Sebastião Salgado è universalmente considerato il più grande fotografo documentarista contemporaneo. Le sue opere hanno fatto il giro del mondo ed esposte nei maggiori musei.
Nato nel 1944 nello Stato di Minas Gerais, in Brasile, passa la sua infanzia nella “fazenda” di famiglia, una
tenuta circondata per il 50% dalla foresta pluviale. Trasferitosi a San Paolo si laurea in economia e aderisce alla sinistra radicale brasiliana che si opponeva alla dittatura
militare. Per questo motivo è costretto ad abbandonare il suo paese e a rifugiarsi
a Parigi dove ottiene il dottorato in economia. In seguito lavora per una banca
di investimenti e per alcuni progetti economici della Banca Mondiale in Africa.
Nasce da quel momento il suo amore per la fotografia concepita
come un mezzo per testimoniare e raccontare quelle realtà che i mezzi di
comunicazione e di potere tradizionali tacciono. Una fotografia con una profonda anima sociale. “Desidero -egli dice- che ogni persona che entra nelle mie esposizioni sia, al momento di
uscire, una persona diversa".
Nasce anche il suo amore per l’Africa, una terra che egli sente sorella. Una terra che era saldata al Brasile prima della formazione dei continenti e in cui ancora sono
presenti le tracce di questa identità.
Salgado ha visitato centinaia di volte il continente
africano. In un'intervista rilasciata in occasione della presentazione di una
sua mostra fotografica sull'Africa egli dice: "è parte della mia vita. Le esperienze più importanti mi sono
successe in questi viaggi. Cosa ho imparato? Il potere della dignità. E' un potere così forte che ho la speranza che riesca a
mettere fine alla miseria, alle guerre e all'ingiustizia che soffre questa
gente. Il popolo africano è assai lavoratore, tuttavia non ha case, non ha
sanità, non ha istruzione. E' ora che cominci a ricevere un poco di quel tanto
che gli hanno tolto”.
Nei
suoi libri come Workers o Exodus vi sono i ritratti
dell'Africa che parlano di sfruttamento, di lavoro schiavo, di guerre, di
carestie, di fame, di una terra che è stata sottratta con la forza al suo popolo
obbligato a trasformarsi in migranti, rifugiati, esiliati.
Tra il 1984 e 1985, come volontario di Medici Senza Frontiere, Salgado fotografa
in tutta la sua crudeltà le vittime della fame di una delle grandi catastrofi
umanitarie che ciclicamente flagellano
la regione del Shael.
La visione di tutte queste sofferenze segnano ben presto il fisico di Salgado. Furono soprattutto le atrocità del genocidio che si consumò nel 1994 in Rwanda.
“In Rwanda- egli dice- vidi la brutalità totale, vidi la gente morire a migliaia al giorno. Persi la fiducia nella nostra specie. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere. Iniziai ad avere infezioni dappertutto”. Il medico gli disse: “hai visto così tanti morti che stai morendo anche tu..devi smettere”.
Lascia così la
fotografia e torna in Brasile nella sua casa natale. Qui scopre però che la foresta pluviale che un tempo la circondava era stata
perlopiù annientata. Dalla copertura originaria, superiore al 50%, era scesa a
meno dello 0,5%. Era ormai una terra bruciata. “Il terreno era morto come me”, dice Salgado. E così decide di
iniziare un progetto di riforestazione:
oltre due milioni di alberi piantati. Fonda nello stato di Minas Gerais l’Istituto Terra una delle più importanti realizzazioni al mondo di
rinnovamento del territorio naturale.
“Non si sottolineerà mai
abbastanza l’importanza di ricostruire ciò che abbiamo distrutto -egli dice- gli alberi sono la garanzia della nostra
sopravvivenza. L’unica macchina al mondo in grado di riprodurre l’ossigeno e la
costituzione e il mantenimento delle riserve idriche di un paese è proprio
l’albero”.
Lavorando sulla ricostruzione di un paradiso come quello in cui era nato
ha l’idea di mettere a punto un grande progetto fotografico, diverso però dai
precedenti. Lo scopo doveva essere quello di cercare un modo nuovo di
presentare il Pianeta Terra: questa volta non avrebbe puntato l’obiettivo
sull’uomo e sulla sua lotta per la sopravvivenza, ma piuttosto sulle meraviglie
che rimangono nel nostro pianeta. Su quella parte -forse un 45%- che è ancora
estremamente viva come al tempo della Genesi.
Da qui nasce Genesi, ultimo capolavoro di Salgado, un documentario durato otto anni e 32 viaggi ai confini del mondo
che parla dell’umanità. Che vuole ricordare all’umanità le origini della sua
specie, e anche le origini della vita, per educare alla consapevolezza di un
progresso che sta distruggendo gli ecosistemi. Lo scopo era “cogliere con la macchina fotografica quella
grande parte del pianeta che si presenta ecologicamente pura e, si potrebbe
dire, ancora allo stato primordiale. Creare dunque una quantità d’immagini sufficiente
a far capire al maggior numero possibile di persone che esiste una grande
porzione del mondo ancora integra, allo stato della Genesi, e mostrare quanto proteggere questa parte sia
fondamentale per tutti noi”.
Nel suo libro "Dalla mia terra alla terra“, pubblicato quest’anno
anche in Europa, Salgado raccoglie le sue riflessioni e racconta, con parole e immagini, il viaggio dalla sua
Terra, il Brasile, alla scoperta della nostra Terra, il pianeta.
In questo video Sebastião Salgado si racconta
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