"il terrorismo non ha religione" su arabpress.eu |
In un articolo
pubblicato sul blog della Società Italiana di Diritto Internazionale
all’indomani della strage di Charlie Hebdo, Luca Pasquet, dottorando in diritto
internazionale presso il Graduate Institute of International and Development
Studies di Ginevra, riflettendo sul significato e la portata della libertà di espressione, osservava:
“Qualche mese
fa, paesi come il Regno Unito e l’Italia discutevano se criminalizzare
l’istigazione all’omofobia e alla transfobia. Oggi, dopo l’attentato al
settimanale umoristico Charlie Hebdo, la parola d’ordine, nei media e nel
discorso politico, sembra essere: la libertà d’espressione è assoluta; bisogna
tollerare di tutto nel nome della democrazia e della libertà. Infine, pochi
giorni dopo il bagno collettivo di retorica sulla libertà d’espressione, il
discusso comico francese Dieudonné è stato arrestato per aver postato su
twitter la frase: “je suis Charlie Coulibaly”.
Un’osservazione questa che mette
in rilievo quanto sia ipocrita e contraddittorio il discorso occidentale sulla
libertà di espressione, che viene censurata o considerata assoluta a seconda
dei casi (in alcuni paesi il negazionismo è reato), ma che all’indomani dei
fatti di Parigi viene sfoderata come una
spada per un nuovo scontro di civiltà.
E così mentre tutto l'Islam condanna (se ne parlerà in un prossimo post) senza mezzi termini il
terrorismo che da mesi miete vittime, non solo in Europa, ma, in proporzioni
macroscopiche, in tutto il mondo islamico e fa progetti per fermare queste orde
di barbari sanguinari additandoli come “cancrena dell'Islam",
in Europa si insiste nel voler difendere ad oltranza un altro tipo di fondamentalismo quello della libertà di
espressione, utilizzata in appoggio alla diffusa retorica anti-islamica e in
modo irresponsabile come supporto alla diffusione di discorsi d’odio.
Osserva ancora Luca Pasquet
che “se è innegabile che nessuna
espressione d’opinione, in nessuna forma, può giustificare un plurimo omicidio
(ma non dovrebbe giustificarlo neanche il crimine più efferato) è al tempo
stesso legittimo porsi alcune domande sui limiti della libertà d’espressione,
anche con riguardo alla forma della caricatura umoristica: questa libertà è
davvero assoluta, è bene che lo sia, e, infine, l’applicazione degli eventuali
limiti è selettiva o uguale per tutti? I due livelli (la condanna di un
omicidio arbitrario e i limiti della libertà d’espressione) sono distinti, e
confonderli non aiuta a comprendere”.
Riportiamo alcuni passaggi del discorso fatto da Pasquet.
In primo luogo, egli afferma
, bisogna sfatare un mito, rinforzato dalla retorica post-attentato
degli ultimi giorni: la parola, e
persino l’immagine in forma di caricatura, non sono sempre innocenti ed innocue.
La comunicazione può umiliare ed
uccidere…
Sono gli slogan, le idee,
le convinzioni che circolano nella nostra società a fare di un omosessuale un
lussurioso ammalato, di una donna una creatura debole e stupida, di una persona
di colore un selvaggio ed uno schiavo, di un ebreo un venale senza cuore, di un
musulmano un terrorista. Ciò grazie alla comunicazione di slogan semplici che
il ricevente ripete meccanicamente, illudendosi di aver compreso un concetto,
in uno splendido esempio di “pensiero
pigro”. E, a meno che non vengano istituzionalizzati dei meccanismi sociali
capaci di limitare questa diffusione, gli
slogan continueranno ad essere riprodotti, perché non costano né denaro né sforzo intellettuale, e permettono di
conquistare consenso e potere".
Non tutto può essere
trasmesso, aggiunge l’autore. In nessuna democrazia liberale la libertà
d’espressione è assoluta ed illimitata. I
diritti umani sono uno dei possibili meccanismi sociali volti a limitare le
esternalità negative della comunicazione. Essi funzionano come filtri, e
rendono possibile una “contro-comunicazione”
espressa in termini di divieto giuridico.: la tortura, la discriminazione e
altri tipi analoghi di comunicazione vanno bloccati e sanzionati. In molti
casi, la risposta è stata formulata in termini di criminalizzazione di alcune
condotte come l’istigazione all’odio razziale, o fondato sull’orientamento di
genere, o sulla preferenza sessuale, o sulla religione, fino al crimine di
negazionismo. Tali limiti alla libertà d’espressione sono giustificati in base
all’argomento per cui anche la comunicazione verbale, scritta, o per immagini,
può essere violenta e portare a ferire, uccidere, umiliare..
In Francia, ci ricorda
Pasquet, nelle ore immediatamente successive all’attentato a Charlie Hebdo,
qualcuno appiccava il fuoco a due moschee e un chiosco-kebab. Gli slogan
prendevano vita, bruciando, umiliando e ferendo. Non si può pensare che, in una
“società democratica”, a fronte di tali avvenimenti, regni la più totale
assenza di responsabilità, tanto a livello culturale, quanto politico e
giuridico. In un sistema giuridico che ha scelto il modello della
criminalizzazione, il reato di istigazione all’odio razziale e religioso deve
valere anche quando l’offesa è diretta verso l’Islam, anche e soprattutto a
fronte di una potente e diffusa retorica anti-islamica.
Del resto, come ammonisce
la Corte Europea dei Diritti Umani, è legittimo sanzionare un «comportamento (…) intollerabile che
costituisca una negazione dei principi fondamentali della democrazia
pluralista», e in caso di «tensione e di conflitto» bisogna evitare che i
media diventino «un supporto alla diffusione di discorsi d’odio».
Marvel in difesa dell'Islam sui bus di San Francisco in fumettologica |
È inoltre importante che,
qualsiasi compromesso si trovi tra le due esigenze (libertà o censura) gli stessi limiti, e le stesse libertà tutelino ognuno allo stesso modo.
Come ricorda Shlomo Sand,
eminente storico israeliano, la discriminazione antiebraica ha segnato la
cultura europea nel modo più ignominioso, è quindi giusto che la società
europea rifiuti, sia attraverso l’autolimitazione culturale responsabile, sia
attraverso il divieto giuridico, la rappresentazione offensiva della religione
ebraica. Quello che Shlomo Sand ed altri si chiedono è perché gli stessi limiti e la
stessa attenzione non valgano per i discorsi chiaramente discriminatori rivolti
ad altre minoranze religiose.
Il senso
profondo e l’origine storica del diritto alla libertà d’espressione risiede
nella tutela del debole che critica il potere.
Il Re, la Regina di Inghilterra ed il Principe di Galles siedono attorno ad una scodella piena di ghinee e se le versano in bocca con il mestolo. - Incisione di James Gillray -1787. In no-miedo blogspot |
Per questo, se la stessa
libertà è invocata dal giornalista influente o dal personaggio politico per mettere alla gogna una minoranza
religiosa, o, in generale, la categoria degli immigrati (cioè degli ultimi
arrivati, dei più deboli), non solo tale comportamento non ha nulla di civico,
ma bisogna allarmarsi, essere sospettosi. Nella maggior parte dei casi, si
tratta infatti di una mera scusa per aggirare i limiti imposti dalla legge e le
regole sociali della convivenza civile.
Sulle origini e la funzione della satira interviene il recente articolo "Ridisegnare i confini della libertà. Sulla satira di Charlie Hebdo" pubblicato nel sito
“Fumettologica” da Tonio Troiani che al riguardo cita una recente sentenza della
Cassazione (n. 9246 del 2006). Partendo dal presupposto che si tratta di un
diritto di ordine costituzionale (artt. 21 e 23 della Costituzione) la sentenza ne chiarisce la portata e limiti onde evitare che travalichi i limiti della sua stessa
funzione:
“[La satira] È quella manifestazione di pensiero
talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di
castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti
criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso
suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene.”
Le viene riconosciuto un
compito di fondamentale importanza, cioè quello di “indicare alla pubblica
opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone” con una precisa finalità
“correttiva, cioè verso il bene”. La
satira quindi ha un fine positivo che la distingue dal semplice vilipendio.
La
libertà inseguita e proclamata dalla rivista (Charlie Hebdo), nelle parole di
uno dei suoi fondatori, era invece assoluta. Ma, si chiede Troiani, non è
anche questa ideologia? Violenza? Una libertà estrema di ridere di tutto e di
tutti, ma non della stessa possibilità di ridere? E in virtù di questo principio, non si potrebbe far satira perfino sulla
morte dei vignettisti di Charlie Hebdo? – o invece la morte violenta,
piuttosto, pone un limite che il buon costume e la dignità personale
definiscono chiaramente?
Viene
citato l’articolo apparso su The Hooded Utilitarian con cui Jacob Canfield aveva
denunciato l’evidente curvatura
“razzista” della rivista soprattutto nei confronti del mondo musulmano con
modalità non lontane da quelle con cui i
Nazisti rappresentavano gli Ebrei... Cosicché, sottolinea Canfield, al di là della strenua
difesa della libertà di cronaca e satira che dichiarava di perseguire, la rivista rischiava
di ottenere risultati antitetici alla sua stessa ragion d’essere, utilizzando cioè strumenti in uso nella satira di
propaganda dei regimi totalitari. In conclusione ci sembra di poter dire che non di libertà si è trattato, ma, al contrario, di sudditanza al pensiero dominante.
mg
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