luglio 30, 2012

ISLAM E FEMMINISMO. Seminario. Interventi


Raffaella  ROGNONI
Presidente DONNE IMPRESA LIGURIA di CONFARTIGIANATO


Gli stereotipi

Buongiorno a tutte e tutti,
desidero innanzi tutto ringraziare per l’invito a partecipare a questo incontro , che è già esempio di rottura dello stereotipo e di apertura .
Che cos’è uno stereotipo ?
Lo stereotipo è un insieme di credenze, rappresentazioni ipersemplificate della realtà e opinioni rigidamente connesse tra di loro, che un gruppo sociale associa a un altro gruppo. L’uso della parola risale al 1700, quando veniva utilizzata dai tipografi per indicare la riproduzione, tramite lastre fisse, delle stampe. Il termine (dal greco stereòs=rigido e tòpos=impronta). L’etimologia della parola ci da subito l’idea della generalizzazione messa in atto .
Ragionare in termini di generalizzazioni è naturale per noi, anzi in alcuni casi è funzionale. Ciò ci permette di sintetizzare le informazioni che prendiamo dal mondo esterno. E’ però importante verificare se il concetto che generalizziamo ci permette di dare reale valore e senso di verità a ciò che pensiamo o raccontiamo. Spesso la generalizzazione ci porta a “ fare di tutta l’erba un fascio” e a non notare le peculiarità e varietà delle cose.
Il processo di trasformazione delle informazioni dall’esterno al nostro interno avviene attraverso un meccanismo di filtro tramite generalizzazioni, cancellazioni e distorsioni che ci porta a creare un messaggio superficiale , sintetico, nostro ( è sempre importante tenere presente ciò!)
Riguardo alla forza dello stereotipo, in questo caso di genere, riporto una storiella che veniva raccontata negli anni ’70 : “Un uomo e suo figlio stanno rampicando su una parete rocciosa. A un certo punto i due non trovano l’appiglio e cadono: il figlio, più grave, viene trasportato in elicottero all’ospedale, dove lo attende il migliore chirurgo della struttura per operarlo. Appena il medico lo vede, però, esclama: “Non posso operarlo, lui è mio figlio”. Com’è possibile? Molto semplice: il chirurgo è la madre del ragazzo…..e negli anni ’70 era proprio raro pensare ad una donna chirurgo!
Gli stereotipi di genere sono una sottoclasse degli stereotipi. Quando si associa, senza riflettere, una categoria o un comportamento a un genere, si ragiona utilizzando questo tipo di stereotipi. Associazioni che nella nostra mente scattano automatiche e che quindi sono molto difficili da estirpare o cambiare. L’uso degli stereotipi di genere conduce infatti a una percezione rigida e distorta della realtà, che si basa su ciò che noi intendiamo per “femminile” e “maschile” e su ciò che ci aspettiamo dalle donne e dagli uomini. Si tratta di aspettative consolidate, e non messe in discussione, riguardo i ruoli che uomini e donne dovrebbero assumere, in qualità del loro essere biologicamente uomini o donne.
Per quale motivo avviene questo? In quanto una volta che il nostro cervello ha tracciato un collegamento tra quella parola e quella persona/esperienza il meccanismo parte in automatico grazie al nostro ipotalamo che ci porta a rispondere in reazione, inconsciamente, per abitudine.
Per poter uscire dunque dagli stereotipi è importante rompere lo schema: questa è innanzitutto una grande occasione per ognuno di noi per ampliare la nostra visione della vita e di noi stessi . Ciò peraltro significa anche uscire dalla  nostra zona di confort alla quale siamo affezionati in quanto ci dà sicurezze e certezze che bloccano però il nostro sviluppo e la nostra libertà. E’ dunque importante rispondere alle situazioni con presenza, conoscenza, in azione e non in reazione .
Anche le parole, per finire, ci danno un esempio di come gli stereotipi sono dentro di noi : la stessa parola spesso può assumere un significato diverso al maschile o al femminile. Ad esempio : maestro o maestra, governante ( al maschile e al femminile) , ecc.
Nell’auguravi di essere sempre in azione e non in reazione, concludo con questa frase di Fausto Novelli tratto dal Manuale del Risveglio “ Ogni passo determinato da una scelta consapevole porta esclusivamente al benessere ed alla pace…” Grazie

Filomena LORETO
Associazione P.E.N.E.L.O.P.E - DONNE DEL PONENTE PER LE PARI OPPORTUNITA’ - Bordighera

Noi donne di P.E.N.E.L.O.P.E siamo consapevoli che le società islamiche sono in continuo movimento. Non ci sono società statiche. La rivoluzione iraniana e la Primavera araba hanno mostrato in concreto l’intervento e la partecipazione attiva e consapevole delle donne musulmane che lottavano per la libertà e la democrazia dei loro paesi e per l’ottenimento della loro emancipazione.
Abbiamo anche visto e saputo di maltrattamenti crudeli sul corpo delle donne: ci rendiamo conto che la storia delle donne viaggia su percorsi paralleli. La nostra storia non è stata e non è poi così diversa dalla vostra. Volendo fare una riflessione sui nostri percorsi, sentiamo che le esperienze delle donne sono comuni in tutte le società.
P.E.N.E.L.O.P.E.  si è occupata di storie di donne che hanno contribuito alla realizzazione (1860) dell’unità d’Italia durante il Risorgimento e della lotta contro il fascismo durante la Resistenza (1943-45), rimanendo quasi del tutto invisibili. Pur avendo dato un grosso contributo, in due momenti fondamentali per la storia italiana, sono state escluse dall’organizzazione politica del Paese.
Per rendere onore a queste donne coraggiose,   P.E.N.E.L.O.P.E.   ha dedicato loro due eventi culturali:
1.       8 marzo 2011, “Le donne invisibili del Risorgimento”, nell’ambito delle celebrazioni per i 150 dell’unità d’Italia.
…e, credeteci, abbiamo fatto delle scoperte sorprendenti anche per noi.
2.       19 aprile 2012, “Donne e Resistenza”, nell’ambito delle celebrazioni dell’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani Italiani)
Nell’incontro del 19 aprile abbiamo riservato uno spazio speciale a Tina Anselmi, alla quale è stato dedicato, tra l’altro, il calendario 2012 di P.E.N.E.L.O.P.E.  e a Nilde Jotti. Due figure altamente significative che hanno partecipato alla Resistenza italiana contro il fascismo e hanno contribuito alla costruzione della nostra Repubblica democratica, facendo parte del Parlamento italiano.
In particolare vorremmo parlarvi oggi di Tina Anselmi che fu la prima donna ministro della Repubblica italiana. Durante il suo ministero ha fatto approvare la  legge 903 del 9 dicembre 1977, in cui, finalmente, veniva sancita la “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”. La legge risale a 35 anni fa, ciò significa che la donna, fino ad allora, era ritenuta inferiore. 
Questa è la prima legge che riconosce la parità di trattamento tra uomini e donne, parità intesa come divieto di ingiustificata e arbitraria discriminazione sulla base del sesso e come imposizione di un trattamento uniforme. Alcune norme della Legge 903 adeguano la disciplina del lavoro femminile al nuovo diritto di famiglia introdotto nel 1975 che riconosce piena parità tra i coniugi, fa riferimento alle loro posizioni di lavoro, introduce il riconoscimento della capacità professionale per entrambi e il dovere per gli stessi di contribuire al mantenimento della famiglia, all’educazione e al sostentamento della prole.
Contrariamente a quanto già sancito 35  anni fa, purtroppo constatiamo che ancora oggi le pari opportunità, di fatto, non sono garantite. A prova di ciò è risaputo che (anche se questo è atto contrario alla legge) le giovani donne spesso sono costrette a firmare dimissioni in bianco a vantaggio del datore di lavoro (eventuale matrimonio, eventuale gravidanza ect…).
P.E.N.E.L.O.P.E è impegnata nella lotta per il raggiungimento effettivo, reale delle pari opportunità e pari dignità. Noi da anni denunciamo il flagello della violenza fisica e psichica sulle donne sia in famiglia, sia sul lavoro.
Siamo qui per confrontare le nostre diverse esperienze con le vostre e per auspicare un fattiva collaborazione con voi.
Ringraziamo chi ha organizzato questo importante convegno perché ci ha offerto la possibilità di ampliare, arricchire le nostre conoscenze.

Antonella SQUILLACE
Presidente  MAPPAMONDO, ASSOCIAZIONE DI MEDIAZIONE CULTURALE - Sanremo

“Rapporto femminismo e religione in Occidente: brevi spunti per una riflessione”

Ho trovato consolanti le parole della relatrice (Asma Lambrabet n.d.r.) che mi ha preceduta, mi hanno confortata perché ritrovo nel suo intervento molte delle riflessioni che, pur non concordate, ho fatto pensando a questo mio intervento.
Il femminismo in Italia, su cui non mi soffermo perché personalmente non ne ho fatto parte ma posso dire di averne, per così dire, goduto i frutti delle battaglie fatte dalle generazioni che mi hanno preceduta, ha preso forti distanze in generale dal mondo religioso rappresentato nello specifico dalla Chiesa Cattolica per quello che riguarda gran parte del mondo occidentale, quasi a voler sottolineare, sicuramente giustamente, il maschilismo e l’impronta patriarcale di quel mondo e dunque l’incompatibilità con le giuste rivendicazioni del mondo femminile allora.
Però, riflettendo, e guardandomi intorno oggi in particolare, sono sempre più convinta, che, se il vento di innovazione che proprio in quegli anni portava il Concilio Vaticano II (si ricordano ad ottobre i 50anni dalla sua convocazione), per moltissimi versi rimasto incompiuto, e  le istanze delle donne di quel tempo, si fossero incontrati, cercando un canale di comunicazione, punti in comune, non lasciando sole per certi versi le donne del mondo associativo, all’interno della chiesa, si sarebbero reciprocamente arricchiti, avrebbero magari potuto smussare le aridità e le esagerazioni che entrambi hanno fatto emergere, non lasciando che, Chiesa e femminismo, facessero percorsi diversi, antitetici.
Sappiamo poi che nella realtà non è così, che in realtà ci sono state esperienze, persone, anche documenti ufficiali che hanno fatto sì che la donna potesse pian piano riuscire ad occupare un posto riconosciuto e per certi versi valorizzato all’interno della comunità ecclesiale.
Non è possibile in questa occasione fare la storia del ruolo della donna all’interno della Chiesa negli ultimi anni, quella cattolica nello specifico, perché quella del variegato mondo protestante, presenta percorsi e situazioni diverse, ma mi piace citare un pontefice che fece scandalo, a suo modo, con la sua affermazione.
Papa Albino Luciani, Giovanni Paolo I, che all’indomani della sua elezione nel suo breve pontificato, sottolineò con forza, scandalizzando per certi  versi, il concetto di “Dio padre e ancor più madre”.
Sicuramente questa è una concezione non propria dell’Islam secondo il suo rapporto di fede con Dio nel quale è assente la concezione di Dio Padre, anche se personalmente penso che il concetto di affidamento completo da parte del fedele musulmano verso Dio proprio dell’Islam non è poi così lontano dal gesto dell’affidarsi, come nel rapporto materno, da parte del bambino.
Dicevo fece scandalo all’epoca, sto parlando del 1978, forse la Chiesa e la società tutta non erano ancora pronte ad accogliere un concetto così innovativo e per certi versi rivoluzionario, che scardinava, anni, secoli di concezione di dio legata al genere maschile e non propria solo del Cristianesimo: bisogna risalire alle concezioni religiose primitive per avere la presenza di una grande Dea Madre.
Eppure quelle parole di quel pontefice, anche se io ero all’epoca ragazzina, ricordo, rileggendo e rivedendo ancora oggi quelle immagini, quanto avevano consolato il cuore, riconciliando il pensiero della differenza di genere, affrontando la questione del sacro e della trascendenza in prospettiva femminile, denunciando, in qualche misura, nella soggezione alla nominazione maschile, un’antica e non più tollerabile subordinazione patriarcale.
Infatti, perché padre e non madre?, la madre dà la vita al bambino, fa un gesto creativo.
Non dimentichiamo poi il passo di Genesì 1 sulla creazione del mondoDio creò l’uomo simile a se, maschio e femmina li creò…..”,  (ish – isha), passo pur nato in una società patriarcale e maschilista quale quella ebraica precristiana, in particolare quella del periodo della schiavitù babilonese.
In riferimento alla Bibbia inoltre, vorrei chiarire un pensiero cui si faceva cenno prima e riprendere la sottolineatura fatta più volte dalla dottoressa secondo la quale è certa interpretazione dei testi che snatura i contenuti della Parola, o, alle volte, una scarsa conoscenza con citazioni non appropriate.
Il passo della creazione dell’essere umano non sottolinea la superiorità dell’uomo nei confronti della donna, ma solo se così lo si vuole interpretare.
C’è un antico detto ebraico che dice che la donna non è stata creata dai piedi dell’uomo, perché gli cammini sotto o dalla testa perché gli sia sopra, ma dalla  sua costola perché gli cammini accanto.
Se veniamo in epoca più vicina a noi, naturalmente senza la pretesa di essere esaustiva, ma dando solo piccoli spunti di riflessione che andrebbero ripresi e approfonditi, grandi esperienze e voci di donne in ambito religioso le possiamo rilevare nelle teologhe che hanno rivendicato un grande spazio all’interno della Chiesa per una teologia, un pensiero teologico al femminile, e che oggi sono riconosciute e tenute in grande considerazione nel mondo della teologia.
Un cenno a parte in questo senso merita ad esempio l’impegno femminile all’interno della teologia della Liberazione, esperienza nata nelle comunità di base, conosciuta in Italia, grazie a teologi quali Leonardo Boff e alle sue opere, a Frei Betto, Dom Helder Camara, per citare solo alcuni nomi.
Nell’opzione preferenziale per i poveri, base della teologia della Liberazione, esiste anche una corrente femminile, anzi femminista, assai più radicale ed antiautoritaria, incarnata dalla figura della brasiliana Ivone Gebara, la quale sottolinea con grande forza le sfumature, le differenze e le difficoltà che ha incontrato e incontra tuttora la Teologia femminista. Fin dalle sue origini, che risalgono al 1980, la Teologia della Liberazione al femminile si caratterizza proprio per l’apertura al confronto e al dialogo, cosa non sempre accettata dall’opzione maschile, tuttora predominante.
Ivone ricorda la difficoltà ad ottenere un riconoscimento dalla stessa Teologia della Liberazione maschile,  che in più di un’occasione ha esitato a comprendere il discorso portato avanti dalle donne, così come i gruppi della sinistra impegnati a combattere contro le dittature militari, che pure hanno faticato e per certi aspetti ignorato le sofferenze patite dalle donne durante gli anni dei regimi. Non si parla solo di esclusione politico-sociale o di violenza verbale, quanto di sofferenza fisica anche e soprattutto sul proprio corpo.
 Ed è proprio in questo contesto che matura il cammino autonomo della Teologia femminista, sia dalla Teologia della Liberazione maschile, per quanto progressista, sia dalla sinistra impegnata e militante. La Teologia al femminile sta spendendo il suo impegno affinché gli esseri umani ritrovino quella fiducia tra loro persa anche nei confronti della chiesa a causa dello svilupparsi di una società capitalista e ingiusta battendosi per eliminare la mancanza di fiducia tra gli esseri umani.
Ho voluto citare questo pensiero proprio perché anche in ideali progressisti e innovativi ma coniugati al maschile, si riscontra sempre quella settorializzazione che porta alla necessità da parte delle donne di distanziare e differenziarsi.
Ed è del 1988 la lettera apostolica Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II sulla dignità e vocazione della donna che si colloca in continuità con l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Infatti, già Giovanni XXIII nella Pacem in terris riteneva che la presenza della donna nella Chiesa e nella società fosse uno dei segni dei tempi.
Il Concilio Vaticano II incoraggiò, come accennato prima, una più vasta partecipazione delle donne sia nell’ambito culturale e sociale, che nell’ambito ecclesiale. E nel Messaggio del Concilio all’Umanità, nell’ampia parte dedicata alle donne, si ricorda la loro missione a servizio dell’umanità “le donne imbevute dello spirito del Vangelo possono tanto, per aiutare l’umanità a non decadere”.

E viene affidata alla donna la missione di “riconciliare gli uomini con la vita”, di “salvare la pace del mondo”.

Nel 1995 Giovanni Paolo II, dopo aver dedicato il tema della Giornata Mondiale per la Pace alla “Donna, educatrice di pace”, scrive una lettera indirizzata a tutte le donne, in occasione della IV Conferenza mondiale dell’Onu sulla donna, per riflettere «sui problemi e sulle prospettive della condizione femminile nel nostro tempo», stimolando a riflettere sul genio della donna per dare ad esso più spazio nella società e nella Chiesa. Egli guarda al grande processo di promozione della donna, affermando che « è stato un cammino difficile e complesso…, ma sostanzialmente positivo, anche se ancora incompiuto per i tanti ostacoli che, in varie parti del mondo, si frappongono a che la donna sia riconosciuta, rispettata, valorizzata nella sua peculiare dignità.

Mi si dirà che sono proclami, dichiarazioni ufficiali ma che poi hanno corrisposto poco nei fatti e nella realtà ad una vera e propria emancipazione del ruolo della donna all’interno della comunità ecclesiale: non sono del tutto d’accordo.

Tutti i cambiamenti nella storia, sappiamo bene, non vengono solo dalle rivoluzioni e dai proclami ma dalla goccia che scava passo passo, con piccoli gesti, battaglie quotidiane, lotte e sacrifici personali.

Credo poi sia peculiare della donna, a qualunque cultura appartenga, la specificità dell’attesa, del gettare ponti, dell’accogliere.
Ed è per questo motivo, lo dico da credente, praticante  e insegnante di religione, che ho guardato con un misto di ammirazione e sorpresa, le rivoluzioni avvenute nella primavera dello scorso anno, all’interno del mondo arabo e il ruolo delle donne in particolare, non contro una appartenenza religiosa, ma grazie e all’interno di essa, come è stato bel sottolineato dalle relatrici di oggi.
Un concetto così lontano dal nostro femminismo e dalla nostra chiesa.

E questo va anche a scardinare molti pregiudizi e stereotipi sul ruolo delle donne all’interno della comunità islamica. Le trasformazioni epocali ancora in corso nel mondo arabo stanno travolgendo molte delle categorie occidentali che in questi ultimi venti anni hanno pesantemente condizionato il dibattito pubblico sul rapporto possibile tra Oriente e Occidente, sul ruolo dei diritti e della democrazia nel dialogo tra culture e, ovviamente, sulla "condizione delle donne musulmane".
Ma le piazze piene di cittadine e cittadini che rivendicavano diritti e democrazia, i giovani che organizzavano le rivolte via twitter e facebook, hanno finalmente convinto quantomeno a cambiare categorie di pensiero nei confronti del mondo islamico e in questa prospettiva.

Anche l'esperienza del femminismo islamico andrà analizzata attentamente, per valutarne le ricadute pratiche e coglierne l'originalità più autentica che, a mio avviso, sta soprattutto nell'aver avviato una imponente riflessione delle donne su una tradizione religiosa (quella islamica), evento che al momento non ha eguali nel mondo del cristianesimo, in particolare nel cattolicesimo.

Volutamente non mi sono soffermata sulla figura di Maria per la Chiesa e il cattolicesimo, da cristiana dentro la Chiesa spesso ho patito le operazioni della religiosità popolare o della pastorale comune e di magisteri di secoli che a mio giudizio hanno impoverito la complessa figura di Maria di Nazareth che credo invece essere donna molto più vicina a noi donne del nostro tempo. Quindi lascio ad ognuna nel mistero della propria fede, rispettandola, la concezione che ciascuna ne può avere.

Il mio augurio, per queste riflessioni un po’ mescolate e che andrebbero riprese, magari, chissà, in gruppi di lavoro e confronto, è che le donne, a partire e non contro, il proprio credo, la propria cultura di appartenenza, le proprie tradizioni e convinzioni, possano creare le basi per una società più giusta e accogliente, di quanto, anche spesso usando la religione, gli uomini abbiano saputo fare fino ad ora.

Lara  Aisha Bisconzo

Presidente Associazione Donne e Mamme Musulmane - Albenga

La pace sia su tutti voi.

Buongiorno a tutti, innanzitutto mi preme ringraziare Casa Africa nelle persone di Fatima, la presidente e di Marina, nonché Costanza e tutte le altre ragazze che ci hanno invitato a partecipare a questo importante seminario su un tema delicato e quanto mai attuale.

Dopo di ciò, ci tengo a sottolineare che sia come persona che come portavoce della mia associazione, Donne e Mamme Musulmane, non credo nel termine “femminismo” così come in quello “maschilismo”. A me piace pensare ad un diverso tipo di movimento, che forzatamente potrei provare a chiamare “umanitarismo”, nel quale, donne e uomini indipendentemente dal loro genere, hanno entrambi il loro giusto spazio per poter contribuire al meglio e rendere attraverso il loro sforzi questo mondo più vivibile.

Sono profondamente certa che ci sia spazio per tutti, nel giusto modo senza però necessariamente rinchiudersi dentro ad un titolo, nemmeno se lo si fa per mera provocazione allo scopo di avere possibilità in più.

Perché credo fermamente che uomo e donna non sono e non debbono essere rivali, ma anzi: esseri complementari che camminano, secondo il loro modo e le loro capacità soggettive, fianco a fianco verso un obiettivo comune.

E credo anche che siano diversi, l’uomo e la donna. Ma diversi non significa che il primo sia migliore o la seconda inferiore. Hanno diverse peculiarità, talenti, caratteristiche, e possono appunto compensare ciò che manca all’altro.

Fatta questa per me doverosa premessa, vorrei parlare quest’oggi di un tema che come donne, nel mio caso italiane e musulmane ci tocca particolarmente ma che secondo noi non viene sufficientemente conosciuto e approfondito: la condizione della donna musulmana oggi in Italia.

Il Bel Paese senza dubbio è un posto ricco di opportunità, che permette di vivere serenamente e di avere in linea di massima i propri diritti rispettati (crisi permettendo…), di grandi bellezze storiche e naturalistiche e, ogni giorno sempre più, multietnico e colorato. In mezzo a questa ricchezza ha ormai da qualche anno fatto capolino in maniera sempre più evidente la condizione della donna musulmana. E, ogni giorno di più, quella della donna musulmana italiana, divenuta tale per amore di Dio dopo un percorso spirituale e consapevole di conoscenza, studio e fede.

Differentemente dalla donna musulmana immigrata, la musulmana italiana spesso e volentieri si trova in una situazione come di “limbo”: viene considerata né carne e né pesce. Ma non perché si senta inadeguata, anzi. E’ perfettamente inserita nel tessuto sociale in cui vive proprio perché autoctona, allo stesso tempo però si vede costretta a galleggiare in una costante situazione di insicurezza per vari motivi che brevemente andrò ad elencare.

Il primo fra tutti – il più evidente – è la scelta di fede di indossare il hijab, parola araba che indica l’uso del velo e dell’abbigliamento islamico.

Il Corano indica chiaramente il precetto di indossarlo, infatti in almeno due versetti esso è nominato, uno dei quali, esplicito come non mai, dice: “O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate. Allah è perdonatore, misericordioso.” (Sura Al Ahzab, i coalizzati, v.59). La musulmana praticante che quindi sceglie con tutto il suo cuore, la sua ragione, la sua fede di indossarlo per amore di Dio si trova in questo paese davanti a varie difficoltà. Sul lavoro, per esempio. Perfino quando è alla ricerca di mansioni semplici e umili come possono essere quelle delle operaie delle imprese di pulizie, alla musulmana viene chiesto di togliere il hijab. Pena la non assunzione, nonostante le referenze. E attenzione, parliamo del classico hijab che lascia scoperte mani e viso, non di burka o niqab che impedirebbero l’identificazione della persona. Insomma, di una copertura che talvolta viene tutt’ora indossata dalle donne più anziane del sud Italia. Più di una volta ho sentito storie di sorelle musulmane (italiane e non) letteralmente costrette ad umiliare la propria fede e la propria persona (per una musulmana è atroce togliere il velo dal capo, perché si sente in colpa verso Dio) perché fortemente disagiate e con seri bisogni economici. E mi sono sempre posta la domanda del perchè una donna è costretta ad un’inutile simile umiliazione. Forse che la donna con il velo sul capo lavora meno bene di quella che non ce l’ha? Assurdo, senza ombra di dubbio.

E quando sento parlare di queste storie, mi salta sempre alla mente la serie di foto che grazie al web sono a disposizione dell’intero mondo, nelle quali si vedono donne inglesi che svolgono le più varie mansioni (poliziotte, infermiere, gestori di sale da thè, di negozi, etc.) con il loro bell’hijab o niqab addirittura, che non sono costrette a snaturarsi per avere rispettato il loro sacrosanto diritto al lavoro e a quello della libertà di fede. Così come mi salta alla mente il foulard che l’Ikea, che noi tutti ben conosciamo, ha fatto commissionare su misura con il proprio logo perché facesse parte della divisa delle commesse e lavoratrici musulmane che sono impiegate in Svezia nei loro famosi centri.

Donne che, nonostante il velo sul capo, hanno grazie a Dio mani e cervelli perfettamente funzionanti… Forse che in Italia si creda diversamente?

Lo stesso problema talvolta sono costrette ad affrontarlo le giovani ragazze che decidono per loro scelta di indossarlo fin dalla più tenera età. E’ tristemente comune in fatti ascoltare storie di professori e professoresse che, velatamente o meno (passatemi il termine…), cercano di convincere la studentessa che frequenta i loro istituti a togliere l’hijab, o perlomeno lo criticano spesso e volentieri, perfino in classe davanti agli altri compagni, mettendo in un ingiusto e scorretto imbarazzo la giovane di turno che, una volta tornata a casa, spesso e volentieri piange a causa dell’insensibilità dimostrata da chi invece dovrebbe contribuire alla sua crescita morale e sociale. Cito anche questi esempi per far riflettere, perché non sono purtroppo rari, e mi auguro possa, in maniera anche infinitesimale, servire a qualcosa.

Un altro problema che ci tocca profondamente, è quello dei luoghi di culto. Molte di noi hanno poche occasioni di andare all’estero in paesi arabo-musulmani, sono obbligate quindi ad educare qui i propri figli e ad insegnare loro la propria religione (come ogni genitore è tenuto a fare) senza poter far respirare loro l’atmosfera di una vera moschea. Non so se riesco a farvi capire a parole quanto è triste dover festeggiare la ricorrenza più importante dell’Islam, quella che ricorda il comune sacrificio di Abramo, in una palestra umida e fredda allestita alle bell’e meglio, magari anche sporca e in disordine. Vedere donne con neonati in braccio in posti del genere sapendo che si sta ricordando il giorno più importante dell’anno è davvero triste, sconfortante. Ma è questo che ogni anno succede in molte città d’Italia, la mia, Albenga, per esempio. La comunità islamica è costretta ad affittare una palestra o un altro luogo di fortuna per poter espletare le funzioni religiose più importanti dell’anno. Questo perché quasi ovunque non si riescono ad avere i permessi necessari per aprire non dico una vera e propria moschea con cupola e minareto, ma un più modesto centro islamico con annessa sala di preghiera. Le amministrazioni non lo consentono, gli abitanti delle città non le vogliono. Si fa ancora infatti fatica a trasmettere alle persone il fatto che una moschea, piccola o grande che sia, è una grande ricchezza per tutti, e che non è covo di terrorismo, ma anzi: sarebbe un luogo ove il terrorismo in prima battuta verrebbe stoppato, denunciato, bloccato… E’ già accaduto, nella nostra Italia: un imam (guida religiosa) del Nord ha segnalato alle forze dell’ordine una persona che aveva incontrato nel centro da lui gestito perché aveva forti sospetti che stesse per commettere atti non legali. Ma se un vero centro islamico non c’è perché l’amministrazione di questo o di quel paese non ne permette l’edificazione o l’apertura, chi insegnerà alle persone il vero messaggio di pace e giustizia dell’Islam? I nostri figli dove apprenderanno le basi della loro religione? Che ricordi avranno da adulti dei loro momenti di festa? E soprattutto, quanto ci perde in termini di cultura, ricchezza, dialogo interreligioso e conoscenza reciproca una città che non permette l’apertura di questi centri? Quante occasioni mancate, lasciatemelo dire…

E pensare che nella splendida, italianissima Roma è situata la moschea più grande d’Europa, che ogni anno accoglie migliaia di fedeli ma anche visitatori e turisti tra le loro mura, per non parlare dei convegni e delle tavole rotonde, ultima quella che ha visto partecipe anche Giorgio Napolitano, il capo dello Stato… E che nella nostra ligure Genova non più di 150 anni fa già esisteva una moschea vera, dalla quale si poteva udire addirittura il richiamo della preghiera… Moschea della quale nessuno all’epoca si è mai lamentato…

Un altro problema davvero da noi sentito è quello del cimitero. Come musulmane (e musulmani…) italiane o residenti in Italia, dovesse arrivare per noi il momento fatale che indica la fine della nostra vita sarebbe una doppia tragedia: non sapremmo dove essere seppelliti. Infatti, come nel caso della moschea, anche per il cimitero abbiamo immense difficoltà. Molte amministrazioni comunali non consentono (nonostante, badate bene, la Costituzione italiana ed anche i regolamenti comunali lo prevedano) la realizzazione di spazi cimiteriali ove i musulmani possano essere seppelliti secondo i loro rituali. Che poi, è bene specificarlo, basta poco per avere una struttura adeguata. Ci basterebbe solo un pezzo di terra delimitato da una siepe. Non ci necessitano costruzioni in muratura come loculi o similari, perché la nostra religione prevede l’interramento del corpo del defunto, quindi non si richiederebbe nemmeno uno sforzo in questo senso. Eppure anche in questo caso riusciamo ad ottenere quasi sempre solo dei no. E ve lo assicuro, è una questione che personalmente mi tocca molto da vicino essendo appunto musulmana e profondamente legata alla mia città d’origine. Vorrei essere seppellita secondo il rito che ho abbracciato in essa, ma non saprò fino alla fine della mia vita se questo mai potrà accadere. Forse chissà, come molti fratelli e sorelle di religione stranieri sarò costretta a far trasferire dalla mia famiglia la mia salma in un paese limitrofo, o all’estero, addirittura. Con dispendio di denaro e di fatica. Mi auguro avvenga altro…

In breve, sono questi i punti cardine della nostra vita che come musulmani in Italia ci troviamo quotidianamente ad affrontare. Ho scelto di farne partecipe oggi questa platea proprio perché come associazione femminile che si propone come interlocutore – nel suo piccolo – di fronte a chi vuol conoscere meglio la nostra realtà a nostro modo vogliamo provare a fare una, seppur modesta, differenza. E vogliamo a nostra volta fare del nostro meglio per attivarci e cambiare le cose, iniziando da ciò che secondo noi è il punto d’inizio ideale: la comunicazione e l’informazione.

Quindi sì, a nostra volta siamo donne attive sul territorio che altro non desiderano che rendere migliore la nostra vita. E quando dico nostra, intendo quella di tutti, musulmani e non. Come il Corano insegna a tutti i credenti, maschi e femmine, da 1433 anni a questa parte.

Grazie.



 Miriana SEMERIA
C.I.D. Centro Iniziativa Donne -Sanremo


Prima di tutto vorrei ringraziare, a nome del Centro Iniziativa Donne di Sanremo, Casa Africa e tutte le organizzatrici di questo convegno per l'invito che ci avete rivolto. Invito particolarmente gradito perchè ci consente di conoscere e approfondire temi di grande rilevanza.
Noi siamo venute qui oggi soprattutto per ascoltare. Vorrei comunque sottolineare alcuni aspetti delle relazioni e del dibattito che ne è seguito.
Innanzi tutto vorrei dire che sono molto d'accordo con Asma Lamrabet, che nell'intervento di questa mattina evidenziava il grossolano errore delle generalizzazioni: l'Occidente non è tutto “uguale” (l'Italia non è la Francia e neppure gli USA) così come nel mondo musulmano vi sono grandi diversità (il Marocco non è l'Arabia Saudita).
Generalizzare ci porta solo ad acuire i pregiudizi.
Sono anche convinta che vi sia stata una sorta di universalità della discriminazione nei confronti delle donne, che si è determinata in momenti storici, in contesti sociali, culturali, politici assai differenti. Non sarà certo l'Occidente a “liberare” le donne islamiche, come non è stato l'Occidente a “liberare” le donne italiane, francesi, ecc. Sono state le donne, nelle diverse realtà, con le loro lotte, con il loro lavoro, con la loro elaborazione culturale e politica a creare movimenti che hanno portato a cambiamenti radicali.
E sono state lotte dure e difficili. In Italia, ad esempio, si è sviluppato prima un forte movimento femminile, con profonde radici nella Resistenza, che rivendicava pari diritti, prima di tutto il diritto al voto, e che lottava per l'emancipazione della donna. Poi, negli anni Settanta, c'è stata l'esplosione del movimento femminista che ha scardinato rapporti, relazioni, modi di essere con una forte carica innovativa e che ha creato anche tante discussioni e dibattiti nell'ambito delle stesse forze progressiste. E' stata una rivolta contro i ruoli così come si erano cristallizzati nella società, contro i dettami della Chiesa vista come uno dei simboli del potere maschile. Le donne non si “accontentavano” più dell'emancipazione, volevano la liberazione, anche dal punto di vista sessuale.
Tutto ciò ha portato a cambiamenti radicali e profondi che hanno costituito il tessuto culturale da cui sono scaturite leggi (Nuovo diritto di famiglia, divorzio) impensabili se non ci fosse stato un cambiamento profondo all'interno della società.
Ognuno deve seguire la propria strada, fare il proprio percorso, ma solo le donne nella loro autonomia di elaborazione e di pensiero possono portare ai cambiamenti necessari.
Da ultimo un'osservazione, che è anche una mia forte preoccupazione. In questo convegno si è molto parlato del Corano e dei testi sacri. Io ho molta paura quando vedo nascere stati confessionali, a qualunque credo facciano riferimento. Penso che un paese che consideri come atto fondativo un testo sacro, per sua natura non modificabile in quanto emanazione diretta di una divinità, possa portare a forti disuguaglianze e intolleranza.
Per concludere, ancora grazie per questo invito. Solo con la discussione ed il confronto delle opinioni possiamo davvero costruire tutte insieme un mondo migliore.


Hamza PICCARDO

Direttivo UCOII , Unione delle Comunità Islamiche d’Italia, direttore di  Islam online, autore della traduzione italiana del Corano

I contributi e gli interventi che ho ascoltato mi hanno suggerito alcune riflessioni che cercherò di esplicitare qui di seguito.
Ogni volta che si affronta la questione femminile in relazione alla dottrina e alla tradizione islamiche abbiamo due atteggiamenti contrapposti e oggettivamente sterili. Da parte musulmana la difesa strenua della giustizia tra i generi insita nella rivelazione coranica e nella tradizione del Profeta Muhammad (pbsl), da parte laica o più generalmente non musulmana, l'insistere su situazioni oggettive di sperequazioni che vengono fatte risalire a quella stessa rivelazione e tradizione.
Se nella prima c'è un'evidente verità dottrinale è tuttavia possibile che la lettura e l'interpretazione delle fonti abbia spesso stravolto quei principi di equità e misericordia tra uomini e donne e tra loro e la società.
La comprensione letteralista infatti, tende a decontestualizzare sempre e comunque l'applicazione delle norme, tradendo di fatto la giustizia e quindi deislamizzando i comportamenti.
Credo che per noi musulmani non sia possibile comprendere una società e le persone che ne fanno parte e applicare le regole che sentiamo tutti come nostre e accettate, se non teniamo conto di una grande verità che Allah nel Corano proclama quando dice: " In verità, nella creazione dei cieli e della terra e nell'alternarsi della notte e del giorno, ci sono certamente segni per coloro che hanno intelletto" cioè nella natura e nel tempo Iddio altissimo ha posto segni, indicazioni che dobbiamo percepire correttamente per testimoniare i valori sempiterni e assoluti della Rivelazione.
Il primo incidente tra Emigranti e Ausiliari fu provocato dalle donne. Le prime erano meccane, e quindi cittadine, che erano vissute in una società, per quei tempi urbana e certamente commerciale, abitavano nel centro religioso della penisola arabica ed erano quindi abituate al rapporto e al confronto con persone e culture sensibilmente diverse. Spesso erano loro stesse commercianti e imprenditrici come nostra madre Khadija figlia di Khawaylid, la prima amatissima sposa del Profeta*, la prima musulmana. Le Ausiliarie erano vissute in quel complesso di oasi che formava Yatrib e che poi prese il nome di Medina an-Nabi, la città del Profeta*. La loro società era agro-pastorale con tutte le sue caratteristiche peculiari, specie nelle questione di genere. Il potere derivava dal possesso della terra che veniva trasmesso dal padre ai figli maschi. (Il Corano riformò radicalmente quel meccanismo di successione attribuendo alle figlie femmine pienezza giuridica, diritti ereditari ecc.).
Le meccane erano molto più libere e forti nel rapporto di genere ed erano confortate da quella Rivelazione che diceva che "uomini e donne hanno parità di doveri e di diritti" e dall'attenzione che il Profeta* gli aveva dedicato portarono un certo scompiglio e il Profeta* dovette intervenire per ristabilire la serenità tra le due comunità che erano destinate a costituire il primo nucleo di quella Ummah che oggi conta un miliardo e mezzo di uomini e donne.
Ho citato questo differente per esemplificare come sia impossibile trascendere dal contesto senza compiere gravi ingiustizie nei confronti delle creature.
Questa contestualizzazione fu prevista dal Profeta stesso* che inviando nello Yemen uno dei suoi compagni, Mu’adh, con la funzione di giudice gli chiese: “Come giudicherai i casi?”; egli rispose: “Giudicherò in accordo con il Libro di Allah”. “Ma se non vi troverai (la risposta) come farai?”. “Mi riferirò alla Sunnah del Messaggero di Allah”. “E se non troverai nulla nemmeno qui, che farai?” chiese ancora il Profeta. “Mi sforzerò e non smetterò di sforzarmi ” rispose Mu’adh. Sentendo ciò, il Profeta gli diede un colpetto sulla spalla e disse: “Sia Lode ad Allah Che ha guidato il messaggero del Suo Messaggero a ciò che voleva il Suo Messaggero”.
Il Profeta*, nella sua immensa saggezza e chiaroveggenza, sapeva che ci potevano essere problemi che non potevano essere risolti solo riferendosi in modo pedissequo al Corano o alla tradizione dell'Inviato, ma proprio in ossequio all'altezza di quelle fonti avrebbero necessitato uno sforzo di comprensione e di giudizio.
Venendo alla nostra situazione attuale, dobbiamo tener conto che le società sono diverse tra loro ed estremamente variegate anche al loro interno. E' certamente vero che, rimanendo in ambito islamico, ci sono grandi differenze tra il Marocco, la Turchia, il Pakistan, ma se disaggreghiamo per ambiti socio-economici, saranno molto più simili i comportamenti di un abitante dell'Atlas marocchino, di uno della Cappadocia o delle risaie del sub continente indiano, di quanto lo siano con quelli di chi vive a Fes, Ankara o Islamabad (a loro volta diversi ma molto più omogenei tra loro).
Per concludere permettetemi una piccola provocazione intellettuale, se il maschilismo è considerato l'aberrazione dei comportamenti maschili, un femminismo reattivo non può che essere viziato dagli stessi difetti che mira a combattere.
Eliminiamo quindi tutti gli ismi e tra musulmani e musulmane, tra uomini e donne, cerchiamo di camminare insieme in un dialogo solidale e fedele, non dice forse il Corano: " Coloro che fanno la carità, uomini o donne, concedono un bel prestito ad Allah; lo riscuoteranno raddoppiato e avranno generoso compenso" e la carità non è altro che l'amore per Dio e per le creature.


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