Prima della secessione del Sud, la Repubblica del Sudan,
stato dell'Africa subsahariana, era il
più grande stato del continente africano, con una superficie pari a 2.505.810
km².(circa 9 volte l’Italia) e 40milioni di abitanti[1].
Dopo la secessione la sua superficie venne ridotta a 1 886 068 km², ed è
diventato il terzo stato per superficie del continente africano (dopo l'Algeria
e la Repubblica Democratica del Congo). Ne fa parte la regione occidentale e
semidesertica del Darfur[2].
Il 9 luglio del 2011 la regione meridionale del paese
diventava stato indipendente col nome di Repubblica del Sudan del Sud dopo un
referendum nel quale il 98,8% della popolazione votava a favore della
secessione.
Il referendum era parte di un accordo di pace, il
Comprehensive Peace Agreement (2005) che aveva posto fine a 22 anni di guerra civile
tra il governo centrale del Sudan e il movimento ribelle del Sud (il Sudan
People's Liberation Movement/Army, SPLAM) per l’accaparramento delle risorse
petrolifere scoperte nella parte sudoccidentale del paese agli inizi degli anni
ottanta. Una guerra iniziata nel maggio
del 1983, costata circa 2 milioni di morti e
più di 4 milioni di sfollati, in larghissima parte sfollati interni[3].
Nel 2013, come si dirà in seguito, è nato un conflitto fra
opposte fazioni all’interno del neostato del Sud, conflitto che ha già prodotto
decine di migliaia di morti e circa un milione e mezzo di sfollati[4]. Attualmente una grave carestia provocata soprattutto dai danni
all'agricoltura causati dalla guerra civile rischia di far morire letteralmente
di fame. centinaia di persone. Così hanno dichiarato le Nazioni Unite il 20
febbraio scorso[5].
La contesa delle risorse petrolifere
Nelle semplificazioni mediatiche la guerra civile in Sudan è
da sempre un conflitto tra le popolazioni arabe e musulmane del nord e quelle
nere e cristiano-animiste del sud. In sostanza, un conflitto etnico e
soprattutto religioso. In realtà, la guerra civile che ha insanguinato il più grande paese del continente africano, è
principalmente un conflitto per le risorse, in particolare per una risorsa
strategica: il petrolio. Ancora una volta, in Africa, una risorsa che potrebbe
essere una ricchezza per la popolazione si trasforma in una maledizione. La
situazione sudanese è complessa, a causa di interessi locali, regionali e
internazionali, che si intrecciano e si influenzano a vicenda, ma che ruotano
essenzialmente intorno ad un problema di fondo: lo sfruttamento e la destinazione
finale del greggio sudanese (così SMA, Società delle Missioni Africane [6]).
I conflitti che Nord e Sud hanno sperimentato fin dall’epoca
post-coloniale (un primo conflitto iniziato nel 1956 dopo l’indipendenza è
terminato nel 1972) e che trovavano la loro ragione d’essere nella situazione
di marginalizzazione economica e politica del Sud e nelle conseguenti recriminazioni
di discriminazioni nello sfruttamento delle risorse locali, con la scoperta del petrolio avvenuta negli
anni ottanta si sono andati via via aggravando grazie anche all’ingresso sulla scena
di partner internazionali.
Manovre e interessi stranieri
La secessione del Sud, in cui si trova l’80% del petrolio
sudanese, è stata fortemente sponsorizzata dall’occidente pur rappresentando
un’eccezione assoluta al principio dell’intangibilità delle frontiere ereditate
dal colonialismo, principio sancito dalla Carta dell’Organizzazione dell’Unità
Africana (OUA) nel 1963 e confermato nel 1964 dai capi di stato e di governo
africani al Cairo.
Il Sud Sudan è nato con una forte apertura di credito da
parte della comunità internazionale, Stati Uniti in testa, ed è stato il terzo
beneficiario dell’aiuto americano dopo l’Afghanistan e il Pakistan[7].
Washington è stata tra i principali sostenitori del SPLAM,
il fronte armato dei secessionisti del Sud Sudan ed ha supportato dagli anni ’90 in poi una
coalizione di stati filo-occidentali a maggioranza cristiana ostili al Sudan,
quali Uganda, Kenya ed Etiopia, per contrastare l’influenza di Khartoum. Con la
deflagrazione del conflitto nella regione occidentale sudanese del Darfur
(2003), collegato a sua volta al conflitto nel Sudan meridionale, anche i mass
media e alcune organizzazioni non-governative statunitensi hanno concentrato la
loro attenzione su ciò che stava accadendo in Sudan, provocando una grande
partecipazione emotiva nell’opinione pubblica statunitense e occidentale[8].
L’appoggio ugandese e americano allo SPLAM e agli altri
movimenti di opposizione sudanesi è stato decisivo per il loro successo
politico-militare. È quindi lecito affermare che in quanto stato il Sud Sudan è
in buona misura figlio dell’ingerenza degli Stati Uniti negli affari africani,
i quali nel nome di interessi geostrategici (contrasto dell’influenza della
Cina, principale acquirente del petrolio del Sudan) e della politica di
interventismo umanitario ha sacrificato il consolidato principio della
non-modificabilità delle frontiere africane, creando un precedente pericoloso
per la stabilità politica del continente[9].
La Cina un temibile
concorrente
La Repubblica del Sudan è tra i governi africani quello che
ha maggiormente aperto i propri mercati e il proprio territorio alla Cina.
Pechino ha ottenuto concessioni miliardarie per l’estrazione e lo sfruttamento
del petrolio in particolare nel sud del paese dove sono concentrate le maggiori
riserve petrolifere (circa i tre quarti). Inoltre in tutto il paese la Cina sta
costruendo strade, dighe, ponti, e a Khartoum, la capitale, fioriscono
cavalcavia, edifici, snodi autostradali, in gran parte realizzati da imprese
cinesi. La Chinese National petroleum corporation (CNPC), compagnia petrolifera
statale è attiva in Sudan dal 1996[10].
Questa apertura al concorrente cinese non è stata ovviamente
gradita agli occidentali che hanno visto progressivamente mettere fuori gioco
le proprie imprese multinazionali, di qui l’appoggio ai secessionisti del Sud.
La Cina rappresenta un concorrente pericoloso per le imprese
occidentali stante la diversa strategia che utilizza nei rapporti con l’Africa
fondata su tre pilastri “la narrazione su una storia condivisa, la creazione di
un’alleanza internazionale e lo scambio commerciale”. Coerentemente alla sua
strategia la Cina è riuscita a conquistare la fiducia di molti paesi africani,
dimostrando di conseguire condizioni reciprocamente vantaggiose per mezzo di
investimenti, scambi commerciali, aiuti, assistenza per l’agricoltura, ecc.
“La Cina offre all’Africa modalità di sviluppo e
finanziamento alternative all’Occidente, senza interferenze nella politica
interna e rispettosa della sovranità nazionale (contrariamente agli aiuti
occidentali concessi in cambio di aggiustamenti strutturali talvolta
dimostratisi disastrosi). Il modello cinese si concentra sui diritti economici,
piuttosto che su quelli politici, sulla deregolamentazione graduale guidata
dallo stato e ai fini di una maggiore concorrenza interna e, infine, sul
contestuale impegno a investire nel settore pubblico, sotto forma di
infrastrutture, sanità e istruzione Nel complesso si può concludere che nelle
relazioni contemporanee tra Cina e Africa i benefici reciproci sembrano
prevalere. L’Africa è riuscita ad esempio guadagnare tecnologia, prodotti,
competenze, posti di lavoro e imprese” (cosi CeSEM, Centro studi
“Eurasia-Mediterraneo”[11])
Il Sud Sudan, uno
stato nato morto
Il Sud Sudan occupa
circa un quarto della superficie di quello che è oggi il Sudan e detiene circa
tre quarti delle riserve di petrolio dell’intero paese. Tuttavia è uno stato
che deve fare i conti con grossi limiti geografici e infrastrutturali: una nazione
senza sbocchi al mare e con una rete di trasporti praticamente inesistente. Non
solo, anche le infrastrutture per il trattamento e il transito del petrolio si
trovano a Nord, e piani alternativi che prevedono la costruzione di un
oleodotto che termini in Kenya, a Lamu, sono ancora in fase preliminare. Il
paese inoltre neppure ha certezza dei propri confini, la cui delimitazione non
è stata ancora concordata definitivamente. In particolare i due stati si
contendono la regione di Abyei situata a cavallo dei loro confini e ricca di
giacimenti petroliferi[12].
Il Sud Sudan ha quindi sancito la propria indipendenza in
condizioni socio-economiche assai precarie, tanto che vi è il timore che il paese ben
presto possa diventare uno stato fallito.
In un articolo pubblicato l’8 gennaio 2011, Domenico Quirico, inviato de La Stampa, così descriveva la situazione del Sud Sudan alla vigilia dell’indipendenza: “Lo diventerà una capitale questa Juba di argilla, senza luce elettrica, senza condutture per l’acqua, senza fogne né strade, dove persino i pomodori sono importati...l’America, grande regista di questa nascita di una nazione non si è fatta spaventare da una rischiosa autodeterminazione affidata a elettori che escono dall’età della pietra...”
In un articolo pubblicato l’8 gennaio 2011, Domenico Quirico, inviato de La Stampa, così descriveva la situazione del Sud Sudan alla vigilia dell’indipendenza: “Lo diventerà una capitale questa Juba di argilla, senza luce elettrica, senza condutture per l’acqua, senza fogne né strade, dove persino i pomodori sono importati...l’America, grande regista di questa nascita di una nazione non si è fatta spaventare da una rischiosa autodeterminazione affidata a elettori che escono dall’età della pietra...”
Dal conflitto
Nord-Sud a quello interno nel Sud Sudan
I contrasti con il vicino del Nord per il petrolio si erano
appena sopiti (i negoziati sul tracciato esatto del confine non sono però
ancora conclusi), quando alla fine del 2013 sono sorti contrasti interni tra
due fazioni (armate) del partito al potere nel Sud, l’una guidata dal
presidente Salva Kiir, l’altra dal vicepresidente Riek Machar. Ne è nato un
conflitto violento, che ha via via preso le pieghe di uno scontro etnico, visto
che il presidente e i suoi seguaci sono in maggioranza di etnia dinka, mentre
il gruppo facente capo a Machar è di etnia nuer. Per preservare i propri
interessi i due contendenti hanno fatto
leva sulle rispettive appartenenze etniche e regionali e così la distribuzione
della ricchezza e l’accesso al potere politico ed economico sono stati
ridefiniti sul calco di antiche divisioni[13].
Dopo una
lunga e turbolenta mediazione internazionale sotto l'egida dell'IGAD-PLUS (una formazione rinforzata dell'IGAD che prevedeva la
partecipazione di rappresentanti dell'Unione Africana, Stati Uniti, Regno
Unito, Norvegia, Cina ed Unione Europea), le parti hanno firmato di malavoglia
un accordo di pace nell'agosto 2015. Tuttavia gli scontri sono
continuati sino al fragilissimo cessate il fuoco dichiarato nel luglio del 2016
ma ripetutamente violato[14].
Si teme quindi che la popolazione civile, già colpita
pesantemente dalle conseguenze del conflitto, tra cui il recente conclamato stato
di carestia, possa divenire sempre più oggetto di rappresaglie da parte di
milizie che, come purtroppo spesso accade, non distinguono tra truppe
combattenti e civili disarmati
Etnia o economia?
Nell’articolo “Etnia o
economia? I nuovi conflitti in Africa nel caso del Sud Sudan”, presentato a
conclusione del corso “Dal Peacekeeping
al Peacebuilding: gestire i conflitti per costruire la pace” presso la
Scuola di Aggiornamento e Alta Formazione “Giuseppe Arcaroli” di Roma e
pubblicato nella rivista del Centro Studi Difesa Civile, Matteo Landricina
(PhD) così spiega le ragioni che portano i commentatori occidentali a leggere i
conflitti africani in chiave etnica:
"Con la svolta etnica che sembra avere preso il conflitto
armato tra le due fazioni politico-militari dello SPLA la situazione in Sud
Sudan è rientrata, dal punto di vista del racconto mediatico, nell’alveo,
inquietante ma tutto sommato più “confortevole” per i media, dell’etnicismo.
Inizialmente, quando nei mesi dopo l’indipendenza le milizie del neonato Sud
Sudan si scontravano con l’esercito di Khartoum a causa delle dispute sulla
linea di demarcazione del confine tra i due stati, non c’era altro modo di
analizzare la problematica che dal punto di vista economico: i due paesi,
rivali storici, si contendevano il controllo dei giacimenti di petrolio situati
a cavallo della frontiera. L’interpretazione economicista dei conflitti
africani tuttavia risulta sgradevole alle orecchie dell’opinione pubblica dei
paesi industrializzati. Sapere che in paesi poverissimi, che sono stati in
epoca moderna colonizzati dalle potenze imperialiste europee, le popolazioni
civili soffrono a causa di scontri per il controllo di materie prime che vanno
poi ad alimentare le economie dei paesi ricchi, può creare problemi di
coscienza e sollevare critiche al modello vigente delle relazioni
internazionali e dell’economia globale. È molto più “rassicurante” pensare alle
guerre africane come a qualcosa dovuto ad odi innati, atavici, “etnici” per
l’appunto, cioè legati ad ostilità tribali e di sangue che affondano le proprie
radici in un passato pre-storico da cui l’Africa, continente dell’arretratezza
per antonomasia, non si è a quanto pare mai liberato. Ragionare in questi
termini libera i paesi industrializzati, ad Occidente ma anche ad Oriente, dalle
proprie responsabilità" [15].
"Con ciò non si vuole affermare che l’odio che si scatena tra
gruppi etnici, che magari hanno vissuto insieme per decenni o addirittura per
secoli, non sia reale. La storia europea ci insegna che è relativamente facile
per i dirigenti di un paese in difficoltà economica o politica istigare le
masse ad odiare minoranze (o maggioranze) identificate per appartenenza etnico-razziale,
culturale o sociale. È necessario però ricordare che l’etnicismo è
principalmente uno strumento manipolativo in contesti di povertà diffusa e
grandi disuguaglianze, oltre ad essere una chiave di lettura “facile” per i
mass media internazionali, perché relegando i conflitti in questione nella
sfera dell’irrazionale pre-moderno, libera le opinioni pubbliche dal compito
sgradevole di riflettere sulle cause più profonde di tali dispute" (ibid).
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