gennaio 31, 2015

EUROPA. Ridisegnare i confini della libertà di espressione? La Comunicazione può umiliare e uccidere



"il terrorismo non ha religione" su arabpress.eu
In un articolo pubblicato sul blog della Società Italiana di Diritto Internazionale all’indomani della strage di Charlie Hebdo, Luca Pasquet, dottorando in diritto internazionale presso il Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra, riflettendo sul significato e la portata della libertà di espressione, osservava:


“Qualche mese fa, paesi come il Regno Unito e l’Italia discutevano se criminalizzare l’istigazione all’omofobia e alla transfobia. Oggi, dopo l’attentato al settimanale umoristico Charlie Hebdo, la parola d’ordine, nei media e nel discorso politico, sembra essere: la libertà d’espressione è assoluta; bisogna tollerare di tutto nel nome della democrazia e della libertà. Infine, pochi giorni dopo il bagno collettivo di retorica sulla libertà d’espressione, il discusso comico francese Dieudonné è stato arrestato per aver postato su twitter la frase: “je suis Charlie Coulibaly”.


Un’osservazione questa che mette in rilievo quanto sia ipocrita e contraddittorio il discorso occidentale sulla libertà di espressione, che viene censurata o considerata assoluta a seconda dei casi (in alcuni paesi il negazionismo è reato), ma che all’indomani dei fatti di Parigi viene sfoderata come una spada per un nuovo scontro di civiltà.


E così mentre tutto l'Islam condanna (se ne parlerà in un prossimo post) senza mezzi termini il terrorismo che da mesi miete vittime, non solo in Europa, ma, in proporzioni macroscopiche, in tutto il mondo islamico e fa progetti per fermare queste orde di barbari sanguinari additandoli come “cancrena dell'Islam", in Europa si insiste nel voler difendere ad oltranza un altro tipo di fondamentalismo quello della libertà di espressione, utilizzata in appoggio alla diffusa retorica anti-islamica e in modo irresponsabile come supporto alla diffusione di discorsi d’odio.


Osserva ancora Luca Pasquet che “se è innegabile che nessuna espressione d’opinione, in nessuna forma, può giustificare un plurimo omicidio (ma non dovrebbe giustificarlo neanche il crimine più efferato) è al tempo stesso legittimo porsi alcune domande sui limiti della libertà d’espressione, anche con riguardo alla forma della caricatura umoristica: questa libertà è davvero assoluta, è bene che lo sia, e, infine, l’applicazione degli eventuali limiti è selettiva o uguale per tutti? I due livelli (la condanna di un omicidio arbitrario e i limiti della libertà d’espressione) sono distinti, e confonderli non aiuta a comprendere”.

Riportiamo alcuni passaggi del discorso fatto da Pasquet.


In primo luogo, egli afferma , bisogna sfatare un mito, rinforzato dalla retorica post-attentato degli ultimi giorni: la parola, e persino l’immagine in forma di caricatura, non sono sempre innocenti ed innocue. La comunicazione può umiliare ed uccidere…


Sono gli slogan, le idee, le convinzioni che circolano nella nostra società a fare di un omosessuale un lussurioso ammalato, di una donna una creatura debole e stupida, di una persona di colore un selvaggio ed uno schiavo, di un ebreo un venale senza cuore, di un musulmano un terrorista. Ciò grazie alla comunicazione di slogan semplici che il ricevente ripete meccanicamente, illudendosi di aver compreso un concetto, in uno splendido esempio di “pensiero pigro”. E, a meno che non vengano istituzionalizzati dei meccanismi sociali capaci di limitare questa diffusione, gli slogan continueranno ad essere riprodotti, perché non costano né denaro né sforzo intellettuale, e permettono di conquistare consenso e potere".


Non tutto può essere trasmesso, aggiunge l’autore. In nessuna democrazia liberale la libertà d’espressione è assoluta ed illimitata. I diritti umani sono uno dei possibili meccanismi sociali volti a limitare le esternalità negative della comunicazione. Essi funzionano come filtri, e rendono possibile una “contro-comunicazione” espressa in termini di divieto giuridico.: la tortura, la discriminazione e altri tipi analoghi di comunicazione vanno bloccati e sanzionati. In molti casi, la risposta è stata formulata in termini di criminalizzazione di alcune condotte come l’istigazione all’odio razziale, o fondato sull’orientamento di genere, o sulla preferenza sessuale, o sulla religione, fino al crimine di negazionismo. Tali limiti alla libertà d’espressione sono giustificati in base all’argomento per cui anche la comunicazione verbale, scritta, o per immagini, può essere violenta e portare a ferire, uccidere, umiliare..


In Francia, ci ricorda Pasquet, nelle ore immediatamente successive all’attentato a Charlie Hebdo, qualcuno appiccava il fuoco a due moschee e un chiosco-kebab. Gli slogan prendevano vita, bruciando, umiliando e ferendo. Non si può pensare che, in una “società democratica”, a fronte di tali avvenimenti, regni la più totale assenza di responsabilità, tanto a livello culturale, quanto politico e giuridico. In un sistema giuridico che ha scelto il modello della criminalizzazione, il reato di istigazione all’odio razziale e religioso deve valere anche quando l’offesa è diretta verso l’Islam, anche e soprattutto a fronte di una potente e diffusa retorica anti-islamica.


Del resto, come ammonisce la Corte Europea dei Diritti Umani, è legittimo sanzionare un «comportamento (…) intollerabile che costituisca una negazione dei principi fondamentali della democrazia pluralista», e in caso di «tensione e di conflitto» bisogna evitare che i media diventino «un supporto alla diffusione di discorsi d’odio».


Marvel in difesa dell'Islam sui bus di San Francisco in fumettologica 
È inoltre importante che, qualsiasi compromesso si trovi tra le due esigenze (libertà o censura)  gli stessi limiti, e le stesse libertà tutelino ognuno allo stesso modo.


Come ricorda Shlomo Sand, eminente storico israeliano, la discriminazione antiebraica ha segnato la cultura europea nel modo più ignominioso, è quindi giusto che la società europea rifiuti, sia attraverso l’autolimitazione culturale responsabile, sia attraverso il divieto giuridico, la rappresentazione offensiva della religione ebraica. Quello che Shlomo Sand ed altri si chiedono è perché gli stessi limiti e la stessa attenzione non valgano per i discorsi chiaramente discriminatori rivolti ad altre minoranze religiose.


Il senso profondo e l’origine storica del diritto alla libertà d’espressione risiede nella tutela del debole che critica il potere.
Il Re, la Regina di Inghilterra ed il Principe di Galles siedono attorno ad una scodella piena di ghinee e se le versano in bocca con il mestolo. - Incisione di James Gillray -1787. In no-miedo blogspot
Per questo, se la stessa libertà è invocata dal giornalista influente o dal personaggio politico per mettere alla gogna una minoranza religiosa, o, in generale, la categoria degli immigrati (cioè degli ultimi arrivati, dei più deboli), non solo tale comportamento non ha nulla di civico, ma bisogna allarmarsi, essere sospettosi. Nella maggior parte dei casi, si tratta infatti di una mera scusa per aggirare i limiti imposti dalla legge e le regole sociali della convivenza civile.


Sulle origini e la funzione della satira interviene il recente articolo "Ridisegnare i confini della libertà. Sulla satira di Charlie Hebdo" pubblicato nel sito “Fumettologica” da Tonio Troiani che al riguardo cita una recente sentenza della Cassazione (n. 9246 del 2006). Partendo dal presupposto che si tratta di un diritto di ordine costituzionale (artt. 21 e 23 della Costituzione) la sentenza ne chiarisce la portata e limiti onde evitare che travalichi i limiti della sua stessa funzione:


“[La satira] È quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene.”


Le viene riconosciuto un compito di fondamentale importanza, cioè quello di “indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone” con una precisa finalità “correttiva, cioè verso il bene”. La satira quindi ha un fine positivo che la distingue dal semplice vilipendio.


La libertà inseguita e proclamata dalla rivista (Charlie Hebdo), nelle parole di uno dei suoi fondatori, era invece assoluta. Ma, si chiede Troiani, non è anche questa ideologia? Violenza? Una libertà estrema di ridere di tutto e di tutti, ma non della stessa possibilità di ridere? E in virtù di questo principio, non si potrebbe far satira perfino sulla morte dei vignettisti di Charlie Hebdo? – o invece la morte violenta, piuttosto, pone un limite che il buon costume e la dignità personale definiscono chiaramente?


Viene citato l’articolo apparso su The Hooded Utilitarian con cui Jacob Canfield  aveva denunciato l’evidente curvatura “razzista” della rivista soprattutto nei confronti del mondo musulmano con modalità non lontane da quelle con cui i Nazisti rappresentavano gli Ebrei... Cosicché, sottolinea Canfield, al di là della strenua difesa della libertà di cronaca e satira che dichiarava di perseguire, la rivista rischiava di ottenere risultati antitetici alla sua stessa ragion d’essere, utilizzando cioè strumenti in uso nella satira di propaganda dei regimi totalitari. In conclusione ci sembra di poter dire che non di libertà si è trattato, ma, al contrario, di sudditanza al pensiero dominante. 




mg




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