Donne
e giovani di quattro regioni della Tunisia sono i protagonisti dei progetti di
economia sociale sostenuti anche dall’ong italiana Cospe. Da Tunisi a Jendouba,
tra laboratori artigianali e campi agricoli. Qui il reportage di Ilaria Sesana pubblicato da Altreconomia.
Madame
Baja Hizaoui ha sessant’anni e quattro figli. Si siede a terra, la schiena
dritta e la pesante macina di pietra posata davanti a sé. Con la mano sinistra
gira velocemente il disco superiore, con l’altra versa manciate di orzo. Separa
la pula dai chicchi fino a ottenere una farina grezza che mostra con orgoglio.
“Sono l’unica donna in tutta la regione di Jendouba che ancora fa questo tipo di lavorazione”, spiega. Questa tecnica permette
di conservare intatto il gusto e le proprietà dei cereali.
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L’interno di Maison Rayhana
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Per lungo tempo Baja ha
venduto i suoi prodotti solo ai familiari e agli abitanti del suo villaggio,
nel Nord-Ovest della Tunisia, con un guadagno minimo. Ma da quando ha iniziato a
frequentare "Maison Rayhana"-uno spazio di aggregazione per le donne
di Jenduoba e dei villaggi limitrofi- la sua vita è cambiata: non solo ha la
possibilità di incontrare altre donne, discutere dei problemi quotidiani,
trovare supporto e assistenza. Ora può vendere i suoi prodotti a un pubblico
molto più ampio. Mentre Baja illustra le qualità dei suoi prodotti, Nacyb
Allouchi, 26 anni, presidente dell’associazione, rifinisce la grafica per le
etichette di “Friga” (l’antico nome della regione di Jendouba), un marchio che
riunirà i prodotti alimentari trasformati dalle donne che
orbitano attorno a “Maison Rayhana”.
“Stiamo portando avanti un percorso di riscoperta e valorizzazione della
filiera agroalimentare di questi territori -spiega Nacyb-. Sulle etichette dei
prodotti Friga verrà raccontato non solo il prodotto, ma anche la storia di chi
lo ha realizzato e trasformato”.
Ma “Maison Rayhana” non
è solo uno spazio imprenditoriale. La casa delle donne di Jendouba è nata
sull’onda della rivoluzione del 2011,
grazie all’impegno di un gruppo di ragazze che si sono aggregate attorno a
un’esigenza: dare alle donne uno spazio dove trovarsi, parlare, confrontarsi e
progettare. Oggi l’associazione ha sede in una bella villetta con giardino: la
grande sala serve come spazio per le riunioni e le attività di formazione, una
sala più piccola e dotata di pc viene messa a disposizione delle studentesse
della zona, che possono accedere a internet a un prezzo contenuto. In un altro
locale è stata ricavata una piccola palestra riservata alle donne. “Attualmente
sono circa un centinaio quelle che frequentano le nostre attività”, spiega
Nacyb.
“Maison
Rahyana” è uno dei progetti che l’ong italiana Cospe, presente in Tunisia dagli anni Novanta,
sostiene oggi attraverso il progetto “Initiative d’emploi en economie sociale
et solidaire en Tunisie” (Iess),
lanciato nel 2014 e finanziato dall’Unione europea. L’obiettivo è promuovere
l’occupazione attraverso lo sviluppo dell’economia sociale, con un’attenzione
particolare alle iniziative imprenditoriali dei giovani e delle donne. Fra
agricoltura e turismo, trasformazione dei prodotti alimentari e artigianato, il
progetto Iess si concentra in quattro regioni particolarmente svantaggiate
della Tunisia: i governatorati di Jendouba, Kasserine, Sidi Bouzid e Mahdia.
Proprio a Sidi Bouzid, nel dicembre
2010, sono scoppiate le proteste che hanno innescato la primavera araba, la
caduta del regime di Ben Alì e l’avvio di un processo democratico nel Paese.
La rivoluzione ha
portato cambiamenti epocali nella società tunisina: nel volgere di pochi mesi
si sono aperte nuove opportunità di dibattito e di confronto, la società civile
-prima immobile e repressa- è rinata, in pochi anni sono state fondate migliaia
di associazioni. Parallelamente, si è avviato un processo democratico che ha
portato all’elezione di un’assemblea costituente, alla scrittura di una nuova
Carta fondamentale e all’alternanza democratica di governo.
Questo però non è
bastato ad avviare una svolta economica nel Paese, segnato anche da due gravi
attentati terroristici che hanno colpito il settore turistico. Nel 2012 in
Tunisia il tasso di disoccupazione ufficiale è arrivato al 17,6% per poi
scendere al 15% nel primo trimestre del 2017. E la mancanza di lavoro resta un
problema particolarmente grave per i giovani (spesso altamente scolarizzati) e
per le donne. “Una delle parole chiave della rivoluzione del 2011 è dignità”,
ricorda Alessia Tibollo, referente Cospe in Tunisia e coordinatrice del
progetto Iess. “L’economia sociale mira a dare una risposta alle istanze della
rivoluzione, una possibilità di impiego duraturo, adeguatamente retribuito e
dignitoso -spiega Tibollo-. Con il progetto Iess sosteniamo movimenti di
giovani produttori e donne che vogliono fare economia in modo diverso, mettendo
al centro la persona, la comunità e il territorio”.
Donne
come Wahida Saadi, artigiana, attivista per i diritti delle donne e anima del
progetto "Artisan Solidaire", nato
nel 2014. L’atelier occupa
tutto il primo piano di una piccola palazzina nel cuore di Kasserine: una stanza con due grossi telai è adibita a laboratorio,
mentre in una stanza più piccola vengono messi in mostra tappeti colorati,
tessuti ricamati a mano di ogni colore, cestini e tappeti realizzati con l’alfa, una fibra
vegetale resistente che cresce nella regione. “Il problema principale per le
donne artigiane della regione di Kasserine sono gli intermediari. Sfruttano il loro lavoro, pagandolo a cottimo e senza
riconoscere il giusto valore”, spiega Wahida. Costrette a lavorare da casa, in
una situazione di isolamento, le donne sono costrette ad accettare i prezzi e
le condizioni di lavoro imposte dagli intermediari. Che poi rivendono i loro
prodotti con un ampio margine.
Il costo reale per un
metro quadrato di tappeto, ad esempio, è di circa 50 dinari (17 euro):
all’artigiana che lo realizza solitamente viene pagato meno del suo valore
reale (circa 30 dinari) mentre il ricarico applicato dall’intermediario può
arrivare fino a 80 euro. “Sono le donne, con il loro lavoro, a mandare avanti
le famiglie. Ma sono sfruttate e spesso non possono uscire di casa -spiega
Wahida-. Con il progetto Artisan Solidaire diamo loro la possibilità di uscire
di casa e rendersi autonome da un punto di vista economico: un lavoro degno e
adeguatamente retribuito è essenziale per la liberazione della donna”.
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Leila Horchani sta studiando per conseguire una specializzazione sull’agricoltura biologica |
Lo sfruttamento della
manodopera femminile è ugualmente diffuso in agricoltura: le donne sono pagate a giornata (15 dinari per
otto-nove ore di lavoro) o a cottimo dai proprietari dei campi. Leila Horchani, 27 anni e un master nel settore
agroalimentare all’università di Monastir,
ha sfidato questo sistema dando vita a un progetto che oggi permette a lei e ad
altre tre donne di vivere di agricoltura e allevamento. “Non è stato facile,
non abbiamo trovato molto supporto”, spiega Leila, figlia di contadini di Sidi
Bouzid. Grazie al supporto di Cospe, Leila ha messo a punto il proprio progetto
imprenditoriale, ha fatto una valutazione sulla qualità del terreno per
individuali quali ortaggi si adattavano meglio e ha ricevuto i finanziamenti
per acquistare cinque capre (oggi ha un gregge di 35 animali) e il necessario
per un impianto di irrigazione “a goccia” che riduce al minimo gli sprechi
d’acqua. Dopo due anni di accompagnamento, oggi il progetto di Leila è ben
avviato e lei sogna di crescere ancora. “Ci sono tante donne nella zona che
vorrebbero entrare a far parte del progetto, ma in questo momento non possiamo
farlo, non abbiamo abbastanza terra -spiega-. Abbiamo affittato un campo di tre
ettari, che avvieremo l’anno prossimo. Purtroppo comprare i terreni qui in
Tunisia è molto difficile”.
Non solo
l’accesso alla terra, ma anche quello al credito è particolarmente complicato
per gli imprenditori sociali tunisini. Zaafouri Mohamed Fadhel, un giovane
ingegnere, ha avviato assieme a due colleghi un progetto di economia sociale
per il riciclaggio della plastica a Sidi Bouzid. “Non c’è una forma giuridica
che ci permetta di presentarci alle banche come impresa sociale per chiedere un
finanziamento -spiega Fadhel-. Così in questa prima fase l’ho chiesto a nome
mio”. “Manca una legge quadro che regoli l’economia sociale”, spiega Dalia
Mabrouk, direttrice esecutiva del “Polo Citess” di Mahdia. La struttura che
dirige è stata creata nel marzo 2017 e ha come obiettivo quello di fornire agli
imprenditori sociali servizi di consulenza e attività di formazione
coinvolgendo le istituzioni del territorio.
La situazione potrebbe
cambiare in tempi brevi: il governo tunisino, infatti, ha inserito l’economia
sociale nella sua “Strategia nazionale di sviluppo 2016-2020” e ha avviato un
percorso che dovrebbe portare all’approvazione di una legge quadro nei primi
mesi del 2018. “Entro fine 2017 inizierà la discussione in Parlamento -spiega
Nawel Jabbes, incaricata per l’economia sociale presso il ministero delle
Politiche agricole ed ex sindacalista-. Questa legge permetterà di dare una
definizione di economia sociale, definisce il perimetro delle realtà che ne possono
far parte e dei settori in cui può agire. Inoltre istituisce una serie di
agevolazioni fiscali e, in prospettiva, si parla anche di una sorta di ‘banca
etica’ dedicata al finanziamento di questi progetti”.
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L'atelier Tili Tanit |
Nell’attesa
che la legge diventi realtà, gli imprenditori tunisini continuano a rimboccarsi
le maniche. “Ho imparato l’arte del ricamo da mia madre. Lei, le sue sorelle e
sua madre erano ricamatrici. Amo quest’arte perché è un patrimonio del mio
Paese”, spiega il giovane designer Najib Belhadj, creatore del marchio “Tili Tanit”. Il suo atelier
impiega cinque sarte che guadagnano 300 dinari al mese oltre ai contributi
sociali (che molte aziende invece non pagano). Mentre parla, Najib espone un
lungo abito nuziale interamente ricamato a mano e ricco di colori accompagnato
da un gilet ricamato con filo d’argento: un abito meraviglioso il cui prezzo
sfiora i mille dinari. “Quando
propongo i miei capi ai clienti mi sento spesso dire che i miei prodotti sono
cari. Ma non posso abbassare i prezzi -conclude Najib-. Non possono sfruttare
le mie lavoratrici. Sarebbe come sfruttare mia madre o mia nonna”.
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