dicembre 28, 2017

NIGER. I fondi destinati a combattere la povertà usati per militarizzare il paese e controllarne le risorse



La notizia di un’imminente missione italiana militare in Niger con lo scopo di combattere il traffico di migranti e il terrorismo, annunciata ufficialmente dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni al termine del G5 Sahel  di Parigi (l’incontro tra i cinque paesi del Sahel: Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger e i capi di stato di Francia, Germania e Italia) fa accendere i riflettori su quella che è l’attuale politica dell’UE in questa zona strategica del continente africano  e sugli interessi che tale politica cela.

          Nell’articolo In Niger l’UE si traveste da benefattrice per non fare il lavoro sporco”, pubblicato nel n.11/17 di Limes, Andrea De Gregorio (Ispi Associate Research Fellow su terrorismo nel Shael), spiega come la pletora dei c.d. aiuti ‘allo sviluppo’ erogati al Niger, abbia in realtà come vero obiettivo quello bloccare i migranti e accaparrarsi le risorse di questo paese. 

“Se il binomio minaccia terroristica globale-gestione dei flussi migratori funge da pretesto per la crescente militarizzazione del Niger”, afferma De Gregorio, “gli interessi nascosti di alcune potenze mondiali qui impegnate sembrano invece rappresentare mire di natura neo-coloniale. Sfruttamento delle risorse locali (uranio, gas naturale, oro e diamanti, n.r.d.) e creazione di basi militari per il controllo di vasti territori strategici sono i veri pilastri della «corsa al Niger», una partita diventata negli ultimi mesi decisiva nella ridefinizione delle sfere d’influenza nel Sahel e, più in generale, nell’intera Africa occidentale. La pressione della Cina e di altri nuovi attori regionali, quali Sudafrica e India, sta spingendo le potenze occidentali a un rinnovato impegno militare e diplomatico in Niger...”

Francia, Stati Uniti e Germania sono gli attori principali e l’Italia non vuole rimanere indietro.


Limes, n.11/2017

           Il Niger figura fra gli Stati che sono considerati  beneficiari “prioritari” degli aiuti “allo sviluppo” stanziati dal Fondo Fiduciario di Emergenza per l’Africa (EUTF).  Tale Fondo, istituito nell’ottobre  2015 in occasione del vertice euro-africano tenutosi a La Valletta  con l’obiettivo di finanziare con rapidità iniziative per «affrontare le cause profonde delle migrazioni irregolari», ammonta ad a 2,8 miliardi di euro di cui l’80% è preso dall’European Development Fund (FES), il fondo principale per gli aiuti europei allo sviluppo il quale vede conseguentemente ridotte le sue capacità d’azione nel lungo periodo.

Sviamento di fondi

           In tal modo quest’ultimo fondo, che per la legge europea dovrebbe essere deputato alla lotta alla povertà e allo sviluppo sostenibile per affrontare sfide di tipo strutturale  e di lungo periodo dei Paesi africani, viene usato per un intento sostanzialmente politico, quello di porre un freno al fenomeno migratorio nel breve periodo. Ciò che avviene attraverso una vera e propria militarizzazione del paese che, in ultima analisi, appare destinata al controllo del territorio e delle risorse.

Questo denaro, infatti, va a finire per la fornitura di attrezzature militari, la formazione di forze di polizia, l’istituzione di centri di detenzione per migranti e sistemi per la raccolta di dati biometrici, anziché per scuole, acqua potabile, assistenza sanitaria, etc. 


Di fatto – come denuncia un rapporto di Global Health Advocates - alcuni paesi hanno aumentato il proprio bilancio per la sicurezza e la difesa, a discapito di investimenti in settori chiave come istruzione e salute. In Niger il Fondo Monetario Internazionale ha registrato che nel 2015, quando è stata approvata, sotto pressione dei partner europei, una legge ad hoc sulla lotta al traffico di migranti sono stati tagliati i fondi per la salute e l’educazione e dirottati sulle politiche di sicurezza.

La piaga della corruzione: corrotti e corruttori

        Una deviazione di fondi quella attuata dal Fondo Fiduciario di Emergenza fortemente criticata dal Parlamento Europeo che ne ha denunciata la poca trasparenza e ha inoltre messo in guardia circa l'invio di denaro verso Stati autoritari e corrotti.

Durante la conferenza ad alto livello "per un Nuovo Partenariato con l'Africa", organizzata dal Parlamento europeo il 22 novembre scorso ad una settimana dal quinto Vertice Africa–Ue di Abidjan, il filantropo multimiliardario sudanese Mohammed ‘Mo’ Ibrahim ha messo il dito nella piaga della corruzione. “Noi africani -ha detto- siamo consapevoli delle nostre responsabilità. Sappiamo che questa è la nostra battaglia, ma da parte vostra abbiamo bisogno di più trasparenza. Un politico africano di certo non si corrompe da solo, no?” (v.p.es. il caso "uranium-gate" che ha coinvolto Areva). Ha quindi spiegato che se l’Europa non si decide a combattere l’esistenza dei paradisi fiscali dove i governanti africani nascondono i propri soldi e i casi di corruzione di quegli stessi governanti da parte dei “businessman europei”, un partenariato tra Europa e Africa è praticamente inutile. Nonostante le più buone intenzioni.

Una forma di neocolonialismo

        Il rapporto di monitoraggio sul Fondo Fiduciario d’Emergenza per l’Africa pubblicato quest’anno da CINI (Coordinamento Italiano NGO Internazionali) e  CONCORD (Network delle ONG in Europa per lo sviluppo e l’emergenza) mette in rilievo quali sono i punti critici della gestione del Fondo che viene per lo più attuata secondo una tipica logica neocoloniale. Ciò a conferma della reale finalità del Fondo, destinato a soddisfare più gli interessi europei che a combattere la povertà dei paesi africani. Infatti, si legge nel rapporto:  

“I progetti (finanziati dal Fondo n.r.d.) sono ideati direttamente dagli Stati membri e a Bruxelles, riflettendo le priorità nazionali europee.

Il processo di selezione non è trasparente e soggetto a pressioni da parte degli Stati membri, che spingono per l’ammissione a finanziamento dei propri progetti.

I fondi ritornano quindi negli Stati e nelle loro agenzie di attuazione.

Inoltre, spesso, soprattutto nelle fasi iniziali, diversi progetti possono risultare lontani dai bisogni locali e privi di una visione a tutto tondo.

Gli attori locali sono raramente consultati, e comunque questo avviene solo quando le decisioni sono già state prese”


Effetti distorsivi in termini di sviluppo

           Il risultato di tale gestione, conclude il rapporto citando i casi studio sulla Libia e sul Niger, è che la politica dell’EUTF, contestata oltretutto dalla maggioranza delle organizzazioni della società civile africane, può generare gravi effetti avversi in termini di sviluppo, di tutela dei diritti umani e della stessa gestione delle migrazioni. I progetti, essendo frutto delle priorità politiche dei paesi europei, rischiano di alimentare governi inadeguati, di incoraggiare attività di contrabbando e traffico di esseri umani più rischiose per i migranti, di facilitare le politiche di detenzione e violazione dei diritti umani, di limitare l’impatto economico positivo della migrazione regolare e di impedire ai rifugiati di accedere alla protezione di cui hanno bisogno.

Viene infine sottolineato come  la parola “emergenza” cui fa riferimento il Fondo Eutf sia una contraddizione in termini, dato che  la vera emergenza in Africa e in particolare in Niger è lo sviluppo e la lotta alla povertà che non possono essere risolti rapidamente, ma richiedono  processi di lungo periodo e soluzioni di carattere strutturale.

Leggi anche:

Lettera43. Quel rapporto che critica gli aiuti UE ai paesi africani

Affarinternazionali. UE/Africa: aiuti allo sviluppo merce di scambio

Affarinternazionali. Africa/UE: Vertice di Abidjan, la prima volta sub-sahariana

mg


novembre 12, 2017

MIGRAZIONI. L'italia è giuridicamente responsabile dell'azione libica nel Mar Mediterraneo



Nell'articolo che qui pubblichiamo, l' ASGI, Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, spiega le ragioni per cui l'Italia va considerata, oltre che moralmente e politicamente, giuridicamente responsabile dei respingimenti messi in atto dalle autorità libiche nel Mediterraneo verso la Libia dove i migranti sono sottoposti a detenzione e  torture. 
Si tratta di una forma di esternalizzazione delle frontiere e cioè dell'appalto alle autorità libiche del controllo delle nostre frontiere e delle politiche di respingimento, attuato in aperta violazione di norme imperative di diritto internazionale. Violazione per cui L'Italia è già stata condannata in passato dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), organo giurisdizionale del Consiglio d'Europa (organizzazione estranea all'Unione Europea e da con confondere con il Consiglio Europeo).  
Ecco il testo dell'articolo:
"Quanto accaduto il 6 novembre nel Mediterraneo centrale conferma l’idea già sostenuta dall’Asgi in tante altre occasioni: la Guardia Costiera libica e le autorità libiche non sono interlocutori affidabili, né tanto meno hanno la possibilità o la volontà di effettuare operazioni di ricerca e salvataggio con le attrezzature fornite dall’Italia. Essi costituiscono, invece, lo strumento cui Italia e Ue hanno appaltato le politiche di respingimento dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa.
E’ importante sottolineare che l’episodio si inserisce all’interno del coordinamento da parte del Comando Generale di Guardia Costiera italiano di una operazione di ricerca e salvataggio, evidentemente gestita senza il rispetto e le precauzioni della Convenzione di Amburgo del 1979.
Inoltre, tutti sanno che i migranti che si imbarcano in condizioni così precarie lo fanno per necessità, cercano di trovare rifugio da violenze e condizioni degradanti che subiscono in Libia e prima ancora nei loro paesi: tale circostanza è stata anche accertata recentemente dalla Corte di Assise di Milano. Ciononostante è proprio in Libia che essi sono respinti per essere nuovamente sottoposti a detenzione ed a torture, nonostante le autorità italiane abbiano positiva e diretta conoscenza delle torture e delle violazioni dei diritti delle persone ai quali sono sottoposti i migranti nei centri di detenzione in Libia.


E’ importante sottolineare, peraltro, che ciò avviene esclusivamente grazie ed in esecuzione del finanziamento e dei mezzi, anche navali, forniti dall’Italia alla Libia in esecuzione dell’accordo stipulato lo scorso 2 febbraio dal governo Gentiloni con Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj; dunque per attuare uno dei tanti accordi e partenariati stipulati dall’Italia, spesso senza alcun controllo parlamentare ed in spregio all’art. 80 Cost., con governi dittatoriali o istituzioni fantoccio (tra i quali anche il Sudan, il Niger, l’Afghanistan, la Turchia), totalmente incapaci di garantire l’incolumità e i diritti delle persone.
Lo stesso Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha chiesto al governo italiano, con nota del 28 settembre scorso, chiarimenti in merito a tali respingimenti e alla natura dell’accordo con la Libia: la risposta del Ministro dell’interno italiano, On.le Minniti (per il quale non è l’Italia a respingere le persone, ma la Libia) risulta essere sostanzialmente vuota e certamente irrispettosa a fronte della conoscenza delle reali politiche di delega, aiuto e supporto dell’Italia alla Libia e al contemporaneo ostacolo posto alle attività di ricerca e salvataggio in mare da parte delle ONG operanti nel Mediterraneo centrale.
Occorre, dunque, certamente ricordare le responsabilità della Libia in quanto occorso. Al contempo, tuttavia, occorre sottolineare la responsabilità dell’Italia e dell’Unione Europea per quanto avvenuto il 6 novembre o in occasioni similari, perché tali eventi si generano solo grazie alla delega delle attività di respingimento da loro fornita alla Libia, al loro coordinamento pratico, alle loro politiche, alla fornitura di mezzi finanziari e risorse strumentali, dunque grazie all’aiuto e al sostegno alla commissione di crimini da parte della Libia o di altri regimi non democratici.
La responsabilità dell’Italia per la violazione (tra gli altri) degli artt. 3, 5, 8 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, del principio di non refoulement e di numerose norme di diritto internazionale anche a tutela dei rifugiati non è solo morale e politica, ma altresì giuridica, derivando dalla violazione della Costituzione italiana e dalla normativa internazionale sulla responsabilità degli Stati nella violazione del diritto internazionale (cfr. art. 16 del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati).
L’Italia, invero, altro non fa che delegare i respingimenti, le torture ed i trattamenti inumani alla Libia con prassi già condannata dalla Cedu con la nota sentenza Hirsi contro Italia.
Diviene dunque improcrastinabile e necessario attuare una seria revisione della politica in materia di immigrazione che ponga quale prioritaria l’esigenza di tutelare la vita e la dignità delle persone.
Per fare questo l’Unione Europea e l’Italia devono, quantomeno:
  1. Rivedere le politiche di chiusura delle frontiere dell’Unione, perché ciò costringe le persone nelle mani di trafficanti senza scrupoli, eassicurare il principio di libertà di circolazione delle persone, consentendo l’ingresso delle persone straniere in Italia in condizioni di sicurezza e garantendo un idoneo titolo di soggiorno temporaneo in vista della possibile integrazione sociale e lavorativa e, solo a seguito di un ragionevole periodo di tempo, prevedere la possibilità di revocarlo o non rinnovarlo dando luogo alle politiche di rimpatrio;
  2. Disdettare accordi e partenariati con Stati (o loro presunti rappresentanti) che non garantiscano i diritti umani e non siano firmatari delle principali convenzioni internazionali in materia. Italia ed Ue non devono delegare l’uso della forza e di trattamenti inumani a tali Stati o a compagini straniere al fine di limitare o impedire il diritto di una persona o un richiedente asilo di lasciare un certo paese per accedere agli ordinamenti democratici europei;
  3. Abbandonare l’utilizzo di forze marittime o militari armate straniereper limitare o impedire il diritto di lasciare un certo paese da parte di migranti e richiedenti asilo. Non fornire assistenza a paesi africani o di altre regioni che impediscono alle persone di lasciare i loro paesi di nazionalità o di residenza abituale o, comunque, a paesi i cui regimi non siano democratici;
  4. Abbandonare definitivamente l’ideadi potere definire alcun paese come “sicuro” a meno che tale paese : a) preveda nella sua legislazione e nella prassi la possibilità di riconoscere lo status di rifugiato o uno status ad esso equivalente secondo quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967; b) garantisca un regime giuridico e procedurale tale da escludersi la possibilità che un migrante non sia rimpatriato in un paese che sia o sia stato recentemente scenario di conflitti armati e violenza indiscriminata nei confronti dei civili, nonché ove vi siano seri rischi di violazione dei diritti umani fondamentali, o la loro vita o la loro libertà potrebbero essere posti in pericolo, anche a seguito di persecuzioni, torture o trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti; c) riconosca, assicuri e protegga il diritto al lavoro dei rifugiati e delle persone a esse assimilate, sia pur con permessi temporanei; d) riconosca, assicuri e protegga il diritto alla salute e all’istruzione e fornisca l’accesso ai servizi sociali delle stesse persone, in condizioni di parità con i propri cittadini; e) riconosca, assicuri e protegga le libertà fondamentali e la sicurezza delle stesse persone.
  5. Contribuire alla riforma del Regolamento Dublino, perfezionando il testo approvato dalla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento Europeo, che riforma profondamente il Regolamento n. 604/2013.
In ogni caso al fine di contrastare l’attuale politica italiana ed europea che arma e sostiene le autorità libiche e liberticide, l’ASGI ha articolato una serie di iniziative anche giudiziarie tra cui la notifica di un ricorso al Tribunale Amministrativo del Lazio contro il Ministero degli Affari Esteri e del Ministero dell’Interno, di cui si darà completa notizia la prossima settimana, quando il ricorso sarà depositato presso l’autorità giudiziaria".

Testo originale: ASGI

Leggi anche:  su Internazionale: Perché l’accordo tra l’Italia e la Libia sui migranti è sotto accusa.

mg

settembre 11, 2017

AFRICA. Un corpo vivo dalle vene aperte: il sistema della fatturazione mendace delle multinazionali.




In questo articolo, pubblicato su Avvenire e che qui riportiamo, Francesco Gesualdi rende manifeste, con numeri alla mano, le modalità con cui le multinazionali saccheggiano le ricchezze dell’Africa, il continente più ricco e più affamato del mondo.





"Evocando lo «sbarco» di migliaia di africani sulle nostre coste, c’è chi non si fa scrupolo a definire l’Africa un parassita che vive alle spalle della nostra generosità. È davvero così? Uno studio pubblicato da Global Justice Now e da varie altre organizzazioni britanniche, sotto il titolo emblematico "Conti onesti 2017" (Honest Accounts 2017), dimostra che ancora oggi l’Africa elargisce al mondo più ricchezza di quanta ne riceva.

L’anomalia si nota fin dai primi numeri citati dal dossier: nel 2015 il continente ha ricevuto 31 miliardi di dollari per rimesse degli emigranti, ma contemporaneamente ne ha persi 32 per espatrio di profitti da parte delle imprese estere operanti sul suo territorio. Nello stesso anno, ha ricevuto 19 miliardi di dollari come "aiuto allo sviluppo", ma ne ha restituiti 18 per interessi su prestiti pregressi.

Gli esborsi più gravosi, tuttavia sono quelli illegittimi. Ad esempio si stima che tramite il sistema della fatturazione mendace, ogni anno le multinazionali trasferiscano abusivamente 67 miliardi di dollari dall’Africa ai vari paradisi fiscali. Per non parlare del commercio illegale di legname, pesce e specie protette che complessivamente procura al continente una perdita annua di 28 miliardi di dollari. Per finire, il rapporto britannico inserisce fra le perdite altri 36 miliardi di dollari spesi per fronteggiare i cambiamenti climatici provocati dai Paesi ricchi.

La conclusione è che nel 2015 a fronte di introiti finanziari per 161 miliardi di dollari, l’Africa ha avuto un esborso di 202 miliardi, risultando un creditore netto per 42 miliardi di dollari. Ognuna delle pratiche abusive di spoliazione del continente ha gravi ripercussioni sulla condizione economica e sociale delle popolazioni.

Ma una delle forme più odiose è rappresentata dalla sotto-fatturazione dei beni esportati, perché provoca ammanchi importanti alle casse degli Stati di origine. Il sistema, ampiamente collaudato, consiste nella vendita di minerali, petrolio o derrate alimentari con una doppia fatturazione. La prima, emessa dall’impresa produttrice verso una filiale del gruppo localizzata in un paradiso fiscale, ha lo scopo di fare uscire ricchezza dai Paesi di origine dichiarando prezzi inferiori a quelli reali, in modo da pagare poche tasse e bassi diritti di estrazione. La seconda, emessa dalla filiale collocata nel paradiso fiscale verso il cliente finale, ha lo scopo di fatturare a prezzi reali e magari anche più alti in modo da trattenere i guadagni dove c’è una bassa tassazione dei redditi.

A quanto ammonti il gettito fiscale perso dagli Stati africani a causa della fatturazione mendace, nessuno lo sa di preciso, ma uno studio condotto dall’istituto Global Financial Integrity relativo al 2008-2010 stima che la perdita complessiva del periodo esaminato sia stata dell’ordine di 38 miliardi di dollari, all’incirca il 2% della spesa pubblica dell’intero continente. Ma se possibile, la situazione è anche peggiore.

Nel 2016, quando apparvero i documenti relativi a Panama, si seppe che una sola multinazionale aveva sottratto alla Stato ugandese 404 milioni di dollari, due volte e mezzo ciò che il Paese spende ogni anno per la sanità pubblica.

L’Africa è forse il continente più ricco del mondo per risorse naturali. Solo per citare il caso della Repubblica Democratica del Congo, le sue ricchezze minerarie sono stimate in 24mila miliardi di dollari. Ma l’Africa è anche il continente con la maggiore incidenza di poveri, affamati, denutriti, analfabeti. Semplicemente perché è un corpo vivo dalle vene aperte e saccheggiate da poteri internazionali irresponsabili in accordo con altrettanto irresponsabili élite locali.

Da tutto questo discende che, se vogliamo porre fine al caos migratorio, non è con i migranti che dobbiamo prendercela, ma con chi in troppi Paesi rende la vita così difficile da costringere alla migrazione forzata. Un punto irrinunciabile è la lotta ai paradisi fiscali. La battaglia si può e si deve vincere, ma per riuscirci, per prima cosa, dobbiamo smettere di scambiare le vittime per i carnefici."

agosto 31, 2017

Vandana Shiva: la crescita economica crea povertà


Vandana Shiva è un’attivista politica e ambientalista indiana che si è battuta per cambiare pratiche e paradigmi nell'agricoltura e nell'alimentazione; si è occupata anche di questioni legate ai diritti sulla proprietà intellettuale, alla biodiversità, alla bioetica, alle implicazioni sociali, economiche e geopolitiche connesse all'uso di biotecnologie, ingegneria genetica. È tra i principali leader dell'International Forum on Globalization.

Vi proponiamo questo suo articolo pubblicato nel sito del Centro Studi Sereno RegisPiù sotto inseriamo anche il video del famoso discorso sul PIL tenuto nel marzo del 1968 da Robert Kennedy tre mesi prima di essere ucciso.

Il PIL o Prodotto Interno Lordo, è risultato essere il concetto dominante dei nostri tempi. Tanto da ritenerlo il metro di misura del benessere delle nazioni. La crescita senza limiti, una fantasia di economisti, uomini d’affari e politici, è invece vista come sinonimo di progresso. Questo nonostante crei povertà attraverso la distruzione sia della natura che della capacità di intere comunità di auto-sostentarsi. La “crescita” ed il PIL si basano sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, assumendo che se consumi ciò che produci, allora non produci. In effetti, la “crescita” misura la conversione della natura in denaro, e dei beni comuni in merci.

I sorprendenti cicli di rinnovamento della natura, come quello dell’acqua, non sono visti come produttivi. Secondo il paradigma della “crescita”, i contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono, e le donne che svolgono la maggior parte del lavoro non lavorano. Una foresta vivente che cresce non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono uccisi, abbattuti e venduti come legname, allora abbiamo crescita. Società e comunità sane non contribuiscono alla crescita, mentre la malattia crea la crescita attraverso gli ospedali e le vendite di medicine brevettate.
L’acqua disponibile come bene comune, condivisa liberamente e tutelata da tutti non genera “crescita”, ma quando un’azienda produttrice di bibite gassate crea piantagioni, estrae l’acqua e la mette in bottiglie di plastica, c’è crescita economica. Eppure l’acqua estratta oltre le capacità della natura di rinnovare e rigenerare crea carestie idriche, e le donne percorrono distanze più lunghe alla ricerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada, in Kerala, quando il cammino per l’acqua arrivò a 10km, Mylamma, una donna di una tribù locale, disse “quando è troppo è troppo: non possiamo camminare di più. Lo stabilimento della bibita gassata deve chiudere”. E il Movimento che le donne attivarono portò alla chiusura dello stabilimento.
L’evoluzione ci ha donato i semi, e quelli che i contadini hanno selezionato  coltivato e diversificato per secoli che sono alla base della produzione di cibo. I semi che si rinnovano e moltiplicano autonomamente producono quelli per la stagione successiva. Ciononostante il seme conservato e coltivato dal contadino è considerato non contribuire alla crescita: crea e rinnova la vita, ma non porta a un profitto. La crescita comincia quando il seme è geneticamente modificato e brevettato, ai contadini è proibito conservare le sementi e sono costretti ad acquistarne di nuove ogni stagione. La natura è impoverita e la biodiversità erosa. I contadini sono impoveriti dato che i semi, da risorsa libera e gratuita, sono trasformati in una merce brevettata. L’acquisto di sementi ogni anno è una ricetta per il debito dei contadini più poveri dell’India, e da quando i monopoli delle sementi sono stati creati, i debiti dei contadini sono aumentati. In India, oltre 284.000 contadini caduti nella trappola del debito si sono suicidati, da quando le sementi sono state privatizzate e monopolizzate, nel 1995.
La privatizzazione dell’acqua, dell’elettricità, della sanità, dell’istruzione genera crescita e profitti. Ma genera anche povertà, costringendo le persone a spendere grandi somme di denaro per ciò che, come bene comune, era invece disponibile e aveva costi accessibili. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più caro, e la gente diventa più povera.
Ecologia ed economia hanno la stessa radice, “oikos”, che è il termine greco che indica l’uso domestico, la casa, la famiglia. Fino a quando l’economia si concentrava su questi aspetti, ha rispettato le loro basi poste sulle risorse naturali, sui limiti del rinnovamento ecologico. Si concentrava sul soddisfare i bisogni umani all’interno di questi limiti, e l’economia basata sulla casa e la famiglia era incentrata sulle donne.
Oggi, l’economia è separata dai processi ecologici e si oppone ai bisogni primari. Mentre la distruzione della natura è stata giustificata dalla creazione di crescita, per la maggior parte delle persone la povertà e le espropriazioni sono aumentate. Oltre ad essere insostenibile, ciò è economicamente ingiusto. Pur essendo promosso come “sviluppo economico”, tutto questo porta al sottosviluppo, e mentre prevede crescita minaccia la vita stessa.
Il modello dominante dello “sviluppo economico” è in effetti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flussi di denaro, infatti, le disuguaglianze crescono: i ricchi diventano più ricchi, i poveri più poveri. E i ricchi possono essere tali in termini monetari, ma sono anche poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani.

discorso sul PIL tenuto nel marzo del 1968 da Robert Kennedy tre mesi prima di essere ucciso

La domanda di risorse dell’attuale modello economico porta anche alla guerra per le risorse: guerre per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre per il cibo. Ci sono tre livelli di violenza nello sviluppo non-sostenibile: il primo è la violenza contro la Terra, che è espresso attraverso la crisi ecologica; il secondo è la violenza contro le persone, espresso attraverso la povertà, la miseria e le dislocazioni; il terzo è la violenza della guerra, dato che i potenti si accaparrano le risorse di altre nazioni più deboli a causa del loro illimitato appetito e della loro smania di crescita illimitata.
Ho assistito più e più volte alla mercificazione delle risorse delle persone e alla commercializzazione delle loro economie. E quando ciò accade, il flusso di denaro dalla società aumenta, così come il deflusso dalla natura e dalle persone verso gli interessi commerciali delle multinazionali. L’economia del denaro cresce, ma l’economia della natura e quella delle persone si riducono.
La crescita della circolazione di denaro attraverso il PIL è ormai completamente dissociata dal valore reale delle cose, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono pretendere di contare sulle risorse reali delle persone – le loro terre e acque, le loro foreste e sementi. Il denaro “famelico” sta predando l’ultima goccia d’acqua e l’ultimo centimetro di terra sul pianeta. Non è la fine della povertà, è la fine dei diritti umani e della giustizia. Le persone sono diventate oggetti che si possono gettare via, in un mondo in cui il denaro comanda e ha rimpiazzato i valori umani che avevano portato alla sostenibilità, alla giustizia e alla dignità umana.
È per questo che nazioni come il Bhutan hanno adottato la Felicità Nazionale Lorda invece del Prodotto Interno Lordo, come metro di misura del proprio benessere. Persino economisti come Joseph Stiglitz e Amartya Sen hanno ammesso che il PIL non coglie la condizione umana.
Abbiamo bisogno di creare parametri che vadano oltre il PIL, economie che vadano oltre il supermercato globale, che riscoprano la vera ricchezza e l’autentico benessere. Abbiamo bisogno di ricordare che la vera moneta della vita è la vita stessa.
mg

luglio 31, 2017

TUNISIA. Approvata la legge integrale contro la violenza di genere





Il 26 luglio scorso il Parlamento Tunisino ha approvato all'unanimità la legge integrale contro la violenza di genereOggi il parlamento tunisino è composto dal 34% di donne.


Frutto delle battaglie e delle mobilitazioni che la società civile e i movimenti femminili hanno condotto durante tutto l’iter che ha portato alla sua approvazione questa legge implementa il principio di non discriminazione sancito dagli articoli 21 e 46 della nuova Costituzione, approvata il 26 gennaio 2014 dall'Assemblea Nazionale Costituente con un consenso quasi plebiscitario.

Si tratta di 43 articoli destinati a contrastare ogni forma di violenza (fisica, morale e sessuale) basata sul genere attraverso misure efficaci di prevenzionepunizione dei colpevoli e protezione delle vittime.

Sono previsti programmi di formazione per il personale medico affinché sia in grado di riconoscere valutare e prevenire casi di violenza. Sono altresì instaurati programmi specifici sul tema dell’uguaglianza di genere nel settore dell’insegnamento per il corpo insegnante nelle scuole.

Si prevede la necessità di predisporre case rifugio e servizi di sostegno legale e psicologico per le vittime di violenza.

La legge riconosce che il problema della violenza sussiste dentro e fuori le mura domestiche. Le donne potranno chiedere protezione dalle violenze del marito e dei familiari (ordini di restrizioni) come anche potranno sporgere denuncia per molestie in luoghi pubblici. Con la nuova legge i molestatori per la prima volta vengono multati.

Dopo un vero e proprio braccio di ferro tra progressisti e conservatori viene riscritto l’art. 227bis del codice penale che prevedeva il matrimonio riparatore cioè il “perdono” per gli stupratori in caso di matrimonio con la vittima.

Una norma questa dettata a salvaguardia dell’”onore della famiglia” a cui le giovani  difficilmente riescono a sottrarsi in quanto la violenza è uno stigma e un disonore che ricade sulla donna, non più vergine e destinata a restare nubile, anziché sul maschio delinquente. Di fatto in virtù di tale norma i giudici e la famiglia hanno sempre preferito "giungere a un accordo" col violentatore per  "evitare lo scandalo" piuttosto che punire.

Una norma che codice penale marocchino ha provveduto a cancellare già nel 2014, a seguito dello scalpore che suscitò nell'opinione pubblica la tragica morte di Amina, la sedicenne che si suicidò dopo che fu data in sposa al suo stupratore.

In Italia il “matrimonio riparatore” fu abrogato nel 1981.

Il nuovo articolo 227bis del codice penale tunisino cancella il matrimonio riparatore e prevede per chi abbia rapporti con una minore di 16 anni anche se consenziente la pena di 6 anni di carcere.

L’età della maturità sessuale al di sopra della quale si riconosce la validità del consenso viene elevata da 13 a 16 anni.


mg



aprile 28, 2017

Progetto AISHA. Le donne musulmane contro la violenza e la discriminazione di genere.




Domenica 23 aprile Casa Africa ha organizzato ad Imperia un incontro con Progetto AISHA.

Si tratta di un progetto pilota, unico in Italia, che vuole promuovere progetti gemelli sul territorio nazionale.

Nel corso dell’incontro la relatrice, dott. Bianca Guarino, del direttivo di Progetto Aisha, ha illustrato le ragioni per cui è nata l’associazione, le sue finalità e come si articola la sua attività.

Progetto Aisha nasce in grembo alla comunità islamica, il CAIM (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano, Monza e Brianza), con l’obiettivo operare sul tema della violenza e della discriminazione di genere, con focus  particolare sulle donne musulmane.







Perché un focus particolare sulle donne musulmane?






Le ragioni, ci spiega Progetto AISHA, sono molteplici e tra queste le più rilevanti sono:

·  "Barriere linguistiche: incapacità di comunicare con immediatezza alle autorità giudiziarie, forze dell’ordine e servizi sociali i disagi causati da qualunque forma di violenza subita.
·   Barriere culturali: concezione differente dei ruoli afferiti agli enti giudiziari, alle forze dell’ordine e i servizi sociali (paese d’origine vs Italia).
·  Timore da parte della vittima di non essere capita, compresa e considerata la sua appartenenza culturale e religiosa.
·   Retaggi tradizionali: giustificazione da parte di alcune tradizioni delle violenze di genere a causa di interpretazioni fuorvianti e obsolete rispetto alla garanzia e la tutela dei diritti fondamentali del genere umano.
·   Isolamento sociale: assenza totale di contatti con l’esterno la cui causa la si può ritrovare nei punti sopraindicati.
·   Inoltre riconosciamo in maniera del tutto trasversale che l’assenza di una rete sociale è determinata da azioni da parte del partner, in una dimensione di coppia, volte a sradicare qualunque forma di contatto tra la vittima e il mondo esterno.
·    Paura: timore della diffamazione, disapprovazione sociale e stigmatizzazione. Rientra la questione dei retaggi tradizionali e la considerazione e i valori attribuiti alla figura della donna oltre la non conoscenza delle istituzioni territoriali, garanti della tutela e la protezione delle donne"


Di fatto, come mette in rilievo Progetto AISHA, a causa dei fattori sociali sopraindicati, le donne musulmane che non denunciano le violenze o la loro discriminazione sono un numero significativo.
 



L’attività di Progetto AISHA è molto articolata e si svolge su diversi livelli che tengono conto della specificità del vissuto delle donne musulmane.







1-    Sensibilizzazione, tra cui, in particolare, va messa in rilievo:

· l’attività che vuole stimolare un processo di riflessione interna alla comunità islamica riguardo il tema violenza e discriminazione contro le donne, frutto di retaggi culturali e interpretazioni estremiste che vanno contro i principi della tutela della persona sanciti nella tradizione islamica.

2-    Formazione, tra cui, in particolare, vanno messe in rilievo le seguenti iniziative:

- i corsi di formazione rivolti agli Imam e responsabili dei centri islamici per insegnare loro come riconoscere una violenza e/o discriminazione, come assistere chi ne è vittima, e come avviare le procedure di aiuto;
-  i corsi di educazione all'affettività e al rispetto della parità di genere rivolti ai giovani;
i corsi che trattano gli elementi dottrinali che rifiutano la violenza sulle donne e la loro discriminazione, individuando i retaggi culturali o interpretazioni che invece giustificano la violenza e o la discriminazione contro le donne;

3-    Assistenza e prevenzione, tra cui, in particolare, segnaliamo:

la formazione di mediatori linguistici e culturali destinati ai Centri o Enti che operano sul tema;
- la creazione di uno o più punti di ascolto e orientamento in strutture pubbliche e/o private e/o presso Centri Islamici e moschee del territorio;
- la promozione di incontri rivolti ai genitori per sensibilizzare e prevenire i matrimoni forzati e le mutilazioni genitali femminili grazie al contributo di Imam ed esperti del settore.
 




Tutte queste attività vengono svolte nell'ambito di 
5 Dipartimenti:






Dipartimento Assistenza
Dipartimento salute e benessere
Dipartimento per l’empowerment / micro imprenditorialità
Dipartimento sensibilizzazione e prevenzione
Dipartimento Formazione

Vanno poste in rilievo le funzioni svolte dal dipartimento salute e benessere, destinato ad attivare interventi mirati al fine di sviluppare nelle donne assistite una migliore gestione cognitiva ed emotiva dei vissuti drammatici attraverso la cura e il sostegno psicologico con percorsi di psicoterapia, arteterapia, e omeopatia.

Nonché quelle del dipartimento per l’empowerment / micro imprenditorialità, finalizzato alla promozione e realizzazione di percorsi per l’indipendenza economica femminile, veicolo necessario contrastare e prevenire la violenza di genere e facilitare l’integrazione sociale.
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