Sono trascorsi più di dieci mesi dall'inizio di questa guerra "umanitaria" e a causa di un inquietante blackout dell'informazione poco si sa su che cosa sta succedendo sul campo di battaglia, salvo che ha già prodotto morte, centinaia di migliaia i profughi e aggravato le condizioni di vita miserabili del popolo maliano nonché dei paesi vicini costretti ad accogliere i rifugiati, in particolare la Mauritania.
La barbara uccisione
di due giornalisti francesi, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, avvenuta il 2 Novembre scorso nel Nord del paese, ha riportato per un momento l’interesse dei media su
questa guerra in cui la verità pare destinata a restare nascosta e il diritto all'informazione sconfitto.
AFRICANISTAN
Iniziata unilateralmente dalla Francia l’11 gennaio scorso
con l’operazione Serval la guerra aveva ufficialmente l’obiettivo “umanitario” di
rispondere alla richiesta di intervento da parte del Governo del Mali (governo peraltro provvisorio a seguito del colpo
di stato militare del marzo 2012) per far fronte alla possibile avanzata di
gruppi islamici operanti nel nord del paese che avevano preso il controllo
dell’Azawad, regione dichiarata indipendente nell’aprile del 2012 dal movimento indipendentista MNLA (Movimento
nazionale di liberazione dell’Azawad) dei Tuareg. Un gruppo etnico di origine berbera che costituisce il 6% della popolazione del Mali e che da anni si batte per ottenere condizioni di vita più degne e contro l’impatto devastante per
l’ambiente causato dall’estrazione di Uranio nella regione.
Di fatto l’Azawad
in cui operano tali gruppi è
una regione strategica ed estremamente importante per la Francia in quanto
situata a nord del paese in prossimità di Arlit, città del Niger in cui opera la società francese AREVA per l’estrazione dell’Uranio, minerale da cui dipende la
produzione dell’energia nucleare così come il programma di armamenti nucleari
francesi.
Peraltro così giustificava la necessità dell'intervento militare l’economista e banchiere francese Jacques Attali in un articolo del maggio del 2012: “Non possiamo essere
indifferenti davanti alla catastrofe umanitaria che si annuncia... perché
questa regione può diventare un avamposto per la formazione di
terroristi e kamikaze che presto cominceranno ad aggredire gli interessi
occidentali, sia nella regione, sia, servendosi di numerosi canali di accesso,
in Europa. Per ora sono poche centinaia: ma se non si interviene, saranno
presto diverse migliaia, convenuti dal Pakistan, dall'Indonesia e dall'America
Latina. E i giacimenti di uranio del
Niger, essenziali alla Francia, sono lì a due passi».
Un intervento quindi quello della Francia che sembra ricalcare le orme
dell’azione internazionale che l'aveva vista in prima fila in Libia
nel 2011 a difendere i suoi interessi neo-coloniali con la cosiddetta
“Françafrique”. Del resto la guerra in Libia, o almeno il suo epilogo,
costituisce l’antefatto di questa guerra per il peso e gli stretti legami che
il governo libico (Gheddafi) aveva con i paesi subsahariani e con gli stessi gruppi ribelli e per le conseguenze che la destabilizzazione del paese, una volta concluso il conflitto, ha prodotto sul Mali, da considerarsi "vittima collaterale del conflitto libico" (così Aminata Traoré).
Di fatto poi gli arsenali del conflitto libico divenuti privi di controllo hanno finito
per armare i gruppi contro cui questa guerra viene condotta.
Presentata inizialmente come “guerra lampo”, per
l’importanza degli equilibri geopolitici e degli interessi commerciali che sono
in gioco (l’intera regione che abbraccia il nord del Mali, Mauritania e Niger è
stata definita un nuovo eldorado) non solo sembra destinata a durate ancora a
lungo ma minaccia di ampliare il suo raggio di azione ben al di là dei confini
del Mali, tanto che si parla di Africanistan.
Ciò sembra trovare conferma nell’adozione da parte dell’ONU nello scorso luglio di una tra le più importanti missioni di
“peacekeeping” (MINUSMA) con la messa in campo di circa 12.000 uomini.
La Francia, da parte sua, dopo aver comunicato per ben due volte il ritiro delle proprie truppe ha infine deciso di lasciare sul campo un contingente “su base permanente” come ha dichiarato il 5 aprile scorso Laurent Fabius, Ministro degli Esteri.
La Francia, da parte sua, dopo aver comunicato per ben due volte il ritiro delle proprie truppe ha infine deciso di lasciare sul campo un contingente “su base permanente” come ha dichiarato il 5 aprile scorso Laurent Fabius, Ministro degli Esteri.
LE RADICI DEL CONFLITTO E IL LEGAME
CON LE CAUSE DI IMPOVERIMENTO DELL'AFRICA
Una popolazione di poveri nel "nuovo eldorado" saccheggiato da potenze straniere"
La compagnia petrolifera francese Total, ha definito la
regione compresa tra Mauritania, Niger e Mali come un nuovo “Eldorado” per la
grande ricchezza del suo sottosuolo. La regione è un importante snodo di passaggio di gas e
petrolio; il Niger è quarto produttore mondiale di Uranio e la presenza di oro
porta il Mali ad essere il terzo produttore africano e undicesimo mondiale. Una
parte di Africa quindi dove si giocano grandi interessi
occidentali e che, negli ultimi anni, è diventata anche di grande interesse
economico di altre potenze, in particolare della Cina.
Ben poco di tali ricchezze arrivano
però alla popolazione. Il Mali è alla 182° posizione su 186 paesi nell’ Indice dello Sviluppo Umano UNPD del 2013.
Le statistiche più recenti indicano che le donne mettono al
mondo 6,5 figli, di cui uno su sei muore
prima di arrivare all’età di 6 anni; la morte per parto colpisce una
donna su 200; 9 case su 10 non hanno elettricità, 19 su 20 non hanno la rete
fognaria; tre quarti dei bambini che hanno più di 7 anni non frequentano la scuola. Nell’ultimo decennio c’è stato un incremento
continuo della disuguaglianza sociale, di quella regionale (le famiglie di Gao, Timbuktu e Kidal della regione di
Azawad) hanno la metà del reddito di quelle di Bamako) e della crescita del numero di poveri.
"La miseria morale e materiale di giovani diplomati, di contadini, di allevatori e di altri gruppi vulnerabili costituisce il vero fermento di rivolte e ribellioni" (così Aminata Traoré)
Cittadini del grande Impero africano del Mali (dal XIII al XVII secolo) i maliani sono stati vittime del
traffico di schiavi che ha alimentato le economie degli Europei nelle Americhe
e per circa un secolo (1864-1960) sono stati sudditi dell'impero coloniale francese.
Paul Vigné d'Octon, medico della Marina
che accompagnò nel 1898 una colonna di fanteria incaricata di consolidare il
controllo francese sulla regione ha lasciato questo resoconto della presa di
Sikasso (a sud est della capitale Bamako): “Tutti
vengono catturati o uccisi. Tutti i prigionieri, circa 4.000 sono ammassati
come in un gregge. […] Ogni europeo riceveva una donna che sceglieva […]. Sulla
strada del ritorno, abbiamo fatto tappe di 40. km con i prigionieri. I bambini
e tutti coloro che si stancano vengono uccisi con i calci dei fucili e con le
baionette”.
Le conseguenze disastrose dei piani di aggiustamento strutturale
I programmi di aggiustamento strutturale (SAP) sono quei cambiamenti delle politiche
economiche nazionali che il Fondo Monetario Internazionale (FMI)
e la Banca Mondiale impongono ai paesi in via di sviluppo come condizione
per ricevere finanziamenti o per ottenere tassi d'interesse inferiori sui
finanziamenti in essere.
Una politica comunemente richiesta negli aggiustamenti
strutturali riguarda la privatizzazione delle industrie e delle risorse di
proprietà statale. Apparentemente, questa politica mira a incrementare
l'efficienza e gli investimenti, nonché a diminuire la spesa pubblica.
Si tratta di politiche che comportano, in nome della libertà di mercato e al fine di stimolare l'iniziativa e l'imprenditorialità, una drastica riduzione delle spese sociali e lo smantellamento delle industrie statali. Quasi ovunque vengono abbandonati gli esperimenti di collettivismo o di ''deconnessione'' dal mercato e si arriva quindi a uno sviluppo che finisce per rafforzare i vincoli con il Nord.
I critici (autorevoli come Joseph Stiglitz, economista statunitense già Senior Vice President e Chief Economist della Banca Mondiale) hanno condannato le richieste di privatizzazione. Quando le risorse vengono trasferite a società straniere e/o a élite nazionali, l'obiettivo della pubblica prosperità è infatti rimpiazzato con l'obiettivo dell'accumulazione privata. Inoltre, le imprese di proprietà statale possono anche avere bilanci in perdita perché assolvono un ruolo sociale più ampio, come la fornitura di servizi pubblici capaci di garantire lo sviluppo socio economico delle fasce più deboli della popolazione e, quindi, in prospettiva, la crescita economica dell’intero paese.
Di fatto i
piani di aggiustamento strutturale hanno avuto conseguenze disastrose per il
Mali, traducendosi nella privatizzazione massiccia delle aziende del paese a
beneficio delle imprese multinazionali, in prima linea quelle francesi, e nel graduale
impoverimento del paese. Ciò ha fatto aumentare in modo esponenziale il peso del debito
estero che gli aiuti finanziari dovevano invece ridurre.
Il debito estero che nel 1968 era di 55 miliardi Fcfa (vecchi franchi) nel 2005 era già salito a 1.766 miliardi.
Il debito estero che nel 1968 era di 55 miliardi Fcfa (vecchi franchi) nel 2005 era già salito a 1.766 miliardi.
"Il meccanismo del debito
estero è il meccanismo che in un certo senso costringe i Paesi del Sud del
mondo a fare rapina del loro ambiente del quale, però, beneficiamo tutti
noi"(Alexander Langer).
Approfondimenti
Eurasia. Mali: le ragioni dell'intervento occidentale
Reset. Mali, i nuovi scenari tra Francia, Algeria e Qatar
Osservatorioiraq. La guerra in Mali e l'uranio del Niger
Manthia Diawara, "Qual'è l'interesse del Mali?", in Scienzaepace Università di Pisa
Jean Batou, "Mali: un'operazione neo-coloniale mascherata da intervento contro i terroristi", in Z Net Italy
La Pulce di Voltaire. Gheddafi sconfitto a causa del Sahel: segreti della guerra di Libia
Andrea Ranelletti, "A che punto siamo in Mali", in Meridiani Relazioni internazionali online
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