Riportiamo nel nostro blog il testo dell’intervista che Casa Africa ha
rilasciato sulla complessità dell’universo femminile che si affaccia nel
continente africano alla rivista “Noi Donne”
in occasione della giornata internazionale della donna
"Noi Donne" è la storica rivista italiana
dei movimenti femminili che a partire dal luglio 1944, uscita dalla
clandestinità, racconta le attività, i pensieri e i movimenti delle donne.
Noi Donne. Casa Africa realtà associativa vivace e impegnata, si affaccia su un
continente davvero complesso, guarda e tutela gli interessi di molte etnie, ha
un'ottica necessariamente multiculturale e interreligiosa, associazionista
prima ancora che femminista. Per questo è a Casa Africa che abbiamo posto le
domande più interessanti, suscitate da questa giornata dell'8 marzo.
Noi Donne. In quali battaglie sono impegnate le donne africane? E' possibile
riassumerne il senso e lo spirito?
Casa
Africa.
Quando si parla di donne africane si fa riferimento ad una realtà complessa ed estremamente variegata dal punto di vista
culturale, ma soprattutto geopolitico, su cui occorre fare chiarezza.
Parliamo delle donne dei paesi arabi del Nord
Africa (dal Marocco all’Egitto) e di alcuni paesi del Centro Africa (Mauritania
e Sudan) a maggioranza islamica. Parliamo delle donne dei paesi Sub Sahariani e
del Centro Africa (come Mali, Nigeria,
etc.) che arabi non sono ma che sono a maggioranza islamica. Infine
facciamo riferimento alle donne che vivono nei paesi dell’Africa Centrale e del
Sud (Congo, Angola, Ruanda etc.) a maggioranza cristiana.
Le donne dei paesi arabo/islamici del
continente africano condividono poi le esperienze e le battaglie delle donne di
altri paesi arabo/islamici che non fanno parte del continente africano (dalla
Palestina all’Arabia Saudita, dalle Monarchie del Golfo all’Iraq e alla Siria),
nonché di altri paesi islamici che arabi non sono (come Iran, Pakistan e
Afganistan).
L’appartenenza
allo stesso mondo islamico caratterizza la peculiarità delle battaglie di queste
donne che, seppure in misura diversa quanto agli obiettivi, all’intensità e
agli esiti a seconda del sistema politico che governa i paesi in cui vivono
(dalla monarchia assoluta dell’Arabia Saudita alla repubblica parlamentare
laica della Tunisia), perseguono i diritti di uguaglianza senza rinnegare il
loro credo religioso, ma disponendosi a una rilettura dei sacri testi in chiave
paritaria. Si parla perciò di movimento
femminile islamico. Un’operazione ermeneutica quella della rilettura dei
testi sacri nella prospettiva della parità di genere che appare forse più
agevole nella religione islamica di quanto non lo sarebbe (se venisse fatta)
nella religione cristiana tenuto conto che nella prima mancano alcune premesse
fondamentali che penalizzano la donna e che invece sono presenti nella seconda:
il racconto coranico, infatti, non demonizza Eva e non conosce il peccato
originale.
Gli
obiettivi e i risultati sono, come si è detto, assai diversi e si scontrano
spesso anche con l’ignoranza diffusa in certe regioni, per lo più rurali e
governate da culture tribali, in cui sono frantumati alcuni Paesi (come il
Pakistan o l’Afganistan). E così mentre in Pakistan la battaglia delle donne è
per il diritto allo studio (Malala), in Iran il 65% degli
studenti universitari sono donne. Mentre in Arabia Saudita le donne sono
costrette a portare il burka e hanno bisogno di un tutore per esercitare
qualsivoglia diritto ed attualmente si mobilitano per il diritto di guidare
l’automobile (il "Women to drive movement"che simboleggia il diritto di condurre la propria vita), in Tunisia le donne hanno conquistato una Costituzione laica che garantisce la parità di
genere e in Marocco hanno ottenuto la riforma del diritto di famiglia e
l’abolizione dell’articolo del codice
penale sulle nozze riparatrici (norma che in Italia è stata abrogata solo nel
1981).
Impossibile elencare tutti i nomi delle
numerose intellettuali, professioniste, attiviste, giornaliste, blogger che in
questi paesi hanno costruito associazioni, siti e blog con il lemma parità e
dignità. Donne che durante la primavera araba sono scese in piazza
insieme agli uomini per rovesciare dittature corrotte. Che diffondono la nuova
immagine femminile attraverso i social media. Che nelle università organizzano
seminari, corsi e conferenze per divulgare e dibattere i risultati delle loro
ricerche sui testi sacri.
Le
battaglie per la dignità e la giustizia sono costate la vita a molte donne. Amina Filali, sedicenne marocchina, nel
marzo del 2012 si tolse la vita perché non poteva più tollerare di vivere
insieme al marito che era stata costretta a sposare in virtù delle ”nozze
riparatrici". Un anno prima la marocchina Fadoua Laroui, nubile e madre di due figli si era tolta la vita
dandosi fuoco per denunciare col suo gesto estremo le condizioni sociali e le
ingiustizie che subiscono in Marocco le ragazze madri, considerate alla stregua
di prostitute. In Iran Reyhaneh Jabbari uccise colui che aveva tentato di usarle violenza. Processata
non venne creduta. Accusata di omicidio volontario fu giustiziata per essersi
rifiutata di ritrattare l’accusa di tentato stupro come richiedevano i parenti
della vittima.
Nel
frattempo in molti di questi paesi si sono intensificati gli scenari di guerra, dal Medio Oriente (Iraq, Siria, Yemen) a tutta l’Africa Centrale (Repubblica
Centrafricana, Sud Sudan, Darfur, Mali, Nigeria, Congo...). Conflitti questi
ultimi che i media occidentali per lo più liquidano come tribali, etnici o
religiosi, ma che in realtà sono scatenati dalle lotte di potere anche di ex
potenze coloniali e delle multinazionali ad esse legate per il controllo di
ricchezze naturali come il petrolio, l’uranio, i diamanti, l’oro e il coltan.
Ci piace ricordare al riguardo le parole di Papa Francesco nell’omelia
pronunciata durante la visita al Sacrario dei Caduti della Prima Guerra
Mondiale a Redipuglia il 13 settembre scorso, parole con cui ha puntato il dito
contro coloro che ha definito i "pianificatori
del terrore". “Dietro le quinte,
ha detto, ci sono interessi, piani
geopolitici, avidità di denaro e di potere, e c’è l’industria delle armi, che
sembra essere tanto importante!”.
La
stessa Primavera Araba, l’insieme di proteste e rivolte che nel corso del 2011
hanno sconvolto il mondo arabo e in pochi mesi hanno fatto cadere dittature
decennali, è stata spazzata via da contrapposti interessi di potere, anche di
potenze straniere. Allo stato attuale solo la rivoluzione dei gelsomini
tunisina è risultata vittoriosa. Anche se ha destato sconcerto il fatto che sui
42 membri del neo-costituito governo solo 8 donne hanno ricevuto un incarico,
di cui solo tre di tipo ministeriale.
In questi scenari di conflitti e di
instabilità politica si è poi andato affermando il terrorismo dell’Isis, quello di Boko Haram e di Al-Qaeda.
Difficile in tali contesti per le donne che lottano per la sopravvivenza far
sentire la loro voce.
Tuttavia
anche in questi scenari vi sono esempi di donne coraggiose costruttrici di pace.
Come Aminata Traorè, ex
ministra della cultura del Mali, una delle voci più autorevoli
dell’antiglobalizzazione che ultimamente ha condotto una grande campagna a
livello internazionale lanciando diversi appelli contro la guerra nel suo paese
e contro il predominio degli organismi finanziari che dettano l’agenda politica
ai governi eletti democraticamente. Rivendica l’autodeterminazione dei popoli
africani da costruire attraverso l’unità
e il dialogo. O come Catherine
Samba-Panza presidente della Repubblica Centrafricana col difficile compito
di riportare la pace in un paese in balia delle violenze.
Scendendo
più a sud nel continente africano troviamo
poi le donne in prima linea nella costruzione di paesi usciti da crisi e guerre
civili, come a dire che una volta che gli uomini hanno fallito nel compito di
governare sono le donne a prendere in mano il controllo della situazione. Pochi
forse sanno che mentre oggi nel mondo la rappresentanza femminile nei
parlamenti è solo del 19%, l’Africa rappresenta un dato in controtendenza con
una percentuale femminile in alcuni paesi africani in media del 35%. Il primato
è del Ruanda che con il 54,9% di
presenza femminile nel parlamento supera il 46,5% della Svezia. Vi sono
poi donne capi di stato come Ellen Johnson Sirleaf, per due volte
presidente della Liberia, un paese sconvolto da 27 anni di guerra civile.
Considerata donna di ferro contro la corruzione il suo lavoro consiste
soprattutto nel mettere le basi di un discorso di riconciliazione, recuperare
l’autorità del governo minata dalla figura del precedente presidente Charles
Taylor processato dal Tribunale Penale Internazionale per crimini di guerra,
cancellare il debito e ristabilire i servizi basici per la popolazione. Altre donne si sono avvicendate come capi di
governo in altri paesi africani, come Joyce
Banda in Malawi, Aminata Touré in Senegal.
In Liberia, Guinea e Sierra Leone un gruppo
di donne ha costituito la «Rete delle
donne del Mano River per la pace» (MARWOPNET). Il Mano è il fiume che
attraversa i tre paesi interessati. La loro azione ha rafforzato la pace tra i
paesi della Sierra Leone e della Liberia che avevano conosciuto 10 anni di
guerra. Questa rete oggi riconcilia famiglie e clan e favorisce il ritorno dei
rifugiati.
In Sud Africa Ashwin Desai, professore
di sociologia nell’Università di
Johannesburg, nel libro "Noi siamo
i poveri. Lotte comunitarie nel nuovo Apartheid", racconta le
esperienze comunitarie nelle township e le forme di lotta adottate dalla
popolazione (come quelle consistenti nel riallaccio delle forniture dei servizi
di acqua e luce precedentemente disconnessi, nel boicottaggio del pagamento dei
servizi e degli affitti e nell’opposizione agli sfratti) sottolineando come in
questi movimenti in prima linea ci siano le donne.
Noi Donne. Queste battaglie hanno dei punti in comune con le nuove sfide del
femminismo europeo ed occidentale? Se sì, quali? Se no, in cosa si discostano?
Casa Africa. Occorre premettere che tutte le battaglie delle donne
per la parità hanno un fondamentale punto in comune, almeno in linea teorica. Sono innanzitutto battaglie contro quella cultura patriarcale da cui
traggono linfa le strutture di potere che si manifestano nel colonialismo e
nelle varie forme di razzismo, sessismo e classismo. Sono battaglie per la
costruzione di un diverso sistema di valori fondati sull’uguaglianza e il
rispetto della persona e su cui poggia, in ultima analisi, la cultura della
pace. La prospettiva di genere costituisce in altri termini un parametro di
riferimento ed uno strumento di valutazione dei criteri su cui è fondata la
società ed è capace di mettere a fuoco ogni altro tipo di disuguaglianza e di
esclusione anche non di genere. Queste furono le importanti conclusioni a cui
pervennero i movimenti femminili mondiali chiamati a raccolta nelle Conferenze
Mondiali sulle donne convocate dalle Nazioni Unite negli anni ’70, ’80 e ’90
del secolo scorso. Momenti che segnarono l’incontro delle donne Nord/Sud e in
cui vennero definiti progetti politici a vasto raggio per una strategia globale
dei diritti umani fondati sull’uguaglianza.
Detto questo ci sembra che, di fatto, le battaglie
portate avanti dalle donne africane e/o arabe e/o islamiche si differenzino da
quelle delle donne europee e occidentali per un impegno ed un’attenzione maggiori verso il sociale nell’ottica
di una riorganizzazione dei loro paesi su altri sistemi di valori. Il movimento
femminile islamico per esempio, coglie nella rilettura dei testi sacri principi che non riguardano solo
la donna, ma sono universali. Le donne che lavorano nei paesi sconvolti dai
conflitti o usciti dai conflitti si preoccupano soprattutto di realizzare un
nuovo tipo di società fondato sull’autodeterminazione, sull’uguaglianza e sulla
lotta alla corruzione. Si tratta a ben vedere di battaglie che veicolano la democrazia e la pace.
Ci sembra invece che
ultimamente le battaglie delle donne europee e occidentali abbiano tradito
l’universalismo dei movimenti femminili originari e siano diventate per lo più
autoreferenziali. Disattente e a volte perfino contrapposte alle battaglie che
altri soggetti conducono per l’affermazione dei loro diritti fondati
sull’uguaglianza.
Un’altra caratteristica
che connota il movimento femminile delle donne africane e arabe da quello delle
donne occidentali consiste nel fatto che le loro battaglie non vanno a
detrimento dell’attaccamento ai vincoli
familiari e alle tradizioni del proprio paese di cui, anzi, vogliono
recuperare l’identità troppo spesso deturpata dal colonialismo.
Infine occorre
sottolineare che esiste una decisiva differenza fra le culture dei due
movimenti per quanto attiene all’uso del corpo femminile, posto che il femminismo occidentale, secondo un malinteso concetto di
libertà (o meglio "liberismo") sessuale, arriva al punto di giustificarne il
commercio nell’industria del sesso.
Ci sia consentita
infine un’osservazione riguardo all’atteggiamento di superiorità e all’immagine
stereotipata che molte donne occidentali hanno nei confronti delle donne
africane e/o islamiche. Immagine stereotipata che non tiene conto di una realtà
complessa e in continuo movimento e di cui viene fatta un’insopportabile
strumentalizzazione a livello internazionale e che, a giusto titolo, alcune femministe occidentali indicano
come il prodotto dell’intreccio tra sessismo e razzismo.
Le donne occidentali
dimenticano che l’emancipazione femminile, ovvero il
processo grazie al quale alle donne non è più applicato il trattamento
giuridico riservato ai “soggetti incapaci”, è stato nel mondo occidentale un fatto piuttosto recente. Fino a poco più
di un secolo fa in Italia e in molti altri regimi c.d. liberali, quali Gran
Bretagna e Stati Uniti, Francia le donne non potevano votare né ricoprire
incarichi pubblici, le donne sposate non erano libere di disporre del denaro
che guadagnavano con il proprio lavoro e non potevano promuovere un'azione
legale. In Italia solo nel 1919 fu promulgata la legge sulla capacità giuridica
della donna che abrogava l’istituto della potestà maritale.
Le
donne occidentali non tengono conto delle difficili condizioni geopolitiche dei
paesi in cui le donne africane e/o islamiche sono costrette a vivere, in uno
status che è tra i più precari del mondo. Non tengono conto del fatto che lo
stesso integralismo islamico che considera la donna araba come l’ultimo
baluardo da difendere dell’identità musulmana trova origine soprattutto nella
strumentalizzazione politica che dei dettami religiosi viene fatta dal mondo
arabo in chiave antioccidentale e anti colonialista.
Non si
interrogano,
infine, sulle responsabilità che i governi dei loro paesi hanno e hanno avuto
nel creare certe situazioni di instabilità, conflitto e antagonismo. Al
riguardo ci sembra opportuno riportate le incisive parole di Aïcha El Hajjami,
giurista marocchina, nell’articolo “A proposito del sedicente Stato Islamico”,
recentemente pubblicato dalla Libreria delle donne: “c’è
di che interrogarsi sulle conseguenze di una lunga serie di aggressioni e
umiliazioni subite dal mondo arabo-musulmano fin dai tempi della
colonizzazione; del sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici nella
nostra area (Saddam Hussein, Gheddafi, fintanto che servivano i loro
interessi!); della rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle
multinazionali; del perdurare dell’occupazione israeliana e del massacro della
popolazione palestinese; della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq, di
quella in Libia… Senza dimenticare che l’islamismo radicale è anche una
creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-URSS: Bin
Laden era stato armato da loro”.
A
proposito dell’immagine stereotipata delle donne africane pochi sanno che nel
continente africano è in vigore dal 2005 il Protocollo di Maputo sui diritti delle donne in Africa. Una
convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione e violenza
verso le donne e per l’avvio di una politica di parità fra i sessi che prende in considerazione alcuni aspetti
di fondamentale importanza per l’emancipazione e l’empowerment delle donne africane coprendo un’ampia varietà di temi.
Noi Donne. L'8 marzo è una giornata ancora "internazionale"? O resta, ad
oggi, una data per le femministe europee e perlopiù americane?
Casa Africa. L’idea di fissare una
giornata della donna (Woman's Day)
ebbe effettivamente origine negli Stati Uniti, nel 1909, su iniziativa del
Partito socialista americano in appoggio alle manifestazioni per il diritto di
voto delle donne che la fissò l’ultima domenica di febbraio. La ricorrenza ebbe
all’inizio una connotazione fortemente politica e venne proclamata dai partiti
socialisti europei in occasione di
eventi e lotte sociali in date diverse. La data dell’8 marzo venne
fissata per prima volta nel 1921 come “Giornata
internazionale dell'operaia“ dalla Conferenza internazionale delle donne comuniste
tenutasi a Mosca. Nel secondo
dopoguerra, con la guerra fredda, la ricorrenza perse lo stretto ancoraggio
alla cultura dei partiti socialisti e si aprì alle nuove tematiche portate
avanti dai movimenti femminili. Venne tuttavia mantenuta l’idea che dovesse
celebrare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne. Fu così
che in molti paesi, per lo più occidentali, venne fissata la data dell’8 marzo
in ricordo del tragico epilogo con cui si concluse la mobilitazione portata
avanti dalle operaie di una fabbrica tessile di New York, morte nel rogo della
loro fabbrica.
Nel frattempo i
movimenti e le battaglie femminili si andavano diffondendo su scala
internazionale. Fu così che venne decisa l’istituzione di una giornata internazionale. Nel 1977
l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione con cui
proponeva ad ogni paese, nel rispetto delle sue tradizioni storiche e dei
costumi locali, di dichiarare un giorno all'anno "Giornata delle Nazioni
Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale".
In molti paesi africani
e in alcuni paesi arabi viene dedicata alla donna, in date diverse, una
giornata che celebra episodi significativi delle battaglie femminili ed è
l’occasione per fare un bilancio dei progressi fatti, mobilitarsi per
rivendicare nuovi diritti e denunciare le discriminazioni ancora subite.
In Sud Africa il 9 agosto si commemora la mobilitazione con cui nel
1956, in pieno apartheid rischiando la vita, 20.000 donne si radunarono davanti
la sede del governo per protestare contro l’imposizione dei “pass”.
La giornata della donna
viene celebrata in Tunisia il 13
agosto. In tale giorno, nel 2012, migliaia di donne si riversarono nelle strade
di Tunisi per chiedere l’immediato
ritiro della norma inserita nel progetto di riforma della costituzione che
voleva cancellare il principio di parità tra i sessi riducendo la donna a
semplice complemento dell’uomo nell’ambito della famiglia e della società.
In Marocco la giornata della donna si celebra il 10 ottobre, in Gabon il 17 aprile, in Niger il 13 maggio. Mentre si celebra
l’8 marzo in Senegal (dove è festa
nazionale), in Congo, in Burkina Faso (dove, dal 1984, è stata
proclamata festa nazionale per decisione del compianto presidente Thomas Sankara), in Algeria e in Camerun, dove la giornata viene
vissuta come una grande mobilitazione delle donne in tutto il paese, dalle
campagne alla capitale.
Una curiosità: in Iran il 19 aprile dello scorso anno la moglie del
presidente Rouhani volle celebrare una giornata della donna organizzando una
cena tutta al femminile nel giorno dell'anniversario della nascita di Fatima,
figlia del Profeta Maometto. L’iniziativa fu fortemente criticata come immorale
dal deputato ultraconservatore Ruhollah Hosseinian che venne perciò
sbeffeggiato sui social network da numerosi internauti.
Nel 1974 durante la
Conferenza di Dakar dell’Organizzazione delle Donne Africane, organizzazione
fondata in Tanzania nel 1962, venne designato il 31 luglio come “giornata della donna africana” (African Day Women).
Quanto detto prova come sia sentita dalle donne di tutto
il mondo l’esigenza di disporre di una giornata in cui incontrarsi, confrontarsi per fare il punto dei progressi fatti e delle rivendicazioni
ancora da portare avanti. Una giornata in cui scendere in piazza per far
sentire la propria voce coinvolgendo così anche il mondo maschile. Il fatto che
ciò avvenga in date diverse può essere il segnale di perduranti
contrapposizioni che stentano a ritrovare quei punti unificanti e universali di
cui abbiamo parlato sopra e che dovrebbero orientare tutte le battaglie
femminili. Contrapposizioni che a volte traggono origine da una perdurante
subordinazione ideologica delle donne alla cultura maschile. La giornata della
donna dovrebbe essere veramente internazionale, unificante e, si aggiunga,
scevra da condizionamenti commerciali...
Noi Donne. Secondo voi, l'ottica femminista occidentale sta dimenticando di
combattere delle battaglie più urgenti e più "globali"? Se sì, quali?
Casa Africa. Ci sembra che il femminismo occidentale si sia
uniformato alla visione economicista e utilitarista del sistema neoliberista che si è andato affermando in Europa e negli Stati Uniti e ai modelli
culturali su cui questo sistema poggia. E’ così diventato autoreferenziale e si
è chiuso in se stesso perché ha perso di vista quei progetti politici a vasto
raggio per una strategia globale dei diritti umani fondati sull’uguaglianza e
sulla tutela dei diritti dei più vulnerabili di cui abbiamo parlato sopra. Il
fatto di riappropriarsi di questi valori significa per le donne valorizzare la propria diversità e far valere la propria capacità (empowerment) di contribuire ad una diversa organizzazione dei rapporti sociali.
mg e rk
Il testo pubblicato sulla rivista digitale “Noi Donne” a cura di Marta
Mariani si può leggere qui
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