febbraio 28, 2017

SUDAN. I conflitti in Sudan: etnia o economia?

Prima della secessione del Sud, la Repubblica del Sudan, stato dell'Africa subsahariana,  era il più grande stato del continente africano, con una superficie pari a 2.505.810 km².(circa 9 volte l’Italia) e 40milioni di abitanti[1]. Dopo la secessione la sua superficie venne ridotta a 1 886 068 km², ed è diventato il terzo stato per superficie del continente africano (dopo l'Algeria e la Repubblica Democratica del Congo). Ne fa parte la regione occidentale e semidesertica del Darfur[2].

Il 9 luglio del 2011 la regione meridionale del paese diventava stato indipendente col nome di Repubblica del Sudan del Sud dopo un referendum nel quale il 98,8% della popolazione votava a favore della secessione.

Il referendum era parte di un accordo di pace, il Comprehensive Peace Agreement (2005) che aveva posto fine a 22 anni di guerra civile tra il governo centrale del Sudan e il movimento ribelle del Sud (il Sudan People's Liberation Movement/Army, SPLAM) per l’accaparramento delle risorse petrolifere scoperte nella parte sudoccidentale del paese agli inizi degli anni ottanta.  Una guerra iniziata nel maggio del 1983, costata circa 2 milioni di morti e  più di 4 milioni di sfollati, in larghissima parte sfollati interni[3].

Nel 2013, come si dirà in seguito, è nato un conflitto fra opposte fazioni all’interno del neostato del Sud, conflitto che ha già prodotto decine di migliaia di morti e circa un milione e mezzo di sfollati[4]. Attualmente una grave carestia provocata soprattutto dai danni all'agricoltura causati dalla guerra civile rischia di far morire letteralmente di fame. centinaia di persone. Così hanno dichiarato le Nazioni Unite il 20 febbraio scorso[5].

La contesa delle risorse petrolifere

Nelle semplificazioni mediatiche la guerra civile in Sudan è da sempre un conflitto tra le popolazioni arabe e musulmane del nord e quelle nere e cristiano-animiste del sud. In sostanza, un conflitto etnico e soprattutto religioso. In realtà, la guerra civile che ha insanguinato  il più grande paese del continente africano, è principalmente un conflitto per le risorse, in particolare per una risorsa strategica: il petrolio. Ancora una volta, in Africa, una risorsa che potrebbe essere una ricchezza per la popolazione si trasforma in una maledizione. La situazione sudanese è complessa, a causa di interessi locali, regionali e internazionali, che si intrecciano e si influenzano a vicenda, ma che ruotano essenzialmente intorno ad un problema di fondo: lo sfruttamento e la destinazione finale del greggio sudanese (così SMA, Società delle Missioni Africane [6]).

I conflitti che Nord e Sud hanno sperimentato fin dall’epoca post-coloniale (un primo conflitto iniziato nel 1956 dopo l’indipendenza è terminato nel 1972) e che trovavano la loro ragione d’essere nella situazione di marginalizzazione economica e politica del Sud e nelle conseguenti recriminazioni di discriminazioni nello sfruttamento delle risorse locali,  con la scoperta del petrolio avvenuta negli anni ottanta si sono andati via via aggravando grazie anche all’ingresso sulla scena di partner internazionali.

 Manovre e interessi stranieri

La secessione del Sud, in cui si trova l’80% del petrolio sudanese, è stata fortemente sponsorizzata dall’occidente pur rappresentando un’eccezione assoluta al principio dell’intangibilità delle frontiere ereditate dal colonialismo, principio sancito dalla Carta dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) nel 1963 e confermato nel 1964 dai capi di stato e di governo africani al Cairo.

Il Sud Sudan è nato con una forte apertura di credito da parte della comunità internazionale, Stati Uniti in testa, ed è stato il terzo beneficiario dell’aiuto americano dopo l’Afghanistan e il Pakistan[7].

Washington è stata tra i principali sostenitori del SPLAM, il fronte armato dei secessionisti del Sud Sudan ed ha  supportato dagli anni ’90 in poi una coalizione di stati filo-occidentali a maggioranza cristiana ostili al Sudan, quali Uganda, Kenya ed Etiopia, per contrastare l’influenza di Khartoum. Con la deflagrazione del conflitto nella regione occidentale sudanese del Darfur (2003), collegato a sua volta al conflitto nel Sudan meridionale, anche i mass media e alcune organizzazioni non-governative statunitensi hanno concentrato la loro attenzione su ciò che stava accadendo in Sudan, provocando una grande partecipazione emotiva nell’opinione pubblica statunitense e occidentale[8].

L’appoggio ugandese e americano allo SPLAM e agli altri movimenti di opposizione sudanesi è stato decisivo per il loro successo politico-militare. È quindi lecito affermare che in quanto stato il Sud Sudan è in buona misura figlio dell’ingerenza degli Stati Uniti negli affari africani, i quali nel nome di interessi geostrategici (contrasto dell’influenza della Cina, principale acquirente del petrolio del Sudan) e della politica di interventismo umanitario ha sacrificato il consolidato principio della non-modificabilità delle frontiere africane, creando un precedente pericoloso per la stabilità politica del continente[9].

La Cina un temibile concorrente

La Repubblica del Sudan è tra i governi africani quello che ha maggiormente aperto i propri mercati e il proprio territorio alla Cina. Pechino ha ottenuto concessioni miliardarie per l’estrazione e lo sfruttamento del petrolio in particolare nel sud del paese dove sono concentrate le maggiori riserve petrolifere (circa i tre quarti). Inoltre in tutto il paese la Cina sta costruendo strade, dighe, ponti, e a Khartoum, la capitale, fioriscono cavalcavia, edifici, snodi autostradali, in gran parte realizzati da imprese cinesi. La Chinese National petroleum corporation (CNPC), compagnia petrolifera statale è attiva in Sudan dal 1996[10].

Questa apertura al concorrente cinese non è stata ovviamente gradita agli occidentali che hanno visto progressivamente mettere fuori gioco le proprie imprese multinazionali, di qui l’appoggio ai secessionisti del Sud.

La Cina rappresenta un concorrente pericoloso per le imprese occidentali stante la diversa strategia che utilizza nei rapporti con l’Africa fondata su tre pilastri “la narrazione su una storia condivisa, la creazione di un’alleanza internazionale e lo scambio commerciale”. Coerentemente alla sua strategia la Cina è riuscita a conquistare la fiducia di molti paesi africani, dimostrando di conseguire condizioni reciprocamente vantaggiose per mezzo di investimenti, scambi commerciali, aiuti, assistenza per l’agricoltura, ecc.

“La Cina offre all’Africa modalità di sviluppo e finanziamento alternative all’Occidente, senza interferenze nella politica interna e rispettosa della sovranità nazionale (contrariamente agli aiuti occidentali concessi in cambio di aggiustamenti strutturali talvolta dimostratisi disastrosi). Il modello cinese si concentra sui diritti economici, piuttosto che su quelli politici, sulla deregolamentazione graduale guidata dallo stato e ai fini di una maggiore concorrenza interna e, infine, sul contestuale impegno a investire nel settore pubblico, sotto forma di infrastrutture, sanità e istruzione Nel complesso si può concludere che nelle relazioni contemporanee tra Cina e Africa i benefici reciproci sembrano prevalere. L’Africa è riuscita ad esempio guadagnare tecnologia, prodotti, competenze, posti di lavoro e imprese” (cosi CeSEM, Centro studi “Eurasia-Mediterraneo”[11])

Il Sud Sudan, uno stato nato morto

Il  Sud Sudan occupa circa un quarto della superficie di quello che è oggi il Sudan e detiene circa tre quarti delle riserve di petrolio dell’intero paese. Tuttavia è uno stato che deve fare i conti con grossi limiti geografici e infrastrutturali: una nazione senza sbocchi al mare e con una rete di trasporti praticamente inesistente. Non solo, anche le infrastrutture per il trattamento e il transito del petrolio si trovano a Nord, e piani alternativi che prevedono la costruzione di un oleodotto che termini in Kenya, a Lamu, sono ancora in fase preliminare. Il paese inoltre neppure ha certezza dei propri confini, la cui delimitazione non è stata ancora concordata definitivamente. In particolare i due stati si contendono la regione di Abyei situata a cavallo dei loro confini e ricca di giacimenti petroliferi[12].

Il Sud Sudan ha quindi sancito la propria indipendenza in condizioni socio-economiche assai precarie, tanto che vi è il timore che il paese ben presto possa diventare uno stato fallito. 

In un articolo pubblicato l’8 gennaio 2011, Domenico Quirico, inviato de La Stampa, così descriveva la situazione del Sud Sudan alla vigilia dell’indipendenza: “Lo diventerà una capitale questa Juba di argilla, senza luce elettrica, senza condutture per l’acqua, senza fogne né strade, dove persino i pomodori sono importati...l’America, grande regista di questa nascita di una nazione non si è fatta spaventare da una rischiosa autodeterminazione affidata a elettori che escono dall’età della pietra...”

Dal conflitto Nord-Sud a quello interno nel Sud Sudan

I contrasti con il vicino del Nord per il petrolio si erano appena sopiti (i negoziati sul tracciato esatto del confine non sono però ancora conclusi), quando alla fine del 2013 sono sorti contrasti interni tra due fazioni (armate) del partito al potere nel Sud, l’una guidata dal presidente Salva Kiir, l’altra dal vicepresidente Riek Machar. Ne è nato un conflitto violento, che ha via via preso le pieghe di uno scontro etnico, visto che il presidente e i suoi seguaci sono in maggioranza di etnia dinka, mentre il gruppo facente capo a Machar è di etnia nuer. Per preservare i propri interessi i due contendenti hanno fatto leva sulle rispettive appartenenze etniche e regionali e così la distribuzione della ricchezza e l’accesso al potere politico ed economico sono stati ridefiniti sul calco di antiche divisioni[13].

Dopo una lunga e turbolenta mediazione internazionale sotto l'egida dell'IGAD-PLUS (una formazione rinforzata dell'IGAD che prevedeva la partecipazione di rappresentanti dell'Unione Africana, Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia, Cina ed Unione Europea), le parti hanno firmato di malavoglia un accordo di pace nell'agosto 2015. Tuttavia gli scontri sono continuati sino al fragilissimo cessate il fuoco dichiarato nel luglio del 2016 ma ripetutamente violato[14].

Si teme quindi che la popolazione civile, già colpita pesantemente dalle conseguenze del conflitto, tra cui il recente conclamato stato di carestia, possa divenire sempre più oggetto di rappresaglie da parte di milizie che, come purtroppo spesso accade, non distinguono tra truppe combattenti e civili disarmati

Etnia o economia?

Nell’articolo “Etnia o economia? I nuovi conflitti in Africa nel caso del Sud Sudan”, presentato a conclusione del corso “Dal Peacekeeping al Peacebuilding: gestire i conflitti per costruire la pace” presso la Scuola di Aggiornamento e Alta Formazione “Giuseppe Arcaroli” di Roma e pubblicato nella rivista del Centro Studi Difesa Civile, Matteo Landricina (PhD) così spiega le ragioni che portano i commentatori occidentali a leggere i conflitti africani in chiave etnica:

"Con la svolta etnica che sembra avere preso il conflitto armato tra le due fazioni politico-militari dello SPLA la situazione in Sud Sudan è rientrata, dal punto di vista del racconto mediatico, nell’alveo, inquietante ma tutto sommato più “confortevole” per i media, dell’etnicismo. Inizialmente, quando nei mesi dopo l’indipendenza le milizie del neonato Sud Sudan si scontravano con l’esercito di Khartoum a causa delle dispute sulla linea di demarcazione del confine tra i due stati, non c’era altro modo di analizzare la problematica che dal punto di vista economico: i due paesi, rivali storici, si contendevano il controllo dei giacimenti di petrolio situati a cavallo della frontiera. L’interpretazione economicista dei conflitti africani tuttavia risulta sgradevole alle orecchie dell’opinione pubblica dei paesi industrializzati. Sapere che in paesi poverissimi, che sono stati in epoca moderna colonizzati dalle potenze imperialiste europee, le popolazioni civili soffrono a causa di scontri per il controllo di materie prime che vanno poi ad alimentare le economie dei paesi ricchi, può creare problemi di coscienza e sollevare critiche al modello vigente delle relazioni internazionali e dell’economia globale. È molto più “rassicurante” pensare alle guerre africane come a qualcosa dovuto ad odi innati, atavici, “etnici” per l’appunto, cioè legati ad ostilità tribali e di sangue che affondano le proprie radici in un passato pre-storico da cui l’Africa, continente dell’arretratezza per antonomasia, non si è a quanto pare mai liberato. Ragionare in questi termini libera i paesi industrializzati, ad Occidente ma anche ad Oriente, dalle proprie responsabilità" [15].

"Con ciò non si vuole affermare che l’odio che si scatena tra gruppi etnici, che magari hanno vissuto insieme per decenni o addirittura per secoli, non sia reale. La storia europea ci insegna che è relativamente facile per i dirigenti di un paese in difficoltà economica o politica istigare le masse ad odiare minoranze (o maggioranze) identificate per appartenenza etnico-razziale, culturale o sociale. È necessario però ricordare che l’etnicismo è principalmente uno strumento manipolativo in contesti di povertà diffusa e grandi disuguaglianze, oltre ad essere una chiave di lettura “facile” per i mass media internazionali, perché relegando i conflitti in questione nella sfera dell’irrazionale pre-moderno, libera le opinioni pubbliche dal compito sgradevole di riflettere sulle cause più profonde di tali dispute" (ibid).