calcoli dei veterani fanno oscillare le esecuzioni fra 50 e 200. In realtà l’Operazione Vendetta proseguì nella Germania occupata e in altri territori dell’Europa postbellica portando secondo alcune stime alla eliminazione di 1.500 nazisti.
Per il sostegno dato ai numerosi profughi ebrei che dall’Europa centrale si dirigevano o transitavano dall’Italia per raggiungere la Palestina, la Brigata viene in contrasto con i comandi britannici che cercano di evitare questa attività di supporto all’immigrazione clandestina. Per questo motivo, nella seconda metà dell’estate del 1945, la Brigata viene trasferita in Belgio e in Olanda dove rimane per circa un anno.

Nel luglio del 1946 a causa della tensione crescente in Palestina e del ruolo svolto dalla Brigata, il governo britannico decide di procedere al suo disarmo, alla sua smobilitazione e al rimpatrio degli ebrei nei loro paesi d’origine.

Ci pare legittimo interrogarci sul vero ruolo della Brigata nata per quale motivo? Per sostenere la resistenza contro il nazifascismo? (dal 3 marzo al 21 aprile del 1945) O piuttosto per portare avanti altre azioni, soprattutto l'operazione denominata NAKAM, (Vendetta) durata molto più tempo, per esempio, e il sostegno alla migrazione clandestina di ebrei verso la Palestina.

Infine vogliamo ricordare qui il tributo di sangue dei Palestinesi nella lotta contro il nazismo. I morti palestinesi non fanno notizia, né ora né allora. Eppure 12.446 furono i Palestinesi arruolati dal 1939 al 1945 nell’esercito inglese e 701 i caduti.”

Femminile Palestinese